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    Amore


    «Tu sei prezioso ai miei occhi e io ti amo»

    Carmine Di Sante

    (NPG 2002-07-2)



    “Tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo” (Is 43,4). A pronunciare queste parole è Dio il quale si rivolge ad Israele confidandogli: “Non temere, perché io ti ho liberato, ti ho chiamato per nome e tu mi appartieni. Se attraverserai i fiumi, io sarò con te: le acque non ti sommergeranno. Se passerai attraverso il fuoco, tu non brucerai: le fiamme non ti consumeranno. Io sono il Signore tuo Dio, il tuo salvatore… Tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo” (Is 43, 1-4).

    “Io ti amo”: tre parole, le più attese e desiderate, sognate e ricercate, dolci e tormentate, dell’esistenza umana e al centro delle letterature, filosofie e religioni dei popoli di tutti i tempi e di tutte le aree geografiche. Parole che, nel tempo, custodiscono e veicolano l’enigma dell’esistere. L’amore. Che come vuole Prévert nella sua celebre poesia, è “così violento, così fragile, così tenero, così disperato. Questo amore bello come il giorno e cattivo come il tempo quando il tempo è cattivo. Questo amore così vero, questo amore così bello, così felice, così gaio e così beffardo. Tremante di paura come un bambino al buio e così sicuro di sé come un cuore tranquillo nel cuore della notte... Questa cosa sempre nuova e che non è mai cambiata. Vera come una pianta, tremante come un uccello, calda e viva come l’estate. Noi possiamo tutti e due andare e ritornare. Noi possiamo dimenticare. Quindi riaddormentarci, risvegliarci soffrire invecchiare, addormentarci ancora, sognare la morte, svegliarci, sorridere e ridere e ringiovanire. Il nostro amore è là, testardo come un asino, vivo come il desiderio, crudele come la memoria, sciocco come i rimpianti, tenero come il ricordo, freddo come il marmo, bello come il giorno, fragile come un bambino. Ci guarda sorridendo e ci guarda senza dir nulla. E io tremante l’ascolto. E grido. Grido per te, grido per me. Ti supplico. Per te per me per tutti coloro che si amano. Sì io gli grido, per te per me e per tutti gli altri che non conosco, fermati là, là dove sei, là dove sei stato altre volte. Fermati, non muoverti, non andartene. Noi che ci siamo amati, noi che abbiamo dimenticato. Tu non dimenticarci. Non abbiamo che te sulla terra. Non lasciarci diventare gelidi. Anche se molto lontano, sempre e non importa dove, dacci un segno di vita. Molto più tardi ai margini del bosco, nella foresta della memoria. Alzati subito. Tendici la mano. E salvaci”.
    “Non abbiamo che te sulla terra”: è questa l’affermazione più condivisa da tutti nel mondo, ricchi e poveri, bianchi e neri, buoni e cattivi, giovani e vecchi, intellettuali e popolani, credenti e non credenti. Non abbiamo che l’amore. Che è la luce, la brezza, il refrigerio, l’energia, il coraggio, la speranza della vita. Necessario come il sole. Anche più necessario del sole. Perché senza l’amore né il sole né la luna né le stelle avrebbero senso per noi. Non abbiamo che l’amore sulla terra. Che fa vibrare il cuore e, attraverso il cuore, il sole, la luna, il cielo e le stelle. Nel suo ultimo colloquio con lo sconosciuto personaggio incontrato nel deserto, il piccolo principe gli confessa: “Ti voglio fare un regalo”. E alla domanda di quest’ultimo che gli chiede: “Che cosa vuoi dire?”, il piccolo principe risponde: “Gli uomini hanno delle stelle che non sono le stesse. Per gli uni, quelli che viaggiano, le stelle sono delle guide. Per altri non sono che delle piccole luci. Per altri, che sono dei sapienti, sono dei problemi. Per il mio uomo d’affari erano dell’oro. Ma tutte queste stelle stanno zitte. Tu, tu avrai delle stelle come nessuno ha…”. “Che cosa vuoi dire?”, incalza ancora più stupito il suo interlocutore. E il piccolo principe: “Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere… E quando ti sarai consolato (ci si consola sempre) sarai contento di avermi conosciuto. Sarai sempre il mio amico. Avrai voglia di ridere con me. E aprirai a volte la finestra, così, per il piacere… E i tuoi amici saranno stupiti di vederti ridere guardando il cielo. Allora tu dirai: ‘Sì le stelle mi fanno sempre ridere’ e ti crederanno pazzo…T’avrò fatto un brutto scherzo… Sarà come se t’avessi dato, invece delle stelle, mucchi di sonagli che sanno ridere” (Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Bompiani, Milano 1996, pp. 115-116).
    Per chi viaggia le stelle sono mappe di orientamento per non perdersi nel buio della notte o nel mare senza fine e confini; per lo studioso un insieme di domande che attendono risposte sulla loro origine, apparizione e composizione; per la maggior parte delle persone disattente e prese dai problemi immediati delle luci piccole e deboli rispetto a quella del sole e della luna. Per tutti questi esse sono oggetti da utilizzare o misurare che però non parlano: “Ma tutte queste stelle stanno zitte”. Per chi ama, invece, per chi in esse vede riflesso il volto di un tu o di un amico che le abita, le stelle sono altro: parlano, sorridono, sanno ridere e fanno ridere, come il mucchio di sonagli nelle mani di un bambino che esprimono allegria e invitano all’allegria: “Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere”. È l’amore – non la scienza, non l’intelligenza, non la ricchezza, non il successo, – il segreto che dà senso al mondo e ne trasfigura i monti, i colli, le valli, i fiumi, i mari, non mute presenze ma parole che parlano e gridano: “Io ti amo”.
    Per Isaia Dio è Dio perché in ogni istante dice all’uomo, ad ogni uomo, “io ti amo”. E lo dice con la continua ricreazione del mondo come dono e come casa dove gli è dato di sentirsi accolto e di trovare la risposta ai suoi bisogni. Secondo la tradizione ebraica, la prima cosa da fare al mattino quando si riaprono gli occhi, è di benedire Dio perché egli “restituisce l’anima ai nostri corpi” e “compie opere buone” ricreando il mondo. Svegliandosi e ritornando al rapporto con il mondo, l’importante, per il credente, non è sapere come ciò avvenga ma che, se ciò avviene, avviene per l’amore di Dio che crea e ricrea in ogni istante. Nel riprendere la coscienza, è Dio che “restituisce l’anima” al corpo morto; nel canto del gallo è Dio che ridistribuisce e ritma il tempo; nell’aprire gli occhi è lui che “restituisce la vista ai ciechi”; nell’alzarci è lui che ci ridona la libertà di movimento; nel vestirci è lui che veste gli ignudi; nel toccare con i piedi il pavimento, è lui “che distende la terra sulle acque”; nel metterci le scarpe è lui “che soddisfa le mie necessità”, ecc. Iniziare la giornata con questo sguardo sul reale non è retorica ma percezione e convinzione che il segreto del mondo è l’amore che risuona in ogni cosa dicendo, come vuole il profeta Isaia, “Io ti amo”.
    Questa voce, per Giovanni, è la definizione stessa di Dio. Nella sua prima lettera l’apostolo scrive infatti: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4, 7-11).
    In questo brano tra i più belli del Nuovo Testamento c’è la nota affermazione che “Dio è amore”. Amore: e quindi non forza, non energia, non principio, non intelligenza, non conoscenza, non onnipotenza (la categoria dell’onnipotenza che nel nostro Occidente è divenuta egemone e alla quale, nella sua figura di tekne, non ci si riesce più a sottrarre), non autosufficienza, non incantesimo, non seduzione, non bellezza, non desiderio, non cura di sé, e neppure preoccupazione della sua divinità e della sua sovranità, come afferma arditamente Paolo nel suo famoso inno cristologico nella lettera ai Filippesi, quando scrive che Gesù, “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma svuotò se stesso, assumendo la forma di schiavo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2, 6-7).
    Amore: cioè relazione, estasi (che letteralmente vuol dire stare fuori dal proprio io), uscita da sé, esodo dal proprio ego, attenzione all’altro, sguardo sulla povertà altrui, preoccupazione per il debole e il diverso, compassione, tenerezza, misericordia, perdono. Dio è amore perché è tutto questo. Ma non solo. Dio è amore in un senso ancora più sublime: perché vuole che ognuno di noi diventi capace di amare come lui: “Carissimi, se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri”. Amandoci, Dio non ci lascia ricettori del suo amore, ma ci eleva ad un amore che è come il suo. L’amore che ci ama ci ama elevandoci ad un amore come il suo.


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