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    Responsabilità


    “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”

    Carmine Di Sante

    (NPG 2003-03-3)



    Dopo aver chiamato a sé i dodici discepoli, Gesù conferì loro una missione e diede loro delle istruzioni. La missione: “Diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattia e d’infermità” (Mt 10,1). Le istruzioni: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. E strada facendo predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Ciò che i discepoli sono chiamati a fare è di guarire, di liberare l’umanità dalle potenze del male, a partire da quella figura elementare e universale che è la sofferenza, e la ragione per cui essi devono farlo è che hanno ricevuto tutto gratuitamente e quindi devono restituire tutto gratuitamente. Se tutto è grazia, la coscienza della grazia non si limita alla riconoscenza ma, per la bibbia, si traduce in acconsentimento. Per essa sapere che tutto è grazia non riguarda solo l’ordine della coscienza, per cui sarebbe sufficiente, per l’io, sapere che tutto gli è donato e trasformare la sua nuova conoscenza in riconoscenza, ma riguarda soprattutto l’ordine del volere e dell’agire, per cui, se tutto è grazia, volere è volerla e agire è agire per realizzarla. La risposta alla grazia non si esaurisce nella riconoscenza ma si esprime soprattutto nella responsabilità che, per la bibbia, è il segnavia per eccellenza da seguire per non perdersi nell’ambiguità e complessità dell’esistenza.

    Ma cosa vuol dire, per la bibbia, rispondere all’amore di Dio che ama gratuitamente, facendo sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi? In altre parole: cos’è per essa la responsabilità intesa come la risposta più coerente alla sua grazia?
    Rispondere all’amore di Dio vuol dire innanzitutto, per la bibbia, amare Dio: “Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6, 4-5). Secondo questo celebre testo del Deuteronomio, se il primo imperativo all’uomo è di ascoltare Dio, il secondo è di amarlo “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”, cioè totalmente, integralmente, radicalmente, senza conservare nulla per sé. Ma, per la bibbia, amare Dio con questa totale dedizione non vuol dire amarlo di amore di desiderio, ma volere il suo volere sostituendo al proprio il suo. Amare Dio non vuol dire amarlo come oggetto supremo di appagamento, come diventerà comune pensare nella tradizione cristiana, ma offrirgli il proprio volere, perché egli faccia di noi quello che egli vuole. E ciò che Dio vuole non è che l’uomo lo riami, ma che l’uomo ami il suo vicino o prossimo come lui lo ama: gratuitamente e disinteressatamente. Rispondere all’amore di Dio vuol dire quindi amare il prossimo – il primo altro o volto che accade all’io di incontrare – come Dio lo ama: “gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date”. Responsabilità quindi è amare il prossimo incondizionatamente e disinteressatamente, chinandosi sulla sua sofferenza, liberandolo dai fantasmi che lo minacciano (si ricordi l’ordine di Gesù ai suoi discepoli di “scacciare gli spiriti immondi”, le potenze negative che rendono l’uomo schiavo e lo opprimono) e accogliendolo gratuitamente come il Padre celeste che fa sorgere il suo sole indistintamente sui buoni e sui cattivi.
    Nella sua ultima cena, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, Gesù, secondo il racconto del quarto evangelista, “si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto… Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio perché, come ho fatto io facciate anche voi” (Gv 13, 4ss). Quello che Gesù ha fatto, il suo amore di servizio e di spossessamento simboleggiato nel gesto dello schiavo che lava i piedi del suo maestro, non è offerto come una realtà da contemplare ma come un esempio o paradigma da imitare: quello che Gesù ha fatto lo ha fatto perché venga rifatto da ciascuno di noi. E ciò che lui ha fatto è di servire tutti indistintamente: “Lui, ha quel cuore di bambino che nulla sa di distinzioni. Il virtuoso e la canaglia, il mendicante e il principe: a tutti si rivolge con la stessa voce solare, come se non ci fosse né virtuoso, né canaglia, né mendicante, né principe, ma solo, ogni volta, due esseri viventi faccia a faccia, e in mezzo ai due la parola, che va, che viene” (Ch. Bobin, L’uomo che cammina, Edizioni Qiqajon, Magnano BI 1998, p. 16).
    Responsabilità è amare come Dio e come Gesù che di Dio è l’icona: “Non parla per attirare su di sé un briciolo d’amore. Quello che vuole, non per sé lo vuole. Quello che vuole è che noi ci sopportiamo nel vivere insieme. Non dice amatemi. Dice: amatevi. Un abisso tra queste due parole. Lui è da un lato dell’abisso e noi restiamo dall’altro. È forse l’unico uomo che abbia mai davvero parlato, spezzato il legami della parola e della seduzione, del lavoro e del lamento” (ivi, 127).
    Così intesa la responsabilità biblica – l’amare come Dio ama gratuitamente e asimmetricamente – è altra dalla responsabilità moderna, e istituisce una nuova identità che non è quella dell’io che si cura di sé e dei suoi interessi, bensì quella dell’io che, dimentico di sé, dei suoi interessi e dei suoi diritti, si prende a cuore la sorte dell’altro, chinandosi sui suoi bisogni e assumendone la povertà e la miseria. È noto che la modernità si vuole come istituzione della responsabilità individuale: dell’io adulto e responsabile di sé e delle sue scelte, secondo la nota definizione di Kant sull’illuminismo. Affermazione incontrovertibile e irrinunciabile della quale andare fieri ed essere grati all’epoca moderna che l’ha pensata. Ma, rispetto a questa, altra è la responsabilità di cui qui si parla e che, per la bibbia, custodisce il segreto dell’umano. Mentre la responsabilità moderna è infatti la responsabilità dell’io nei confronti di ciò che l’io decide e sceglie, la responsabilità biblica è la responsabilità dell’io nei confronti dell’altro da sé e irriducibile ai suoi progetti e desideri. Tra le due forme di responsabilità corre una differenza irriducibile e abissale di cui prendere coscienza: perché nel primo caso l’io risponde di ciò che egli decide e vuole, mentre nel secondo risponde all’altro che gli accade di incontrare e che non ha mai né desiderato né progettato. La responsabilità moderna nasce e si consuma nel circolo chiuso dell’identità (l’io risponde di sé a sé), per cui, più propriamente, ciò di cui essa parla è la coerenza, come quella di chi si iscrive ad un corso universitario, portando a termine e realizzando il suo progetto. La responsabilità biblica al contrario non consiste, per l’io, nella realizzazione coerente dei suoi progetti, ma nel rispondere all’altro – ogni altro – che gli accade di incontrare e che, mettendo in crisi i suoi progetti e desideri, gli apre un al di là del progetto e del desiderio, la responsabilità appunto. L’io biblicamente responsabile non è l’io che si realizza desiderando, progettando e programmando, ma l’io che risponde all’altro, o volto che gli passa accanto e nella cui alterità risuona la voce dell’assoluto, o Dio che gli dice: amalo come io lo amo.
    La responsabilità biblica così intesa è sinonimo stesso della bontà o santità: non occuparsi di sé ma preoccuparsi dell’altro, amando, tacendo, soffrendo, servendo, sorridendo, promuovendo la giustizia e la misericordia, tendendo per primo la mano piuttosto che ritirarla, subendo un torto piuttosto che farlo, scegliendo di patire la violenza piuttosto che produrla e ritenendo amico il nemico piuttosto che escluderlo ed eliminarlo. In una parola: dando gratuitamente come tutto si riceve da Dio gratuitamente. E, nel dare gratuitamente, l’io sperimenta quella cosa straordinaria rivelata da Gesù che a riferire è solo Paolo nel suo discorso di addio agli Efesini: “In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù che disse: C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20, 35).
    La responsabilità come risposta d’amore all’altro amato gratuitamente come Dio lo ama è lo spazio/evento dove si incontra Dio, ci si apre all’altro, si edifica il mondo giusto e buono e l’io scopre la gioia, cioè si salva. Per questo essa, la responsabilità, è il “luogo” stesso della vita eterna, come Gesù mostra con la parabola del buon samaritano rispondendo al dottore della legge che gli chiede: “Maestro che devo fare per ereditare la vita eterna?”. E la risposta di Gesù è che egli deve fare quello che ha fatto il samaritano. Essere cioè responsabile del primo volto che gli accade di incontrare.


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