Essere donna

Juan E.Vecchi

(NPG 2001-05-3)


Per moltissimo tempo la cultura e l’organizzazione sociale si sono sviluppate sotto il segno maschile: l’uomo alla vita pubblica, la donna all’ambiente domestico. È anche vero tuttavia che da tale sede le donne hanno influito in forma determinante nella formazione delle generazioni e ogni tanto sono state anche protagoniste della vita pubblica.
La Bibbia presenta figure di donne che hanno avuto un ruolo determinante nella storia della salvezza, a volte intervenendo decisamente negli avvenimenti temporali, come Ester o Debora. Sopra tutte emerge Maria. Altrettanto si può dire della storia della comunità cristiana, spesso arricchita da eccezionali figure femminili: fondatrici, dottori della Chiesa, badesse, regine, martiri, mamme di famiglia, ecc.
L’ultimo mezzo secolo è stato tempo di rivendicazioni femminili, sacrosante, anche se a volte appesantite da qualche eccesso. Così la donna è entrata nella vita pubblica e nelle professioni che contano, anche in quelle un tempo appannaggio esclusivo dei maschi. Oggi ogni discriminazione sembra formalmente superata anche se nei singoli rimangono residui di vecchie mentalità.
Iniziamo un tempo nel quale il «saranno due in una sola carne» potrà essere riferito non solo al matrimonio, ma alla elaborazione della cultura e delle forme del vivere sociale. In entrambe si guadagna se il femminile entra in dialogo e si esprime, nella dinamica dell’incontro e della complementarità.
Solenni adunanze mondiali (Il Cairo, Pekino, New York) hanno cercato di dare stato legale e pubblico a questa situazione. E poiché siamo in tempi di globalizzazione, quello che è stato deliberato dovrebbe servire per tutti i paesi. Eppure, come capita nei casi di categorie deboli, esistono ancora fenomeni di oppressione e discriminazione che nessuno, sembra, riesce o s’impegna a far cessare.
La donna, in più parti del mondo, è ancora gravemente ferita, e non pochi paesi nella costituzione hanno ancora sancito il suo stato di sostanziale dipendenza o inferiorità nei confronti del maschio.
Ebbene, per questo nuovo millennio che tutto fa presagire possa essere il millennio della piena globalizzazione, l’auspicio più forte per i cristiani è che si completi anche la globalizzazione della dignità della persona, e perciò sorga davvero la luce di un nuovo umanesimo.
Una delle categorie più pesantemente e vergognosamente penalizzate è costituita dalle donne condannate alla prostituzione sotto le grinfie di boss senza scrupoli morali che le hanno ingannate con false promesse, rese schiave, e cinicamente sfruttate, scoraggiando con metodi inumani ogni tentativo di ribellione. Non mancano nella comunità cristiana esempi coraggiosi di volontari, sacerdoti, suore che a rischio della propria incolumità si dedicano alla liberazione e riabilitazione di queste infelici, molte delle quali ancora ragazze.
Una seconda categoria ignobilmente discriminata, che ferisce la donna nella sua dignità e libertà è quella che in alcuni paesi e/o famiglie le vede sottoposte a mutilazioni ignominiose. E la cosa peggiore in questi casi è che all’origine di tali usi e comportamenti c’è una distorta visione «religiosa»
Una terza categoria discriminata è quella sulla quale ricadono i lavori più pesanti della casa e della famiglia. Mi ha impressionato incontrarle in alcuni Paesi, cariche di fasci di legna inverosimilmente grandi, o applicate a lavori pesanti anche per gli uomini. Nella maggior parte dei casi esse sono deprivate dell’istruzione di base, cosa non necessaria al servizio loro assegnato dalle ferree leggi del clan o della tribù. Il lavoro di coscientizzazione, educazione e liberazione della donna non solo non è ancora terminato, ma minaccia di essere ancora lungo e difficile.
La conclamata globalizzazione non va oltre l’aspetto economico. E per salvare questo si è disposti perfino a sacrificare le cose più sacrosante, come i diritti civili, sociali e religiosi della persona. Le religioni, anche per rimediare a queste mostruose disfunzioni che toccano l’uomo creatura di Dio, stanno cercando un dialogo, non tanto per confrontarsi sull’idea di Dio e sulla forma di invocarlo, quanto piuttosto per incidere sulla realtà e rimediare ai mali più vistosi che feriscono l’uomo e minano la società. In tal senso si è parlato delle religioni come grandi forze che, collaborando insieme, possono in qualche modo «forzare la pace». In questo campo occorre un’azione congiunta tra gente di buon cuore e di buona volontà che si impegna nell’educazione e nella promozione della donna, e interventi di pubblici poteri nazionali o internazionali che eliminano almeno i costumi e i fenomeni più gravi e pesanti.