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    Abacuc: l’attesa


    Carmine Di Sante

    (NPG 2001-04-32)


    Dischiudendo il futuro, la profezia dischiude l’attesa come tensione verso il non ancora. Abacuc, profeta dalla sensibilità moderna, che si pone il problema dell’ingiustizia divina e osa chiamare Dio in causa per il suo silenzio che rasenta l’indifferenza (cf i versetti 1, 1-4), si autodefinisce come una sentinella che veglia sul popolo per proteggerlo dall’assalto imprevisto dei nemici:
    «Mi metterò di sentinella,
    in piedi, sulla fortezza,
    a spiare, per vedere che cosa mi dirà,
    che cosa risponderà ai miei lamenti» (Ab 2, 1).
    Ma, con uno straordinario cambiamento semantico del termine, la sentinella con la quale il profeta si identifica non è la sentinella che spia l’orizzonte per denunciare l’eventuale arrivo dell’aggressore, bensì la sentinella che attende la risposta di Dio al suo lamento e che è certo che questa risposta non tarderà:

    «Il Signore rispose e mi disse:
    ‘Scrivi la visione
    e incidila bene sulle tavolette
    perché la si legga speditamente.
    È una visione che attesta un termine,
    parla di una scadenza e non mentisce;
    se indugia, attendila,
    perché certo verrà e non tarderà’.
    Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto,
    mentre il giusto vivrà per la sua fede» (Ab 2, 2-4).

    L’immagine della sentinella diventa in Abacuc l’immagine dell’attesa che non è illusione ma certezza, e che se tarda a realizzarsi, tarda per poco tempo, perché ciò che compie l’attesa «certo verrà e non tarderà». Nel salmo 129, in un momento di particolare angoscia dove il mondo sembra precipitargli addosso, il poeta confida: «L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora. Israele attende il Signore perché presso il Signore è la misericordia» (vv. 4-5). Come la sentinella attende l’alba che fuga la notte, così il poeta, personificazione d’Israele e dell’umano, attende il Signore; ma soprattutto come la sentinella sa che l’alba non può non arrivare e non prendere il posto della notte, della quale rimarrà solo il ricordo, così chi attende sa che ciò che si attende «certo verrà e non tarderà».
    Nella sua celebre opera teatrale Aspettando Godot, Samuel Beckett mette in scena due vagabondi, Vladimiro e Estragone, familiarmente Didi e Gogo, che, su di una strada deserta, dove l’unico albero è senza foglie e forse già morto, si incontrano e compiono gesti senza senso. Si siedono, si alzano, camminano, si tolgono le scarpe e, pigri, stanchi, oziosi e annoiati, attendono il misterioso personaggio di nome Godot che non arriva mai ma che, ciò nonostante, essi continuano ad aspettare: «Dovrebbe già essere qui», dice Estragone. E Vladimiro: «Non ha detto che verrà di sicuro». Estragone: «E se non viene?». Vladimiro: «Torneremo domani». Estragone: «E magari dopodomani». Vladimiro: «Forse». Estragone: «E così di seguito». Vladimiro: «Insomma…». Estragone: «Fino a quando non verrà».
    Per Beckett, interprete dell’epoca contemporanea che a Dio ha sostituito il Nulla e che ne paga il prezzo con il dramma dell’incomunicabilità e della noia, dove perfino «togliersi una scarpa» è fatica e sfinimento, nessuno può vivere senza speranza, senza l’attesa dell’arrivo di «Godot». Richiesto una volta di dire chi fosse questo misterioso personaggio, il drammaturgo irlandese ha risposto: «Se lo sapessi lo avrei detto nella commedia». Godot (che linguisticamente rimanda all’inglese God, che vuol dire Dio) è tutto e nulla. È «colui» o quel «qualcosa» che ognuno attende e non può non attendere ma che, attendendo, sa che non verrà mai. Ad Estragone il quale dice che Godot deve essere atteso sempre, «fino a quando non verrà», Vladimiro risponde: «Sei spietato». Estragone avanza una ragionevole spiegazione: «Siamo già venuti ieri». Vladimiro oppone una debole resistenza: «Ah no! Non esagerare adesso». Estragone si appella di nuovo alla logica: «Cosa abbiamo fatto ieri?». Sorpreso dalla domanda, Vladimiro non vi risponde ma la rilancia: «Cosa abbiamo fatto ieri?». Ma Estragone incalza: «Sì». Allora Vladimiro, spiazzato e arrabbiato, si sente incastrato e suo malgrado riconosce: «Be’… per seminare il dubbio sei un campione». Dubbio che Estragone ribadisce con disincanto: «Io dico che eravamo qui».
    Per Beckett non è possibile vivere senza attesa, ma in questa attesa l’importante non è ciò che si attende e neppure il suo compimento ma l’attesa stessa. È questa – l’attesa, indipendentemente dal chi o da che cosa si attende e dalla sua realizzazione – l’unico possibile senso della vita. Da questo punto di vista il testo del drammaturgo irlandese è un’invocazione metafisica di speranza: per definizione l’uomo è attesa e, per lui, vivere è vivere nell’attesa. Ma poiché l’attesa è sempre attesa, cioè incompiuta, essa, per Beckett, è il volto dell’ illusione e dell’inganno: inganno pietoso che aiuta a vivere e illusione necessaria che dà la forza di sopportare l’insensatezza del cammino. Da questo punto di vista il testo del drammaturgo irlandese è il grido della disperazione che dell’attesa è negazione.
    A differenza che per Beckett, per Abacuc l’attesa ha il volto del compimento: non il compimento che si inscrive nell’ordine del desiderio che, come vogliono i maestri del sospetto, ha il potere di crearsi il proprio oggetto, bensì il compimento che si iscrive nella volontà ordinatrice e creatrice che ha sottratto il mondo al caos e senza la quale esso vi riprecipita: «Il Signore mi rispose e mi disse: ‘Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente’». È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; «se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà». Per il profetismo l’attesa «attesta un termine», «parla di una scadenza» e non mentisce; per esso la speranza non vuol dire illusione, come per Beckett, e neppure ipotesi o congettura, come per il mondo greco, ma certezza.
    La ragione per la quale, nella bibbia, la speranza appartiene all’ordine della certezza è che essa è fondata sulla fede che la lettera agli Ebrei definisce come «fondamento (nell’originale greco ipostasi) delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Eb 11,1). La fede non è la fede come adesione concettuale a verità rivelate e astratte, ma la fede come relazione d’amore con il Tu di Dio dal quale ci sente amati e al quale ci si affida. La speranza, per la bibbia, è attesa del futuro certo non perché l’uomo lo desideri o perché non si rassegni alla sua finitezza, bensì perché Dio non lo tradisce e lo avvolge nella potenza del suo amore. Per questo essa è ipo-stasi: ciò che sta sotto la speranza e rende possibile anticipare l’invisibile.


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