Addio a Nino, il guerriero

Virginia Di Cicco

(NPG 2003-02-2)


Quest’anno sono più sola.
Ho cercato con fatica le parole giuste per salutare Nonno Nino. E mai come oggi, ogni parola, scelta con cura e pesata per bene, mi è apparsa così inadeguata, inefficace, approssimativa.
Ho dovuto aspettare di essere a Firenze, in mezzo a centinaia di persone, e vedere quei giovani della scorta, con la stessa faccia in amore come la nostra, che portavano la bara con delicatezza, cercando di proteggere la sua morte come avevano fatto con la sua vita. Ho dovuto aspettare di essere folla e applausi e lacrime, di quelle familiari anche un po’ timide, che si nascondono per proteggere la loro riservatezza, per capire che Antonino Caponnetto era un guerriero.
Ed è questa l’unica parola che mi piace rigirarmi nella bocca: un guerriero. A guardarlo, l’antitesi di se stesso: fragile, minuto nella struttura di cristallo, affaticato a volte fino allo stremo, la voce consumata e stanca che diventava un sussurro, la salute e l’età che non si volevano arrendere, il passo lento che trasformava ogni corsa in una danza.
Uno strano guerriero che da questa apparente incompatibilità con la missione che aveva scelto tirava fuori un’anima di ferro. Quando lo videro arrivare a Palermo, subito dopo l’attentato che aveva ucciso il Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, molti nel Palazzo dei veleni – così era chiamato il Palazzo di giustizia – sorrisero con un ghigno. Avevano mandato nella città in guerra un generale di carta velina, con quel volto magro e scavato. Sarebbe durato un attimo, il tempo della transizione. Che sorpresa avranno avuto quando la carta velina rivelò la spina dorsale d’acciaio, sopportò senza esitare una vita di segregazione peggiore del 41 bis, e soprattutto non ebbe mai paura di tutte le minacce e le intimidazioni che arrivavano perfino nel suo ufficio, davvero protetto in modo ridicolo. Che sorpresa quando videro che Antonino Caponnetto faceva sul serio e non aveva paura di spezzarsi né di essere spezzato. Che sorpresa quando lo videro fare da scudo ai suoi uomini, bersagli dal volto onesto che facevano prudere le mani sporche di fango di chi li voleva sporchi, anche loro, a costo di tirar melma con menzogne e infamie, durante la straordinaria stagione dei maxi-processi contro la mafia. Da scudo a quei giovani magistrati che ridevano di rado come fanno i giovani quando sono a svolgere il lavoro che i grandi non sanno o non vogliono svolgere e i grandi non ci stanno. Con il volto duro per dimostrare nessuna soggezione, e che parlavano di lui dicendo soltanto: “il Consigliere ha deciso..., il Consigliere ha detto…” e un rispetto che induriva il tono perché la forza del legame non trasparisse. E il guerriero fu un padre tenero che correggeva gli eccessi per insegnare ad economizzare le energie, consolava le pene e festeggiava l’arrivo di qualche amore che portasse un po’ d’aria in quelle esistenze blindate. La vita, nonostante tutto. La vita comunque. E venne voglia di strozzarla quella vita tanto per bene, così sfacciata da eludere persino la segregazione delle giornate intere sotto scorta. Così sfacciata da gridare in giro che era possibile liberarsi dalle catene del cancro mafioso che soffocava l’onore nella paura.
Quando vide cadere i suoi figli uno ad uno, non retrocesse di un passo e sempre fece da scudo ai suoi morti, mentre qualcuno si ostinava ad ucciderli ancora, giorno dopo giorno, nella memoria. Immobile come in una tragedia greca, fermo dal dolore, in piedi per ore sull’altare a proteggere le bare di Giovanni e di Francesca e dei giovani che li avevano difesi fino alla fine.
Fradicio di pioggia con la bara di Paolo sulla spalla. Il peso insopportabile era nel cuore, mi disse durante un’incontro. E quando gli offrii un foglio e gli chiesi di scrivere per me una frase che potesse darmi coraggio nei momenti duri, quelli in cui si ha voglia di abbandonare tutto, scrisse: “La speranza significa tenere aperto l’oblò anche quando l’oceano è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro”.
Poi sorridendo precisò: “Non è mia, è di Bob Dylan”.
Grazie Nonno Nino.