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    “Dio misericordioso e pietoso” (Es 34,6)

    Carmine Di Sante

    (NPG 2003-09-3)



    Sull’ultimo segnavia che ci è accaduto di incontrare erano incise le parole: “Buono è il Signore” (Sal 103,8) e, riflettendo su di esse, si sono messi in luce i quattro significati che, nella bibbia, sono sottesi all’aggettivo “buono” riferito al mondo. Per essa, il mondo è “buono” perché fruibile e bello ma soprattutto perché incarnazione della volontà buona di Dio che, mentre dona il mondo all’uomo, chiama quest’ultimo a fare lo stesso ridonandolo. Dei significati biblici l’italiano “buono”, riferito alle cose, conserva solo il primo (“buono” come sinonimo di utile e fruibile), mentre ad esso restano estranei sia il secondo (“buono” come sinonimo di bello) e soprattutto il terzo e il quarto. Al lettore italiano “il buono” – il “ciò che è buono” – non richiama né il bello né tanto meno la volontà buona che lo sottende e chiama ad essere buoni, mentre, per la bibbia, sono proprio questi due ultimi i più importanti. Per essa Dio è buono perché crea le cose buone e le cose sono buone perché provengono dalla sua volontà buona che esige “imitazione” e obbedienza.

    Ma il termine più comune riferito a Dio, nella bibbia, non è “buono”, tov, usato solo raramente (Gr 13,11; Na 1,7; Sal 25,8; Sal 34,9) ma rachum, tradotto abitualmente con misericordioso, come Dio stesso si definisce nella celebre epifania sul monte Sinai mostrandosi a Mosè: “Il Signore passò davanti a lui proclamando: ‘Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione’” (Es 34, 6-7).
    In questo brano la tradizione rabbinica ravvisa i tredici “attributi” o “misure” con cui Dio si rapporta all’uomo per misurarne l’agire e tra questi, i principali, sono i primi due: “Dio misericordioso e pietoso”.
    Gli originali ebraici sottostanti all’italiano sono “rachum” e “chanun” tradotti indifferentemente con “misericordioso” o “pietoso”. Il primo di questi termini (rachum) rimanda alla radice ebraica rechem che vuol dire utero. Definendosi come misericordioso Dio si attribuisce il tratto costitutivo del femminile e si presenta, per così dire, come madre. Di questa autodefinizione è opportuno cogliere il tratto paradossale che mette in crisi l’idea dominante del Dio biblico come Dio patriarcale e maschilista, secondo la denuncia soprattutto di alcune teoriche del femminismo.
    In realtà il Dio biblico può dirsi solo con un ossimoro, come “una madre padre” o “un padre madre”: una madre che si trascende come madre per comportarsi come padre e un padre che si trascende come padre per comportarsi come madre: “Rallegratevi con Gerusalemme, esultate in essa quanti la amate... così succhierete e vi sazierete alle mammelle delle sue consolazioni; popperete, ristorandovi, alle sue mammelle. Poiché così dice l’Eterno: ‘Come una madre consola il figlio così io consolerò voi a Gerusalemme. Voi lo vedrete e il vostro cuore gioirà, le vostre ossa riprenderanno vigore come erba fresca” (Is 66,10-14).
    Rivelandosi a Mosé come “misericordioso”, il Dio biblico rivendica per sé il tratto costitutivo del femminile che è l’altro nell’io che istituisce l’io come io per l’altro. La madre custodisce infatti in sé l’altro – l’embrione, il feto, il bambino – che, altro da sé, vive solo in forza del suo sé, il sé materno, che, per questo, è elevato dall’essere per sé all’essere per l’altro.
    Commentando un testo rabbinico nel quale ricorre lo stesso aggettivo, E. Lévinas commenta: “Che significa la parola Misericordioso che ricorre costantemente in questo testo? Significa la stessa Torah, o l’Eterno, l’Eterno definito mediante la Misericordia. Ma questa traduzione è del tutto insufficiente. Rachamim – misericordia, richiamato dal termine aramaico Rachmana – deriva dalla parola Rechem che vuol dire utero. Rachamim è il rapporto dell’utero verso l’altro, del quale al suo interno si svolge la gestazione. Rachamim è la stessa maternità. Dio è misericordioso, è Dio definito con la maternità. Un elemento femminile si commuove in fondo a questa misericordia. Un tale elemento femminile nella paternità divina è degno di nota, come è degno di nota, nel Giudaismo, la nozione di una ‘virilità’ che deve essere limitata e di cui la circoncisione simboleggia forse il parziale rinnegamento, l’esaltazione di una certa debolezza senza viltà; la maternità è forse la stessa sensibilità di cui i Nietzschiani dicono tanto male” (E. Lévinas, Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche, Città Nuova Editrice, Roma 1985, pp. 139-140).
    “Misericordioso”, cioè “uterino” o “materno”, il Dio biblico ama di quell’amore che, come quello della madre nei confronti del figlio, è amore di sentimento e di tenerezza. Amore di sentimento è quello che si iscrive, per così dire, nelle viscere della propria carne e si impone con una forza tale da trionfare su ogni altra: sia su quella della ragione argomentativa, che fonda le proprie affermazioni su basi incontrovertibili, sia su quella della ragione strumentale, che adegua i mezzi al raggiungimento del fine, sia su quella della ragione ideologica che fraintende il reale invece di disoccultarlo.
    Incontrando il malcapitato lungo la strada che lo conduceva da Gerusalemme a Gerico, il samaritano, vedendolo, “si sentì spinto dalla misericordia” (misericordia motus, dice il testo latino) e, in seguito a tale moto o movimento, “gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui” (Lc 11,34). “Mosso dalla compassione”: cioè da una istanza o voce entrata con prepotenza nella sua carne e nelle sue stesse viscere (è il termine greco scelto da Luca!) e che, di colpo, mette in crisi le sue ragioni, cioè i suoi ragionamenti, per imporsi come l’unica ragione che gli dice: “fermati, prenditi cura di questo uomo qualunque (homo quidam), sconosciuto e anonimo, provato dalla sventura e in fin di vita, perché solo in questo fermarti e prenderti cura di lui accade per te la vita eterna”.
    Il sentimento di miseri-cordia è la miseria dell’altro che, liberamente e sovranamente, si introduce nel proprio cuore e si impone come ragione ultima rispetto alla quale ogni altra si svela e si ridefinisce relativa e insufficiente. Il sentimento di misericordia è sentire nelle profondità delle proprie viscere o soggettività l’intollerabilità della miseria altrui; un sentire però che non si iscrive nel bios e nella psiche del soggetto, ma al soggetto viene da altrove, imponendosi alla sua volontà come comandamento e trascrivendosi nelle sue “viscere” come traccia.
    Se Dio è buono, la sua bontà coincide, nella bibbia, con la sua misericordia e la sua miseri-cordia con il prendersi a cuore la sorte di chi soffre, insegnando all’uomo a “portare nel suo cuore”, come esprime mirabilmente il termine latino miseri-cordia, la miseria del prossimo. Incise indelebilmente come segnavia, queste parole, “Dio è misericordioso”, dicono: “Sii anche tu misericordioso come Dio. Sempre, in ogni istante, con ogni volto”.


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