Comandamento

“Il tuo precetto mi fa saggio” (Sal 119,98)

Carmine Di Sante

(NPG 2003-07-3)



Più di duemila anni fa, nel quarto secolo avanti Cristo, il filosofo cinese Mencio, contemporaneo di Platone, di Esdra e di Neemia, racconta: “C’era una volta in Cina un imperatore. Sedeva sul suo trono. Doveva assistere, il rituale glielo imponeva, ad un sacrificio. Doveva veder passare davanti a lui un bue, destinato all’ara sacrificale. Procedendo verso il compimento del suo destino – e chissà presagendolo – il bue girò la testa verso l’imperatore. Che ebbe un fremito, uno scatto. Si destò dalla sua regale, rituale sonnolenza e comandò: Riportate indietro questo animale. Ma perché, Maestà? dissero i sacerdoti. Il sacrificio deve essere fatto. Ma adesso come la mettiamo? Fate come vi pare, sostituitelo con un montone, rispose l’imperatore. Detto fatto, un montone fu preso, e spinto. Passò senza girarsi davanti all’Imperatore e andrò diritto a farsi sgozzare. Allora i sacerdoti chiesero all’imperatore: Ma perché, Sacra Maestà? Perché mai un montone sì e un bue no? Perché, rispose l’Imperatore della Cina, il bue l’ho guardato in faccia, il montone no”.

Al racconto segue la spiegazione: “Guardandolo in faccia, fissandolo nei suoi occhioni umidi l’imperatore aveva sorpreso quel bue nella sua individualità. Non era più un bove qualsiasi. Era quel bue particolare: con quegli occhi, con quello sguardo smarrito” (storia riportata da B. Placido, in “La Repubblica” 2. 6.1996, p. 31).
Il volto in cui si esprime l’irriducibile alterità dell’altro – i due segnavia sui quali abbiamo precedentemente riflettuto per inciderli nelle profondità delle nostre intelligenze – non è un volto che si guarda, come si guarda un oggetto a disposizione del soggetto o come si guarda una bella forma da contemplare, ma un volto che mi riguarda: nel senso paradossale che nel guardarlo non sono io a guardarlo ma lui a guardarmi, e con una assolutezza tale che il suo sguardo per me è precetto o comando al quale non posso sottrarmi e in alcun modo opporre resistenza. Per il medico il volto è oggetto da osservare e analizzare come per il pittore forma da contemplare e riprodurre, ma ciò che costituisce il volto nella sua verità ultima non è la sua dimensione rappresentabile, per cui è oggetto tra gli oggetti, e neppure la sua dimensione estetica, per cui è forma tra le forme, ma il suo essere as-soluto, nel senso etimologico del termine che vuol dire sciolto e slegato dall’io, sul quale l’io non può più potere e dal quale è comandato.
È l’esperienza dell’imperatore quando i suoi occhi incrociano gli occhi dell’animale che, nella loro impotenza (“con quegli occhi, con quello sguardo smarrito”), hanno la potenza di mettere in crisi la sua potenza. Per il mantenimento del potere e dell’ordine sacrificale che esso istituisce (l’ordine fondato sulla oppressione e sulla violenza del più forte sul più debole) è necessario sottrarsi al volto dell’altro nella sua dirittura e impotenza (“il bue l’ho guardato in faccia, il montone no”). Se perfino per uccidere un animale è necessario evitarne lo sguardo, è perché anche nel suo volto si cela e albeggia il precetto divino: “tu non ucciderai”.
L’interrogativo più radicale dell’uomo non è se Dio esiste o, in termini filosofici, se l’assoluto è attingibile ma dove, nella storia, rintracciarne la presenza e la parola. In un testo del 1989 E. Lévinas scrive: “La ricerca del luogo originario di questa idea dell’Infinito è senza dubbio uno dei problemi principali della filosofia. Luogo da ricercare nelle dimensioni dell’umanità dell’uomo. Ebbro d’essere in sé e per sé nella presenza – o la modernità – che esso disvela attraverso il suo pensiero conoscitivo e installato nel suo cogito in maniera più indubitabile dei suoi piedi sulla terra, l’uomo è capace di disubriacatura e di dis-inter-esse e di vigilanza estrema di fronte al suo prossimo assolutamente altro. Vigilanza che non è quella di uno sguardo. Vigilanza di una responsabilità che, da me all’altro, è trascendenza in cui l’alterità dell’altro, irriducibile, mi concerne in quanto eletto e insostituibile… Il volto del prossimo non è forse il luogo originario in cui la trascendenza invoca un’autorità attraverso una voce silenziosa in cui Dio viene all’idea? Luogo originario dell’Infinito” (E. Lévinas, cit. da E. Baccarini in E. Lévinas, Saggi sul pensare all’altro, Jaca Book, Milano 1998, p. 11).
Il volto del prossimo, l’altro nella sua alterità, è “il luogo originario” dove Dio si rivela come precetto o comandamento. Comandamento che comanda non con la forza ma con la debolezza, essendo il volto, nella sua nudità, la debolezza stessa in cui si riflette la miseria di ogni “straniero”, di ogni “povero”, di ogni “orfano”, di ogni “debole” e di ogni “vedova”, cioè dell’umano nella sua fragilità e nella sua mortalità; e che comanda l’io perché l’io, di fronte a quella miseria, non resti indifferente ma se ne faccia carico innalzandosi all’altezza di un umano che è il vero umano. Scrive Lévinas: “L’epifania del volto come volto apre la umanità. Il volto, nella sua nudità di volto, mi presenta la miseria del povero e dello straniero; ma questa povertà e questo esilio che fanno appello al mio potere, che tendono a me, non si consegnano a questo potere come dei dati, restano espressione di un volto. Il povero, lo straniero si presentano come eguale” (Lévinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1977, p. 218).
“Luogo originario” dell’assoluto, il volto, nella sua alterità irriducibile, è la parola prima che Dio parla e della quale ogni altra parola, da quella biblica a quella delle religioni e delle grandi letterature, è la ripresa e la formulazione esplicita: “Questo volto dell’altro senza risorsa, senza sicurezza, esposto al mio sguardo nella sua debolezza e nella sua mortalità è anche quella che mi ordina: ‘tu non uccidere’. Nel volto c’è l’autorità suprema che comanda, e io dico sempre, è la parola di Dio. Il volto è il luogo della parola di Dio. In altri c’è la parola di Dio, parola non tematizzata” (E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, Jaca Book, Milano 1998, p. 11).
L’altro, nella nudità del suo volto o alterità, è la cattedra anonima dalla quale Dio parla e dove, per il racconto neotestamentario, si cela Gesù stesso, “il Figlio dell’uomo”, il giudice escatologico. Quando, nel giudizio finale, i buoni saranno separati dai cattivi, gli uni perché lo hanno accolto e gli altri rifiutato, alla domanda: “Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”, egli risponderà: “In verità vi dico, ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 33-40). Commentando questo testo Lévinas osserva: “La relazione con Dio è presentata come relazione con l’altro uomo. Non è una metafora: negli altri vi è una presenza reale di Dio. Nella mia relazione con altri io sento la parola di Dio. Non è una metafora, non è solo una cosa estremamente importante: è letteralmente vera. Non dico che altri sia Dio ma nel suo Volto io sento la parola di Dio” (ivi, 144; corsivo mio).
Figli della modernità e della libertà, alle nostre intelligenze suona stridente e opprimente il termine precetto o comandamento. Ma l’uomo biblico sa – e questo sapere è da incidere come incancellabile segnavia nella vita – che il luogo originario del precetto divino è il volto, e che in questo precetto si custodisce la saggezza dell’umano: “il tuo precetto mi fa saggio” (Sal 119, 98).