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    La funzione profetica, una dimensione imprescindibile della fede cristiana


     

    Luis A. Gallo

    (NPG 2001-07-44)



    Credere è cercare di far diventare una realtà il meraviglioso disegno di Dio in favore dell’umanità conosciuto attraverso Gesù Cristo, le sue parole, le sue azioni e soprattutto la sua morte e risurrezione. È, come diceva S. Paolo, diventare suoi «collaboratori» (1Cor 3,9) nella realizzazione della sua volontà di vita piena per tutti. Ora, proprio per questo, il credente è chiamato ad essere profeta.

    La Parola di Dio nella storia

    Un veloce sguardo al profetismo nella Bibbia ci aiuta a capire correttamente ciò che questa richiesta significa.
    Nell’Antico Testamento, essere profeta in mezzo al popolo e in suo favore non consisteva principalmente nel fare dei vaticini misteriosi sul futuro, né nell’indovinare in anticipo ciò che sarebbe accaduto in avvenire. Il profeta biblico non era nemmeno semplicemente colui che parlava nel nome di Dio o che proferiva la sua Parola, come sembrerebbe suggerire la stessa etimologia del termine. L’originalità dei profeti dell’Antico Testamento si coglie meglio se li si confronta con altre figure presenti in esso. Infatti, i profeti si distinguono tanto dai saggi quanto dagli scribi. E la distinzione fondamentale consiste precisamente nel fatto che, mentre i primi si occupavano principalmente dell’arte di saper vivere bene, e i secondi avevano a che fare con insegnamenti e con spiegazioni legali, i profeti esercitavano il loro ruolo soprattutto nei confronti degli avvenimenti storici del popolo. Essi erano mossi dalla preoccupazione di mettersi all’ascolto dei grandi movimenti storici e dei mutamenti del loro tempo, e la loro predicazione era contrassegnata da una straordinaria mobilità nel seguire i fenomeni storici, e da una grande flessibilità nell’adeguarvi costantemente i loro discorsi. Grazie ad essi il popolo d’Israele poté crescere nella coscienza del disegno di Dio nella storia. Furono essi, infatti, quelli che misero vigorosamente in risalto la dimensione escatologica del tempo, ossia la sua tensione verso un futuro di pienezza.
    Possiamo cogliere con ancora maggior chiarezza il significato della funzione profetica dei cristiani rifacendoci a ciò che dice la già citata Costituzione Dei Verbum sul rapporto della Parola di Dio con la storia. Vi è in essa un’affermazione che in qualche modo racchiude la sostanza stessa della Bibbia, pur non coincidendo con nessuna delle sue enunciazioni esplicite. È la seguente:
    «La rivelazione divina si realizza mediante eventi e parole intrinsecamente vincolati fra di loro [...]. Le parole portano a luce il mistero in essi contenuto» (n. 2).
    La frase finale è molto densa. Include due elementi di decisiva importanza. Anzitutto, l’affermazione che il luogo proprio del mistero è la storia del popolo di Dio. Per «mistero», come ormai sappiamo, il testo intende non una verità che supera la capacità della ragione umana, ma il disegno divino di salvezza in favore dell’umanità. Secondo si ricava dall’affermazione conciliare, tale disegno, nascosto sin dall’eternità nell’intimità della libertà divina, è «contenuto» negli avvenimenti della storia del suo popolo. Quest’ultima risulta essere, di conseguenza, come un’epifania o manifestazione del disegno salvifico di Dio. Ciò significa, in definitiva, che la storia è, nei suoi avvenimenti di salvezza, come un sacramento che rende visibile la volontà stessa di Dio. È, in questo senso, divino-umana.
    Il secondo elemento importante è l’affermazione – implicita certamente – che, per cogliere la densità o spessore divino della storia, ci vogliono gli occhi del profeta. Profeta è appunto, come si è visto sopra, colui che possiede la capacità di scandagliare a fondo gli avvenimenti, di attraversare la loro scorza esterna e di cogliervi la presenza del Dio che salva. La fede, da questo punto di vista, consiste nella capacità di scoprire il Dio vivente all’opera nella storia.
    Un esempio emblematico, nell’Antico Testamento, è quello di Mosè, il profeta dell’esodo. Probabilmente ci furono ai suoi tempi diversi esodi simili a quello degli ebrei nelle zone circondanti (cf Am 9,7); solo il popolo d’Israele, tuttavia, arrivò, sotto la guida di Mosè, a scoprire che la sua liberazione non era un mero avvenimento umano, pur essendo realmente tale, ma aveva una densità divina, dal momento che in esso si manifestava l’azione salvifica di Dio in favore del suo popolo. Nel Nuovo Testamento, emblematico è invece il caso di Gesù stesso che, nel racconto dell’apparizione ai due discepoli di Emmaus (Lc 24,13-27), li porta ad «aprire gli occhi» (Lc 24,31) e a cogliere, nell’epilogo della sua vicenda, la massima manifestazione del piano di salvezza di Dio. Si potrebbe dire che egli è in quel momento il profeta del suo proprio avvenimento, e converte i suoi discepoli in altrettanti profeti del medesimo. In sostanza, quindi, si può dire che, secondo la concezione biblica e conciliare, profeta è colui che annuncia la Parola di Dio colta nella storia. L’annuncia affinché coloro che l’ascoltano la accolgano e la assecondino. È questo il suo obiettivo fondamentale. La parola profetica non si riduce mai, infatti, ad una chiamata alla contemplazione puramente estatica dell’intervento di Dio nella storia, ma sollecita sempre all’impegno davanti a tale manifestazione. È, in definitiva, una servizio alla corresponsabilità del popolo con il Dio della storia.

    Il servizio profetico nell’attualità

    Verso la fine dell’Antico Testamento, quando lo spirito di profezia si stava spegnendo in Israele, gli stessi profeti annunziarono una sua futura effusione sull’intera comunità dei tempi messianici (Gl 3,1-5; Ez 36,27). In At 2, 16-18, nel discorso che fa dopo l’esperienza della venuta dello Spirito sui discepoli radunati, Pietro proclama davanti alle folle accorse il compimento di tale annuncio:
    «Sta ora accadendo ciò che predisse il profeta Gioele: ‘Negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno [...]. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno».
    Il Concilio Vaticano II riprese la linea di queste affermazioni bibliche nella Lumen Gentium (nn. 12 e 33), ma soprattutto nella Gaudium et Spes, nella quale dice:
    «Il Popolo di Dio, mosso dalla fede [...], cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio» (n. 11).
    È un testo che merita un’attenzione speciale, data la sua rilevante portata. Lo analizziamo evidenziandone le principali componenti.
    Viene segnalata in esso, anzitutto, l’azione principale a cui viene sollecitato il Popolo di Dio, e cioè l’intera comunità dei credenti, mediante il verbo «discernere». Questo verbo designa l’azione di identificare, in un insieme di cose, alcuni elementi a differenza di altri, in base ad un criterio prestabilito. Il verbo principale viene accompagnato nel testo da un altro verbo ausiliare: «si sforza». Esso sta ad indicare la difficoltà che può comportare tale azione. Indubbiamente risulta più facile applicare dei principi che discernere la realtà.
    Il materiale sul quale i credenti sono sollecitati ad esercitare tale discernimento viene indicato con le parole «gli avvenimenti, le richieste e le aspirazioni cui il Popolo di Dio prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo». Detto in altri termini, l’oggi della storia. Non soltanto della storia della stessa comunità credente, ma della storia umana in quanto tale. Si tratta, come si vede, di una dilatazione operata dalla Gaudium et Spes nei confronti della Dei Verbum (n. 2). Qui risultano essere gli avvenimenti storici dell’umanità come tale ad essere eventuali portatori della presenza del disegno salvifico di Dio, dal momento che i cristiani sono sollecitati a discernere in essi i segni di tale presenza. In questo modo, la storia umana è pensata come dotata di una potenziale densità divina, e viene perciò posta sul piano teologale. Per inciso, il testo allude anche al bisogno che i membri della comunità credente siano veramente incarnati nella storia. Essi non devono vivere al di fuori del mondo, ma devono immergersi nel processo della storia. Altrimenti non potrebbero partecipare con i loro contemporanei a quanto accade in essa, e neanche esercitare la loro funzione profetica nei suoi confronti.
    Il Concilio indica ancora cosa occorre cercare di scoprire mediante il discernimento: i segni veri della presenza o del disegno di Dio. In concreto, dove si manifesta, nella storia umana, la realizzazione di tale disegno. Poiché la storia è spesso molto ambigua, e in essa si mischiano costantemente salvezza e perdizione, il discernimento previo su di essa risulta indispensabile per poter agire nel modo adatto. Il giudizio che si formula a suo riguardo è di somma importanza, perché da esso dipende l’azione da intraprendere. Una diagnosi sbagliata porta ordinariamente anche ad un intervento errato.
    Resta da puntualizzare un aspetto, non esplicitamente rilevato nel testo che stiamo analizzando: il criterio da utilizzare nel discernimento proposto. Lo si può ricavare dall’avvenimento-chiave di tutta la storia della salvezza, la risurrezione di Gesù. Alla sua luce si comprende che tutto ciò che porta al trionfo della vita sulla morte è segno sicuro della presenza del disegno di Dio nella storia, e viceversa. Si tratta di un criterio che, nella sua applicazione, richiede indubbiamente l’utilizzazione di tutti i mezzi necessari per cogliere, nella concretezza delle circostanze storiche, ciò che in esse c’è di vita e ciò che c’è invece di morte. Tenendo d’altronde presente che, ordinariamente, le due realtà si trovano mescolate fino al punto di esigere alle volte molta fatica per riuscire a distinguerle. Il giudizio credente sulla storia non dovrebbe perciò essere eccessivamente affrettato, e dovrebbe, d’altronde, essere sempre accompagnato da un atteggiamento di modestia e moderazione.


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