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    «Nutrirci della Parola per essere servi della Parola» Proposta di un cammino


     

    Carmine Di Sante

    (NPG 2001-08-09)



    Nella lettera apostolica Novo millennio ineunte, consacrata ad un bilancio sulle celebrazioni giubilari per i duemila anni di nascita di Gesù, Giovanni Paolo II scrive: «Nutrirci della Parola per essere ‘servi della Parola’ nell’impegno dell’evangelizzazione: questa è sicuramente una priorità per la Chiesa all’inizio del nuovo millennio. È ormai tramontata, anche nei paesi di lontana evangelizzazione, la situazione di una ‘società cristiana’ che, pur tra le tante debolezze che sempre segnano l’umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici. Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture che la caratterizza. Ho tante volte ripetuto in questi anni l’appello della nuova evangelizzazione. Lo ribadisco ora, soprattutto per indicare che occorre riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall’ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: ‘Guai a me se non predicassi il Vangelo’ (1Cor 9,16)» (n.40).

    All’inizio del nuovo millennio, in un contesto sempre più globale e secolarizzato, caratterizzato da un «nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture», i credenti e le comunità cristiane sono chiamate a farsi carico di una nuova evangelizzazione: di un nuovo annuncio dell’evangelo, della «buona notizia» o «novella» portata e incarnata da Gesù e che consiste nell’annunciare al mondo l’amore creatore e ricreatore del Padre. Perché questa «nuova evangelizzazione» sia in grado di raggiungere veramente gli uomini e le donne delle società secolarizzate di oggi, c’è una strada obbligata, ed è di tornare alla Dei Verbum: alla Parola di Dio, alla quale, non senza significato, il Concilio Ecumenico Vaticano II ha consacrato una delle sue costituzioni più importanti - la Dei Verbum appunto - che della chiesa e delle chiese è il fondamento e la radice che le alimenta. Di qui il motto del papa: «nutrirci della Parola per essere ‘servi della Parola’ nell’impegno della evangelizzazione». Che vuol dire: perché la nuova evangelizzazione sia tale deve incentrarsi sulla Dei Verbum, sulla Parola divina di cui «nutrirsi» e farsi «servi». Questa evangelizzazione incentrata sulla Parola deve impegnare le chiese non per un anno o alcuni anni ma per sempre, diventando, per esse, uno stile o un atteggiamento, e coinvolgendo non solo alcune categorie (missionari, vescovi, presbiteri e religiosi) ma tutti indistintamente, secondo quanto scrive ancora il papa nella sua lettera apostolica: «Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani» (ivi).
    Quanto segue si offre come proposta per le comunità credenti interessate ad una «appropriazione» della Parola di Dio: a come «incontrarla» e farla «carne della propria carne». «Appropriazione» della Parola, quindi, non nel senso di possederla e ridurla a misura del proprio io sovrano ed egoista (rischio al quale nessun lettore, e neppure il lettore che si vuole credente, è mai del tutto esente), ma in quello di lasciarla penetrare nella propria soggettività, eliminando gli ostacoli che ne impediscono l’ascolto e l’accoglienza.
    Accostarsi al testo biblico, ritrovando nelle sue parole la Parola che, attraverso esse, Dio parla, è difficile e costituisce, oggi soprattutto, una sfida per le comunità cristiane: perché l’approccio al testo biblico, non diversamente che per ogni grande testo letterario, esige delle competenze interpretative da acquisire; ma soprattutto perché, nelle comunità cristiane, la conoscenza delle scritture è ancora insufficiente, nonostante siano passati quasi cinquant’anni dalla svolta del Vaticano II con la Dei Verbum.
    Procediamo in sei tappe: la prima offre delle informazioni introduttive per chi si accosta al testo biblico per la prima volta (Parola preparata); la seconda presenta il primo livello di comprensione della bibbia come testo scritto (Parola scritta); la terza ne individua il secondo livello di comprensione nella sua dimensione narrativa (Parola parlata); la quarta l’approfondisce come il luogo o sacramento dove Dio parla (Parola parlante); la quinta propone delle piste di approfondimento relative alla formazione del testo biblico; la sesta infine (Parola celebrata) introduce il tema della liturgia come lo spazio simbolico, pubblico e istituzionale, dove, nel tempo, la Parola di Dio continua a risuonare.

    PAROLA PREPARATA

    Chi invita qualcuno a pranzo prepara con cura la mensa perché l’invitato goda gioiosamente dei cibi e delle bevande. Secondo la felice metafora della costituzione conciliare sulla Liturgia, approvata nel 1963 nella seconda sessione del Vaticano II, la prima parte della messa è come una mensa: «Affinché la mensa della parola di Dio sia preparata ai fedeli con maggiore abbondanza, vengano aperti più largamente i tesori della Bibbia, in modo che, in un determinato numero di anni, si leggano al popolo le parti più importanti della Sacra Scrittura» (Sacrosanctum Concilium, 51).
    Ciò che questa metafora dice è che, per annunciare la Parola, non basta mettere la bibbia nelle mani del lettore ma - proprio come si fa con il cibo apparecchiato sulla mensa - deve essere preparata e «lavorata» per essere gustata e assimilata. Compito dei responsabili delle comunità e dei credenti è di gustare e far gustare la Parola, promuovendone l’ascolto e la ricezione. Compito non facile che - più del cucinare - è arte che richiede conoscenze e competenze. Di qui la ragione di questo paragrafo che ha per titolo Parola preparata, con cui si intende che, per annunciare la Parola ed evangelizzare, non basta leggere e far leggere la bibbia, ma è necessario fornirsi e fornire strumenti adeguati per interpretarla e penetrarla. Anche se negli ultimi anni i livelli di conoscenza del testo biblico sono aumentati, soprattutto grazie alle scuole di teologia per laici, il lavoro da fare resta ancora molto e il futuro che amo sognare è quello in cui le comunità cristiane siano una rete di «gruppi biblici» a dimensione familiare dove la Parola, letta, scavata, meditata e trasformata in «carne» e «sangue» della vita, irradi una luce che, dell’evangelizzazione, è l’anima e la radice.
    Vengono qui suggeriti alcuni strumenti utili per prepararsi e preparare alla Parola:
    * una buona traduzione della bibbia: una delle migliori è la cosiddetta Bibbia di Gerusalemme, per le sue note essenziali e succose e le sue introduzioni ai singoli libri puntuali e accessibili anche a chi si accosta alla bibbia per la prima volta. Consigliabile anche il ricorso a più traduzioni il cui confronto - soprattutto per chi non ha la possibilità di conoscere le lingue originali dell’ebraico e del greco con le quali la bibbia è stata scritta - aiuta a far emergere le ricchezze spesso inesauribili del testo originale;
    * un dizionario di facile consultazione: tra i tanti, per il suo carattere conciso e preciso oltre che per la sua ricchezza informativa, H. Haag, Dizionario biblico, a cura di Bruno Maggioni, Cittadella Editrice, Assisi 1997. Ottimo strumento di lavoro, soprattutto per il suo aggancio con l’esperienza quotidiana, il volume di J. Pilch, Il sapore della parola. Lessico della vita quotidiana nella bibbia, presentazione di G. Ravasi, Ancora, Milano 2000;
    * un libro di introduzione al testo biblico: da consigliare, per un pubblico giovanile, C. Bissoli, Una bibbia sempre giovane. Tracce per un incontro, Elledici 1998. E inoltre: M. Cimosa, Dio e l’uomo. La storia di un incontro, Elledici 1998.
    Oltre però che di strumenti adeguati, il testo biblico necessita soprattutto di un atteggiamento positivo e non pregiudiziale. Una lunga tradizione, radicata nell’occidente cristiano, influenzata, come è noto, dal logocentrismo della filosofia greca, vuole che la bibbia sia un deposito di verità rivelate da Dio all’intelligenza umana e che per aderirvi sia necessaria la fede, come accettazione e obbedienza alla sua volontà. In quanto deposito di verità (che, ad esempio, Dio ha creato il mondo, ha reso l’uomo a sua immagine e somiglianza, ha chiamato Abramo ad uscire dalla sua terra, ha stipulato un’alleanza con il popolo ebraico sul monte Sinai, ha inviato Gesù come figlio per redimere il mondo e annunciare la vita eterna, ecc.), la bibbia non poteva non entrare in conflitto, prima o dopo, con altre verità rivendicanti la stessa razionalità o un di più di razionalità e, ricondotta indebitamente alla sola dimensione religiosa, non poteva non escludere il non credente, chi si ritenesse o fosse ritenuto sprovvisto della fede. La storia della modernità è stata prevalentemente la storia di questo conflitto: da una parte le chiese per le quali la bibbia è deposito infallibile di verità e dall’altra la cultura «laica», razionalista, illuminista e secolarizzata, per la quale essa è un insieme di «miti» (nel senso negativo e deteriore del termine) e di leggende prive di ogni reale fondamento veritativo. Di qui l’equivoco che ancora permane: pensare che il testo biblico sia il libro del credente e che non abbia nulla da insegnare al non credente.
    In realtà, più che un deposito di verità, la bibbia è un racconto e, se racconto, essa parla a tutti, credenti e non credenti, e svela il suo senso non a chi ha fede ma a chi si pone e si dispone all’ascolto di ciò che esso narra. Sostenere che per capire la bibbia sia necessaria la fede e che chi ne è privo - il dubbioso, l’agnostico o il non credente - sarebbe impossibilitato ad accedervi è falso. Non la fede ma l’ascolto - l’ascolto non prevenuto ma partecipe - è la condizione di possibilità di accesso al testo biblico. Ascolto che, come ogni ascolto, trasforma, provocando alla decisione: sia questa il sì che vi aderisce, facendo dire; «che bello!; è così; ci credo» (la fede); o il no che porta a dissentire e a prendere le distanze: «no, non può essere, non mi convince» (il rifiuto); o - più probabilmente, come avviene quasi sempre di fronte ai grandi testi - la sorpresa che, al di là del sì e al di là del no, fa dire: «chissà; forse; non ci avevo mai pensato; ci penserò» (il rimettersi in discussione).
    Scrive D. C. Maguire: «Sostengo che gli scritti biblici dell’ebraismo e del cristianesimo superano l’esame di classicità e vengono compresi e utilizzati al meglio se letti come classici… Il riconoscimento delle scritture ebraiche e cristiane come classici suggerisce le regole per interpretarli. Come avvicinarci ai classici, e in particolare a questi classici? Modestia e stupore sono il codice di comportamento di chi interpreta le opere classiche.
    In termini di conoscenza, il classico è un luogo sacro. Dobbiamo toglierci (per quanto possiamo) i sandali ideologici e razionalistici in presenza del roveto ardente, e sostare pronti all’estasi. Di fronte a questo spettacolo di fiamma, potremmo anche accontentarci (come fanno molti esegeti e teologi) di analizzare le leggi della combustibilità, ma ci perderemmo così il miracolo. Un’esegesi puramente tecnica, smarrita nelle sue minuzie, rende un servizio ben limitato: ci offre analisi sulla struttura della foglia, mentre perde di vista lo splendore della foresta…
    Conoscere un classico non è conoscere i suoi testi ma la sua personalità. Molti specialisti su questo o quell’aspetto dei classici non sono degli intenditori, e questo non può non intaccare, in ultima analisi, anche la loro abilità filologica.
    Trattano di poesia, ma, forse, non sono essi stessi poeti. A volte, la persona semplice, incolta, trova in un classico verità che sfuggono a uno studioso» (Il cuore etico della tradizione ebraico-cristiana. Una lettura laica della bibbia, Cittadella Editrice, Assisi 1998, pp. 101-102).
    Il modo migliore per accostarsi alla bibbia è considerarlo, come vuole Maguire, un classico - anzi uno dei più grandi classici - dell’umanità che, come ogni classico, sprigiona scintille di senso, al di là del proprio tempo e in tutti i tempi.

    PAROLA SCRITTA

    Il primo livello di significazione della bibbia è quello che la identifica come un insieme di «piccoli libri». Il termine bibbia rimanda infatti alla parola greca biblia, plurale di biblion, diminutivo di biblos, che vuol dire, appunto, libro. Con una felice immagine si è detto che, più che un libro, la bibbia è una piccola «biblioteca di libri». Come è noto, la «biblioteca» è il luogo-contenitore di più libri, lo spazio dove trovano continuità e vicinanza libri molteplici e differenti per autori, epoche e linguaggi. Luogo-contenitore - c’è da aggiungere - dove i libri non sono giustapposti ma «ordinati», messi insieme l’uno accanto all’altro non casualmente ma intenzionalmente, in base a dei criteri che ne sono il filo unificante. La metafora della bibbia come piccola «biblioteca di libri» vuol dire allora due cose: che essa non è un solo libro ma l’insieme di più libri (anche se di fatto, stampati insieme per ragioni di comodità, figurano come un solo libro) diversi non solo per epoche e autori ma per contenuti, intenti e finalità (per «genere letterario», secondo il modo comune di dire degli studiosi); che ciononostante però c’è tra di essi un filo profondo che ne garantisce l’armonia e l’unità dove l’uno richiama l’altro e di ogni altro è la ripresa, l’approfondimento o la messa a fuoco di un aspetto.
    Conoscere la bibbia - per evangelizzare - è conoscere innanzitutto la pluralità di questi libri che, secondo il concilio di Trento, sono 73: 46 per il primo Testamento o Antico Testamento, 27 per il secondo Testamento o Nuovo Testamento. Conoscerli: avere e trasmettere quelle informazioni generali - inquadratura storica e geografica, analisi letteraria, livelli di interpretazione e chiavi di letture - necessarie alla loro comprensione e senza le quali il testo biblico non parla o si presta ad essere manipolato, facendo da supporto alle idee del lettore invece che metterle in discussione e aprirlo ad orizzonti nuovi.
    Conoscere la bibbia però è soprattutto intra-vedere e cogliere il filo profondo che li attraversa e che della loro pluralità fa un’unità corale dove le molteplici differenze, a volte irriducibili, non producono dissonanza ma un di più di armonia. Conoscere - e far conoscere - la bibbia è dis-velare e portare alla luce questo filo e percepire, al di là delle differenze profonde di tempo (libri scritti in epoche lontane), di spazio (che può andare dall’Egitto, alla Mesopotamia a Gersusalemme, a Roma), di linguaggio (ebraico, aramaico e greco) e di immagini e di generi letterari (storici, giuridici, narrativi, profetici e sapienziali), l’unità corale che in essa si esprime e di cui i vari testi sono come note della stessa melodia.
    Questo filo conduttore che costituisce in unità la pluralità dei testi della bibbia, facendo risuonare in essa una musica che, per l’orecchio attento, è la stessa, anche se con tonalità diverse, è che Dio ha parlato e parla attraverso di essi: che essi, secondo il linguaggio della tradizione, sono parola di Dio. La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, nota come Dei Verbum, parola di Dio, dalle prime parole con cui inizia, parlando della natura e dell’oggetto della rivelazione, stabilisce: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cf Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cf Ef 2,18; 2Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cf Col 1,15; 1Tim 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come amici (cf Es 33,11; Gb 15, 14-15) e si intrattiene con essi (cf Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé» (n.2). In questo paragrafo, uno dei più belli della costituzione dogmatica sulla rivelazione, viene detto in che senso la parola di Dio è il filo conduttore e unificante della bibbia e come essa debba essere intesa adeguatamente:
    - è una parola innanzitutto con la quale «Dio parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé». Ciò che i testi biblici dicono dalla prima all’ultima delle sue pagine - e ne costituisce l’unità profonda - è che, nel mondo, l’uomo non è solo e che la sua vera identità non è quella di essere parte del mondo o della storia (poco importa se in quanto ne è dominato, come vogliono le culture premoderne, o dominatore, come vuole la modernità europea), ma interlocutore e partner di un Dio che si intrattiene con lui come amico, dischiudendogli così una vocazione o un «destino» (nel senso di una meta alla quale è destinato) che non si inscrive nell’ambito storico ma extrastorico e che è l’essere invitati e ammessi alla comunione con Dio stesso;
    - in secondo luogo questa parola con la quale Dio «parla agli uomini come amici» non è deducibile in alcun modo dalla natura dell’uomo, né dalla sua struttura antropologica né dalla sua costituzione ontologica (dicendo ad esempio che l’uomo è desiderio d’infinito e che a tale desiderio risponderebbe la rivelazione), ma appartiene all’ordine dell’evento e, pertanto, della libera decisione di Dio al quale «piacque… nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (sacramentum voluntatis tuae; nell’originale greco: mysterion tou thelematos autou)». Il parlare di Dio - il suo dire all’uomo che lo vuole amico, «per invitarlo e ammetterlo alla comunione con Sé» - è un segno o sacramento della sua volontà: è un parlare cioè che non si iscrive nell’ordine della necessità (se così fosse non avrebbe senso parlare di parola di Dio in senso proprio) ma in quello della sua libera volontà di cui la parola è, appunto, il segno o sacramento;
    - in terzo luogo, per la tradizione cristiana, la parola con la quale Dio «parla agli uomini come amici» trova la sua espressione più alta e la sua concentrazione sublime in Gesù di Nazaret, il figlio d’Israele morto sulla croce in obbedienza al Padre e per amore dei fratelli, che Giovanni, il quarto evangelista, definisce come la Parola stessa fatta carne (Verbum caro factum est): metafora e più che metafora che dice che Gesù, nella sua storicità e nella sua storia, attraverso le sue parole e le sue opere e soprattutto la sua morte e la sua risurrezione, è la rivelazione escatologica - cioè definitiva - di Dio: la parola compiuta con la quale egli «nel suo grande amore parla agli uomini come amici». Per questo, per la tradizione cristiana, i libri biblici si organizzano intorno a due nuclei rivelativi fondamentali che formano rispettivamente il primo Testamento o Antico Testamento (le scritture ebraiche) e il secondo Testamento o Nuovo Testamento (le scritture cristiane) e che permangono in un rapporto costitutivo di circolarità reciproca.

    PAROLA PARLATA

    Prima che parola scritta la bibbia però è parola parlata: parlata da Dio con la quale egli «nel suo grande amore parla agli uomini come amici» e parlata dai redattori del testo sacro i quali - come mostrano sempre più gli studi biblici - prima che autori erano narratori e, prima che scrittori, trascrittori delle tradizioni orali attraverso le quali Israele e le protocomunità cristiane narravano e tramandavano le loro «storie»: come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe avesse liberato i propri antenati dalla schiavitù d’Egitto (la tradizione orale del primo Testamento) e come, lo stesso Dio, avesse liberato Gesù dai lacci della morte e lo avesse elevato alla sua destra con la risurrezione (la tradizione orale del secondo Testamento). Riscoprire nella trama del testo scritto la priorità della tradizione orale che l’origina e la sottende non è solo constatare che, come è avvenuto nella maggior parte delle culture, la scrittura della bibbia è successiva alla sua fase orale ma, più in profondità, rivendicare che il suo statuto letterario è quello del racconto e che il modo adeguato per comprenderla è di analizzarla appunto come tale. Duplice racconto: il racconto fondatore dell’amore di Dio (primo Testamento) e il racconto rifondatore del suo amore in Gesù morto e risorto (secondo Testamento).

    Il primo racconto fondatore è il racconto esodico, che si struttura intorno a tre nuclei narrativi e tematici che sono: l’uscita dall’Egitto, la salita sul monte Sinai e l’ingresso nella terra promessa. Tre nuclei narrativi e tematici che, simbolicamente, si dispiegano in tre luoghi diversi - l’Egitto, il «luogo» del potere oppressore; il Sinai, il «luogo» dell’alleanza e della legge; la terra di Canaan, il luogo della terra o polis dove giunge a compimento il processo della liberazione - e in ciascuno dei quali gli attori sono sempre due, lo straniero da una parte - Israele straniero in Egitto - e Dio dall’altra. Il racconto fondativo di Israele è il racconto di ciò che accade tra Dio e lo straniero, tra Dio e Israele straniero, rappresentante dell’umano.
    * Il primo nucleo del racconto fondatore è la messa in scena della sollecitudine di Dio che, all’improvviso, irrompe ed entra come liberatore nella storia dello straniero - Israele straniero - oppresso in Egitto: «Nel lungo corso di quegli anni il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese cura» (Es 2, 23-25).
    Abbiamo in questo testo l’autorivelazione di Dio come alterità che interviene liberamente non perché invocato ma perché sceglie di farlo liberamente. Il testo non dice che Israele rivolge il suo grido a Dio, ma semplicemente che grida e che Dio ascoltò «allora» quel grido. La novità del Dio biblico è tutta concentrata in questo scarno «allora», traduzione del più scarno vau ebraico, da interpretare non in senso consequenziale ma evenemenziale: l’apertura dello spazio dell’evento (da cui il termine «evenemenziale») dove il divino e l’umano si rapportano non sul principio della necessità o della spontaneità ma della libertà e della gratuità. Affermando che Dio interviene non perché invocato ma per libera decisione personale, anteriormente e indipendentemente dall’invocazione d’Israele, il racconto svela che, per la bibbia, tra il divino e l’umano esiste un’irriducibile differenza e che la distanza incolmabile che li separa non è superata dal movimento ascensionale dell’io, in quanto bisogno o desiderio di Dio, bensì - questo, vero miracolo ed evento! - dalla discesa di Dio verso l’io nella sua nudità e alterità.
    L’instaurazione del divino come alterità che, invece di essere cercato e amato dall’uomo, è lui per primo a cercarlo e amarlo (si ricordi che per la filosofia greca Dio era eromenos, oggetto di amore da parte dell’uomo ma non soggetto di amore nei suoi confronti!) rappresenta una delle più grandi rivoluzioni nella storia delle idee umane e si colloca ad un’altezza tale che è quasi impensabile da un pensiero il cui pensare è identificare: ricondurre e ridurre tutto ciò che esiste, sincronicamente e diacronicamente, all’«idem», allo Stesso e al Medesimo. La dimensione sconvolgente di questa rivoluzione è nel fatto che, per la prima volta nella storia umana, il divino è testimoniato e tematizzato non come Presenza organica che fa tutt’uno con la realtà sociale, legittimandone e personificandone i valori e i modelli (terra, lingua, cultura e istituzioni), bensì come Presenza dis-organica che introduce una rottura nella totalità e impedisce l’identità tra sé e il collettivo che, su di essa, si costituisce. A differenza dell’Egitto, dove Dio è il Dio degli egiziani e dove lo spazio egiziano coincide con lo spazio umano (lo stesso si dica del Dio dei babilonesi, dei greci o dei romani), la bibbia conosce un Dio il quale si lega ad Israele per libera scelta ed è il Dio non d’Israele ma di Adam, dell’Uomo, cioè di ogni uomo.
    Rivelazione del divino come alterità, il primo nucleo del racconto esodico svela anche l’umano come alterità: non l’alterità gettata e abbandonata, la cui fonte di salvezza è la cura di sé, bensì l’alterità accolta e custodita dall’Alterità divina che se ne prende cura per libertà d’amore. Facendo esperienza dell’alterità di Dio come condiscendenza, Israele - lo straniero - fa l’esperienza della propria alterità come alterità amata, oggetto di una cura che è pura grazia. Il primo nucleo del racconto esodico, svelando il divino come Alterità d’amore, svela l’umano come grazia: lo spazio dove si vale non in forza di ciò che l’io fa bensì in forza di ciò che all’io è fatto prima e indipendentemente da ciò che desidera, pensa, progetta e realizza e dove il suo essere è essere in una relazione d’amore incondizionata che non è posta da lui ma in cui è posto.
    * Il secondo nucleo del racconto fondatore è costituito da quei testi che, simbolicamente, si organizzano intorno al monte Sinai e, tematicamente, intorno alla categoria della Torah o Legge e che occupano la seconda parte del libro dell’Esodo, dal capitolo sedici in poi, e buona parte dei rimanenti libri del Pentateuco, dal Levitico al Deuteronomio.
    Più esteso, narrativamente e tematicamente, il secondo nucleo è la messa in scena dell’alleanza o patto con cui Dio stringe a sé Israele sul Monte Sinai chiedendogli fedeltà e obbedienza: «Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: ‘Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti’. Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore. Tutto il popolo rispose insieme e disse: ‘Quanto il Signore ha detto noi lo faremo’» (Es 19, 5-9).
    Ciò che Dio chiede ad Israele sul monte Sinai è di essere ascoltato in ciò che chiede («se vorrete ascoltare la mia voce») e ciò che egli chiede non è di essere amato ma che Israele ami con la stessa gratuità con cui è stato amato: «Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me». Amato da straniero, gratuitamente e immeritatamente, Israele è chiamato ad amare lo straniero - ogni straniero - gratuitamente e immeritatamente: «Non molesterai lo straniero, né lo opprimerai, perché voi siete stati stranieri nel paese d’Egitto» (Es 22, 20). Amato «da straniero», Israele deve fare lo stesso nei confronti dello straniero, di ogni straniero. La relazione di grazia sperimentata deve essere riprodotta e imitata, divenendo, per Israele, il metron del pensare e dell’agire. Se per la saggezza greca, espressa da Protagora, panton krematon metron - misura di tutte le cose - è l’uomo, per la saggezza biblica, panton krematon metron è l’agire gratuito di Dio offerto all’uomo come metron. «Oggetto» di relazione di grazia, perché amato da straniero, Israele è chiamato a farsi a sua volta soggetto di grazia, amando ogni straniero allo stesso modo. La potenza del racconto sinaitico della stipulazione dell’alleanza è tutta qui: nell’istituire l’umano come gratuità e come responsabilità, dove l’io non è per sé ma per l’altro (cf il mio piccolo saggio Responsabilità. L’io per l’altro, Edizioni Lavoro-Edizioni Esperienze, Roma 19992) e dove, secondo il titolo dell’altro celebre saggio di E. Lévinas, l’umanesimo è l’Umanesimo dell’altro uomo. (Il Melangolo, Genova 1998).
    * Infine il terzo e ultimo nucleo del racconto fondatore si organizza intorno al luogo geografico e simbolico di Canaan e occupa le pagine bellissime del Deuteronomio e soprattutto del libro di Giosuè, l’uomo scelto da Dio ad introdurre Israele nella terra promessa: una terra paradossale, della quale Israele non potrà mai rivendicare il possesso e nella quale potrà abitarvi solo restandovi da «straniero», come Dio gli ordina nel passo del Levitico dedicato all’istituzione dell’anno giubilare: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come stranieri e inquilini».
    Il rapporto d’Israele con la sua terra - con termini moderni: con la sua polis - non si istituisce sulla logica dell’identità e del possesso bensì su quella della grazia e della asimmetria: quella grazia che Israele sperimentò uscendo dall’Egitto e quella asimmetria che sul Sinai gli fu proposta come metron del suo essere e del suo agire. Per Israele, il fondamento della polis, ciò che la rende salda e compatta, ordinata e buona, non è l’ordine razionale in cui si iscrive e che è compito del logos ritrascrivere, come vuole la filosofia greca, e neppure il patto sociale che l’io istituisce con altri io per evitare la guerra e ridurre i conflitti, come vuole la modernità, bensì la relazione gratuita o fraternità con cui l’io va incontro all’altro incondizionatamente e asimmetricamente, riproducendo il gesto originario della gratuità divina.

    Come il primo racconto fondatore, anche il racconto rifondatore del Nuovo Testamento si organizza intorno a tre nuclei narrativi: la passio Jesu, il racconto della sua passione e della sua morte; la risurrezione, il racconto di come il Padre lo abbia istituito vincitore e signore della morte; l’invio dello Spirito: il racconto di come il dono della sua vita in obbedienza al Padre e per amore dei fratelli abbia riaperto, nella storia, lo spazio della creazione dove tornare a vivere da figli e da fratelli.
    Teologicamente, per Giovanni, la morte, la risurrezione e l’invio dello Spirito costituiscono un unico evento che accade nel momento in cui Gesù spira sulla croce: «Dopo questo [la sua crocifissione]… Gesù disse: ‘Tutto è compiuto!’. E, chinato il capo, spirò» (Gv 19, 28-30). Sulla croce Giovanni vede compiersi il piano di Dio («Tutto è compiuto») finalizzato al dono dello spirito con il quale ricreare il mondo. «Spirò»: traduzione del latino tradidit spiritum (consegnò lo spirito) e dell’originale greco paredoken to pneuma (fece dono dello spirito). Mirabile bisenso - i doppi sensi così cari al quarto evangelista - con cui Giovanni fa coincidere la morte di Gesù con la sua risurrezione dalla quale, come da fonte viva, fluisce l’«acqua» dello spirito. Il racconto neotestamentario è la deconcentrazione di questo evento teologale dispiegato intorno a tre nuclei narrativi.
    Il primo nucleo, costituito dai racconti di passione, occupa la parte più consistente dei quattro vangeli e in essi la morte di Gesù è narrata come atto di obbedienza a Dio e di amore all’umanità violenta che, scoprendosi amata nella sua violenza, ne scopre l’infondatezza e può sconfiggerla. Il secondo nucleo è costituito dai racconti di risurrezione, tomba vuota, apparizioni e ascensione, e narra della risposta del Padre alla morte di Gesù in obbedienza alla sua volontà e per amore dell’umanità. Questi racconti occupano la parte finale dei vangeli e il primo capitolo del libro degli Atti. Il terzo nucleo infine è costituito dai racconti di discesa dello Spirito Santo in cui si narra della sua potenza rinnovatrice della storia umana. Questi ultimi racconti occupano il libro degli Atti, soprattutto i primi capitoli che descrivono le prime comunità cristiane come aventi «un cuore solo e un’anima sola» e dove nessuno più diceva: «è mio», essendo tutto in comune come nell’eden delle origini.
    Rifondatore, il racconto del Nuovo Testamento non si oppone né trascende quello del primo Testamento ma ne è la reintegrazione e l’inveramento. Con il suo racconto incentrato sulla morte, risurrezione e discesa dello Spirito, il Nuovo Testamento dice che, anche dopo il rifiuto e il peccato, l’uomo è amato e liberato da Dio come Israele in Egitto (il primo nucleo del racconto fondatore del primo Testamento), è chiamato e interpellato a farsi di nuovo suo interlocutore e responsabile come il popolo ebraico sul monte Sinai (il secondo nucleo del racconto fondatore) ed è pertanto ricostituito nella possibilità di realizzare una polis ordinata e felice, dove scorra «latte e miele», come nella terra data in dono e promessa ad Israele (il terzo nucleo del racconto fondatore).

    PAROLA PARLANTE

    Parola scritta che rimanda ad una parola parlata, la bibbia è però soprattutto parola parlante: la parola che Dio parla e attraverso la quale egli dice all’uomo di tutti i tempi: «Io ti amo». La bibbia, come parola scritta e come parola parlata, rimanda ad un al di là dello scritto e del parlato, ed è il parlare di Dio, il suo essere Tu d’amore con cui irrompe nella storia, interpellando le coscienze umane, sottraendole alle appartenenze ed elevandole alla dimensione del dialogo - o, con linguaggio biblico, dell’alleanza - con il suo Tu eterno. La bibbia dischiude il suo senso radicale e illuminante solo quando, al di là del detto delle sue pagine, se ne intravede il non detto che è il dire di Dio: il suo parlare all’io, il suo essergli amico e compagno di viaggio, il suo non abbandonarlo mai anche quando è lui ad abbandonarlo, ignorarlo o dimenticarlo. Leggere la bibbia è lasciarsi sorprendere da questo Dio che trasforma l’esistente, come quando nel buio della notte o nell’abisso della caverna filtra improvvisa una luce che ne spacca le tenebre e vi ridisegna dolcemente la forma dei colori e delle cose.
    La bibbia è il racconto di questa irruzione trasformante e trasfigurante l’esistente; l’esistente - si è detto - e non l’anima o le anime. L’esistente: che è e può essere solo materiale, economico e politico, dal momento che esistere è esistere materialmente, abitando un corpo; economicamente, necessitando il nostro corpo di cose e di averi; e politicamente, vivendo gli uni accanto agli altri e avendo ognuno bisogno dell’altro. Una delle ragioni che, più di ogni altra, ha allontanato e allontana la bibbia dalla vita reale e dalla «cultura materiale» (la cultura come risposta ai bisogni dell’uomo e delle collettività nel loro essere al mondo) è l’averla ridotta indebitamente ad un testo consolatorio per delle anime pie, ignorando od occultando il fatto che essa è e vuole essere l’annuncio di un umano il cui segreto o principio non è l’appartenenza, come vogliono le culture organiche del passato, né la sovranità dell’io, come vuole la cultura moderna e postmoderna bensì la gratuità recettiva e attiva: lo stupore di esistere in forza di un’Alterità - l’Alterità divina, Dio - che ama gratuitamente, chiama ad amare gratuitamente e vuole una polis dove gli umani si amino come Dio gratuitamente, facendosi carico l’uno dell’altro.
    La forza e l’attualità del racconto biblico - oggi soprattutto nell’epoca della «globalizzazione» e delle trasformazioni radicali dove, per la prima volta, l’umanità di fatto sta diventando una sola famiglia o «condominio» - è nella instaurazione di un pensiero dell’ospitalità (cf il mio ultimo volumetto L’io ospitale, Edizioni Lavoro-Editrice Esperienze, Roma 2001) e nella istituzione di una polis della fraternità dove ognuno sia accolto e amato nella sua alterità. Si è notato da più parti che, dei tre grandi principi della rivoluzione francese - libertà, uguaglianza e fraternità - solo i primi due hanno conosciuto forme concrete di traduzione - pur con tutte le contraddizioni e ambiguità - sul piano storico e politico attraverso l’istituzione delle democrazie e della carta dei Diritti individuali, e che di fatto il principio fraternità è stato ignorato o rimosso, per cui ancora attende di essere preso sul serio e attuato. La bibbia - definita dal critico letterario canadese Northrop Frye «il grande codice della cultura» occidentale - è soprattutto il «grande codice» della fraternità che custodisce l’utopia di un umano dove gli uomini non sono né «lupi» che aggrediscono, né «agnelli» che subiscono, né estranei che si ignorano, né lottatori che competono, ma unici e diversi chiamati ad accogliersi come fratelli e come sorelle.
    La potenza del racconto biblico è nel lasciare intra-vedere, al al di là dell’uguaglianza e al di là della libertà, il di più dell’uguaglianza e della libertà che è la fraternità: lo spazio dove paradossalmente i disuguali sono uguali e gli illiberi liberi. Pur disuguali per ordine di nascita, di salute, di simpatia o di intelligenza, in una famiglia infatti i fratelli restano ciononostante liberi e uguali: non in forza di ciò che hanno o fanno, bensì in forza di ciò che ad essi è dato e fatto dall’alterità di un amore - l’amore genitoriale - che li ha pensati e amati anteriormente al loro esserci e al loro essere liberi e uguali, e che del loro essere liberi e uguali è il fondamento stesso.
    La bibbia è il racconto di un’Alterità - l’alterità divina - che fa di ogni uomo e di ogni donna un fratello e una sorella: non retoricamente o metaforicamente, ma realmente e ontologicamente. Assumere questa possibilità - la possibilità della fraternità - come progetto politico, in cui riconciliare uguaglianza e libertà, è la sfida del nuovo secolo e del nuovo millennio. La bibbia è questa sfida. Le sue pagine svelano e annunciano che l’unico umano è l’umano della fraternità e che concepire la politica come politica della fraternità non è illusione o inganno ma il nome stesso della politica, se questa non vuole degradarsi a potere e a lotta di interessi. Annuncio di una fraternità invocatrice di politiche e di economie giuste che abbiano a cuore il grido del povero, dell’orfano, dello straniero e del nemico, la bibbia è il più grande manifesto etico e rivoluzionario di cui l’umanità abbia mai disposto e disponga. Per questo va letta. Con passione. Da tutti. Credenti e non credenti. Oggi più che mai.

    PAROLA APPROFONDITA

    Si è presentata la bibbia come racconto. Ma è facile prevedere l’obiezione che, se sfogliata anche superficialmente, essa presenta più di una pagina che non è narrativa ma storica, come ad esempio i libri delle Cronache; giuridica, rituale e prescrittiva, come i codici legislativi dell’Esodo, dei Numeri e del Levitico; eucologica (formula di preghiera con cui si parla a Dio), come il libro dei salmi e molte altre parti della bibbia; di denuncia e di critica, come i libri profetici che occupano circa una metà della bibbia; poetica, come il Cantico dei Cantici, una delle espressioni letterarie più alte dell’amore o il libro di Giobbe, il poema per eccellenza della sofferenza; infine sapienziale, come il libro di Qoelet o dei Proverbi.
    Ad essere ancora più precisi, dal punto di vista quantitativo, i testi non narrativi superano, nella bibbia, quelli narrativi, per cui si pone la domanda sulla legittimità o meno del racconto come la categoria privilegiata per definirla.
    La risposta a questa obiezione va cercata nella individuazione della genesi dei testi biblici che, pur diversi, come si è notato, per epoche storiche e per generi letterari, sorgono e rimandano tutti allo stesso nucleo generatore di cui sono di volta in volta la ripresa, l’attualizzazione l’esplicitazione, la tematizzazione o l’approfondimento. È questo nucleo, nella bibbia, ad essere - e a poter essere solo - narrativo: l’annuncio o kerigma di un evento - l’irrompere dell’amore straordinario di Dio nella storia umana - che, in quanto evento, può essere solo narrato e rinarrato da chi ne è stato testimone e tramandato alle generazioni come racconto parlato e successivamente scritto. La bibbia nasce da questo nucleo narrativo originario e i 73 libri che la compongono, più che disposti diacronicamente su una immaginaria linea cronologica, sono altrettanti cerchi concentrici intorno allo stesso nucleo generatore.
    Questo nucleo generatore è il racconto esodico o esodale: il racconto di come Dio «con mano potente e con braccio teso» abbia liberato Israele dall’Egitto, lo abbia condotto sul monte Sinai per stringere con esso un’alleanza e lo abbia introdotto infine in una terra bella e spaziosa dove scorreva in abbondanza «latte e miele». Anche se frammisto ad altri testi di carattere giuridico e rituale, questo racconto occupa non solo il libro dell’Esodo ma anche il libro del Levitico, dei Numeri e del Deuteronomio, di Giosuè e della stessa Genesi che, della vicenda esodica, è come una lunga introduzione, volta a spiegare il perché gli ebrei si trovassero come schiavi in Egitto. Il nucleo narrativo della bibbia è dispiegato pertanto nei primi cinque libri della bibbia, da sempre considerati come i più importanti e formanti un testo unico e per questo chiamati «penta-teuco», perché mai separati e tenuti insieme in un solo astuccio o contenitore. In realtà ad essi andrebbe anche aggiunto il libro di Giosuè, il successore di Mosé che introduce Israele nella terra promessa (per questo anticamente oltre che pentateuco si parlava anche di esateuco: contenitore di sei libri).
    Gli altri libri della bibbia sono una ripresa o uno sviluppo della vicenda esodica narrata e custodita nel pentateuco o esateuco: in quanto ne esplicitano degli aspetti o ne sottolineano delle conseguenze:
    - i libri storici (Giudici, Samuele, Cronache, Esdra e Neemia) della vicenda esodica mettono in luce la mancata realizzazione a causa del tradimento dei capi e dei re d’Israele infedeli all’alleanza;
    - i libri profetici (da Isaia, a Sofonia, a Malachia) sottolineano che l’infedeltà all’alleanza prima che sul piano rituale e cultuale va cercata nella mancanza di giustizia e di fraternità all’interno della società: «Così dice il Signore: ... non revocherò il mio decreto, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri; e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome…» (Am 2,6-7);
    - i libri poetici e sapienziali (dal libro di Giobbe, ai Proverbi, ai Salmi) riaffermano che, nonostante la sofferenza e l’apparente fallimento a causa della infedeltà dell’uomo all’alleanza, Dio rimane fedele all’uomo e la sua promessa non mancherà di realizzarsi.
    Nucleo dentro il nucleo, il racconto rifondatore del Nuovo Testamento è l’annuncio o kerigma che, in Gesù morto e risorto, Dio si è riconciliato con la storia umana per cui questa può tornare ad essere spazio di giustizia e di fraternità. Il racconto rifondatore del Nuovo Testamento è costituito dai vangeli e dal libro degli Atti. Di questo racconto, gli scritti di Giovanni e di Paolo (il quarto vangelo e le lettere paoline) sono l’approfondimento teologico; le lettere cattoliche (di Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda) la ripresa a livello di vita comunitaria e intraecclesiale; l’Apocalisse, infine, la sottolineatura luminosa che, in forza di ciò che esso narra, la bestia e il drago, i simboli del male, sono stati per sempre detronizzati: «Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, poiché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli…» (Ap 12, 10).

    PAROLA CELEBRATA

    La tradizione ebraica e la tradizione cristiana conoscono un duplice spazio, pubblico e istituzionale, dove far risuonare, nel corso dei secoli, attraverso la parola parlata e scritta, la parola parlante di Dio: la liturgia, caratterizzata, prima che dal gesto rituale, dalla ripetizione del racconto biblico, “memoriale” dell’evento originario con cui Dio ha fatto irruzione nella storia umana liberando Israele dall’Egitto e Gesù di Nazareth dalla morte in croce.
    Il primo spazio è l’arco settimanale, dove è celebrato il sabato, per la tradizione ebraica, e la domenica, per la tradizione cristiana.
    Per quanto riguarda il sabato, esso è il memoriale dell’esodo (oltre che della creazione che, riletta alla luce dell’esodo, è essa stessa evento e irruzione della gratuità di Dio!): “Ricordati che sei stato schiavo del paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato” (Dt 5,15). In quanto memoriale - ricordo e attualizzazione - dell’evento esodale, il sabato è segno e custodia del racconto fondatore del primo Testamento. Quanto alla domenica cristiana, essa è il memoriale del gesto di amore di Gesù sulla croce anticipato nella sua ultima cena con i discepoli: “Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane, e, pronunciata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: ‘Prendete e mangiatene; questo è il mio corpo’. Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: ‘Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 25,26-28). In quanto memoriale della morte e della risurrezione di Gesù, la domenica cristiana è segno e custodia del racconto fondatore del secondo Testamento che, di quello del primo Testamento, è rifondatore.
    Il secondo spazio liturgico è annuale e si caratterizza per la celebrazione delle feste. Nell’ebraismo tre sono quelle più importanti, tutte e tre legate all’evento esodale: la pasqua, che ne richiama il primo nucleo narrativo, l’uscita dall’Egitto; la pentecoste, che ne mette in luce il secondo nucleo, la stipulazione dell’alleanza sul Sinai; e i tabernacoli o le capanne, che ne ricorda la terra promessa che Israele non può possedere e sulla quale può vivere solo con la coscienza della provvisorietà e del non radicamento, del rifiuto cioè della logica dell’appropriazione e del dominio.
    Per quanto riguarda l’anno liturgico cristiano esso trova il suo epicentro nella pasqua la cui celebrazione si dispiega intorno a tre momenti che sono gli stessi del racconto fondatore del Nuovo Testamento: la passio Jesu e la sua morte, celebrata nel venerdì della settimana santa; la sua risurrezione, celebrata nel giorno di pasqua; la discesa dello spirito santo o pentecoste, celebrata al termine del periodo pasquale, dopo 50 giorni dalla risurrezione.
    Le altre feste dell’anno liturgico cristiano esplicitano aspetti particolari del mistero pasquale: il tempo di natale come celebrazione del mistero dell’incarnazione: il sì di Gesù al Padre sulla croce anticipato in tutta la sua vita, prima ancora della sua morte e - attraverso la riflessione ardita di Giovanni - colto come riflesso del suo sì eterno al Padre che già da sempre come figlio pronuncia in seno alla Trinità; il “tempo ordinario” (così chiamato perché non legato esplicitamente né al natale né alla pasqua) dispiega pacatamente aspetti vari del racconto rifondatore, sottolineandone, a seconda dei testi biblici utilizzati, ora un aspetto ora un altro.
    Nella liturgia ebraica e cristiana, come in una divina sinfonia, risuona il racconto fondatore e rifondatore della bibbia: il racconto dell’amore di Dio che, amando l’uomo gratuitamente e chiamandolo ad amare gratuitamente e, in Cristo, perdonandolo e chiamandolo a perdonare a sua volta, disvela e annuncia che il segreto che genera e rigenera la storia è la gratuità e la misericordia: “siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).


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