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    Carmine Di Sante

    (NPG 2001-05-62)


    Definito, per la sua potenza espressiva, il «Dante della poesia ebraica», Isaia è il profeta messianico per eccellenza, colui per il quale il futuro è e può essere solo messianico. Non basta perciò dire che il profetismo introduce nella storia il futuro, se non si aggiunge che il futuro di cui esso parla è messianico: legato ad un personaggio particolare – il messia appunto – scelto da Dio ad annunciarlo e realizzarlo.

    Messia nella lingua ebraica corrisponde al participio del verbo mashiah che vuol dire «unto»: il consacrato, con il rito dell’unzione, ad una funzione pubblica. Nell’epoca monarchica la persona per eccellenza deputata ad annunciare e garantire il futuro secondo Dio era il re, del quale il salmo 72 traccia uno splendido ritratto:

    «Ai miseri del suo popolo renderà giustizia, salverà i figli dei poveri e abbatterà
    l’oppressore. Il suo regno durerà quanto
    il sole, quanto la luna, per tutti i secoli»
    (vv. 4-5).

    La ragione per la quale il re è scelto e consacrato con il rito dell’unzione è per realizzare il futuro secondo Dio abitato dalla giustizia:

    «Scenderà come pioggia sull’erba, come acqua che irrora la terra. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna.
    E dominerà da mare a mare, dal fiume sino ai confini della terra» (vv. 6-8).

    Il futuro che Dio sogna e vuole per l’umanità è il futuro della uguaglianza e della fraternità, dove non ci siano più sofferenza, ingiustizia e violenza:
    «Egli libererà il povero che grida
    e il misero che non trova aiuto,
    avrà pietà del debole e del povero
    e salverà la vita dei suoi miseri.
    Li riscatterà dalla violenza
    e dal sopruso, sarà prezioso ai suoi occhi
    il suo sangue» (vv. 12-14).

    Dalla instaurazione della giustizia e dalla eliminazione della violenza nascerà la pace, come abbondanza di beni e felicità per tutti:

    «Abbonderà il frumento nel paese,
    ondeggerà sulle cime dei monti;
    il suo frutto fiorirà come il Libano,
    la sua messe come l’erba della terra»
    (v. 16).

    Il profetismo nasce all’interno della monarchia come denuncia contro i re che non hanno realizzato il futuro secondo Dio perché non hanno difeso la causa dei poveri e non hanno promosso la giustizia. Isaia, che esercita la sua missione nel regno di Giuda nella seconda metà dell’ottavo secolo prima di Cristo, così accusa senza mezzi termini i capi e i responsabili della città:

    «Udite la parola del Signore…: ‘Che m’importa dei vostri sacrifici, senza numero’, dice il Signore… ‘Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità… Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova’» (Is 1, 10-17).

    Ma più che per la denuncia, che accomuna tutti i profeti (basti pensare ad Amos che ironizza sulle donne corrotte della Samaria apostrofandole col nome di «vacche di Basan» – una zona della Transgiordania ricca di pascoli – che opprimono i deboli, schiacciano i poveri e dicono ai loro mariti: «Porta qui, beviamo»: Amos 4, 1-2), Isaia si caratterizza, tra l’altro e soprattutto, per l’annuncio fatto al re Achaz della nascita di un bambino straordinario che, diversamente dai re precedenti, avrebbe agito secondo Dio e così finalmente avrebbe instaurato la giustizia:

    «Ecco la vergine concepirà e partorirà
    un figlio, che chiamerà Emmanuele.
    Egli mangerà panna e miele
    finché non imparerà a rigettare il male
    e a scegliere il bene» (Is 7, 14-15).

    Sarà proprio questo bambino, nato da una giovane donna e dal nome di Emmanuele, che vuol dire «Dio-con-noi», a instaurare quel futuro di prosperità e di felicità voluto da Dio e non ancora realizzato:

    «Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
    spirito di sapienza e di intelligenza,
    spirito di consiglio e di fortezza,
    spirito di conoscenza e di timore del Signore.
    Si compiacerà del timore del Signore.
    Non giudicherà secondo le apparenze
    e non prenderà decisioni per sentito dire;
    ma giudicherà con giustizia i miseri
    e prenderà decisioni eque
    per gli oppressi del paese.
    La sua parola sarà una verga
    che percuoterà il violento;
    con il soffio delle sue labbra
    ucciderà l’empio.
    Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia,
    cintura dei suoi fianchi la fedeltà»
    (Is 11, 1-5).

    In questo straordinario bambino nato da una ragazza (è questo il significato della parola «vergine» usato da Isaia), sul quale si poserà con abbondanza lo spirito di Dio, il Nuovo Testamento vede prefigurato Gesù stesso che per questo è messia (termine che in greco viene tradotto con cristos, che vuol dire «unto»), capace di instaurare quel futuro di riconciliazione e di pace che Isaia descrive come trasformazione e palingenesi della natura stessa:

    «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello,
    la pantera si sdraierà accanto al capretto;
    il vitello e il leoncello pascoleranno
    insieme e un fanciullo li guiderà.
    La vacca e l’orsa pascoleranno insieme;
    si sdraieranno insieme i loro piccoli.
    Il leone si ciberà di paglia, come il bue.
    Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano
    nel covo di serpenti velenosi.
    Non agiranno più iniquamente
    né saccheggeranno in tutto il mio santo monte,
    perché la saggezza del Signore
    riempirà il paese come le acque
    ricoprono il mare» (Is 11, 6-9).

    Il futuro intravisto da Isaia è il totale sradicamento della violenza che coinvolgerà lo stesso regno animale, dove il lupo e l’agnello, la pantera e il capretto, la vacca e l’orsa vivranno essi stessi in pace, e dove non ci sarà più luogo per le ingiustizie e lo sfruttamento: «perché la saggezza del Signore riempirà il paese come le acque ricoprono il mare».
    La ragione per la quale la tradizione cristiana ha visto e vede nello straordinario bambino di Isaia il bambino nato a Betlemme da Maria di Nazaret, è che questo bambino è stato l’unico nella storia ad aver sradicato totalmente la violenza, preferendo subirla e portarsi quella altrui piuttosto che produrla, sempre secondo l’altra celebre pagina di Isaia (in realtà probabilmente un suo discepolo, chiamato dalla critica Deutero-Isaia) che parla di un uomo coraggioso e mite che «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori…, è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità» (Is 53, 3-5).
    Christian Bobin ha scritto che la potenza di Gesù è di essere disarmato: «La sua potenza è di essere privo di potenza, nudo, debole, povero: messo a nudo dal suo amore, fatto povero dal suo amore. Questa è la figura del più grande re d’umanità, dell’unico sovrano che abbia chiamato i propri sudditi a uno a uno, con la voce sommessa della nutrice» (L’uomo che cammina, Qiqajon, Magnano-BI 1998, p. 21). La ragione per la quale, per la comunità neotestamentaria, Gesù è messia, è la sua potenza che consiste nell’«essere privo di potenza». In questo modo egli ha realizzato il futuro di Dio e ha offerto all’uomo la possibilità di fare altrettanto.


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