Il racconto del già e non ancora


Nazzareno Marconi

(NPG 2004-09-28)



Una fede in cammino

Una caratteristica importante della fede che emerge dal racconto biblico è quella di essere una fede in cammino. Tutti i grandi personaggi e i grandi racconti puntano decisamente verso una meta, un avvenire lontano del quale però già si vedono le gemme e le prime foglie. Fin dalle storie dei patriarchi d’Israele questo sguardo rivolto al futuro è una costante della fede.
Giacobbe, l’uomo che per tutta la vita “aveva lottato con Dio” – questo è il senso del suo soprannome “Israele” – giunto sul letto di morte chiama a sé i 12 figli e profetizza poeticamente sul loro futuro (Gn 49,1ss).
Fin da questo antico racconto traspare la visione di un futuro che è nelle mani di Dio, nel quale si compirà la giustizia. I colpevoli di violenza e sopruso saranno puniti. I giusti troveranno salvezza e premio. Ma questo sguardo sul futuro non è solo un salto oltre il presente. Il patriarca infatti comincia già ad attuare la giustizia futura; per questo toglie a Ruben, Simeone e Levi i diritti della primogenitura, a causa dei loro trascorsi di violenza. Nel contempo pone come primogenito e futura guida del popolo Giuda, cosciente di compiere così la volontà divina sull’avvenire. Infatti Dio proprio dalla tribù di Giuda trarrà Colui “a cui appartiene il bastone del comando e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli” (Gn 49,10).
In definitiva fin da questo inizio, tramandato da un testo molto arcaico, il futuro per la Bibbia è narrato come salvezza dei buoni e giustizia per tutti. Questa visione non è però solo fuga in avanti e consolazione sentimentale: infatti chiama il popolo di Dio a camminare fattivamente fin dal presente per iniziare a realizzare questa giustizia.

LA GRANDE IMMAGINE

Per narrare questo cammino verso il futuro, che già comincia a concretizzarsi nel presente, la Bibbia ci offre una grande immagine sintetica. È la città di Gerusalemme. Questa città ha una importanza fondamentale nella storia del popolo sia dell’antico che del nuovo testamento. Infatti da essa parte la grande speranza di giustizia e di bene per il popolo. Israele non aveva mai potuto guardare al futuro con speranza finché non ebbe un possesso certo sulla terra. Ciò si concretizzò storicamente al tempo del re Davide, quando per la prima volta il popolo potè sognare il suo futuro chiamando la terra di Canaan: terra di Israele. Il grande segno di questo possesso certo della terra, tanto che si poteva cominciare a pensare all’avvenire come a qualcosa di concreto, fu aperto con la conquista di Gerusalemme da parte di Davide, che ne fece la sua capitale. Inoltre l’arca di Dio portata nella città, quando ancora non c’era un tempio, fu già l’annuncio di un futuro di benedizione e di certezza nell’aiuto del Signore per tutto il popolo.
Chi non comprende questa funzione di Gerusalemme come concreto fondamento della speranza del popolo, non riesce a comprendere le tante frasi bibliche, cariche di fede e speranza nel futuro, che fanno riferimento alla città di Gerusalemme soprattutto nella letteratura profetica e nei salmi.
Questa città inoltre, con la sua concretezza, rispondeva bene all’elemento concreto della speranza biblica e dello sguardo rivolto al futuro. Ma insieme con il suo perenne contenuto ideale, la Gerusalemme simbolo e sogno, costituiva l’elemento non raggiunto, incompleto e atteso della stessa speranza biblica. Cioè quel “non ancora” che segna egualmente e sempre lo sguardo credente rivolto al futuro.
Il racconto del “già e non ancora” si concretizza e simbolizza dunque nel racconto di Gerusalemme: la Gerusalemme del passato, del presente e soprattutto la Gerusalemme del futuro ultimo.

La Gerusalemme del passato

Nella tradizione biblica Gerusalemme compare molto presto, la Bibbia infatti la riconosce nella città di Melchisedec, contemporaneo di Abramo (Gn 14,18 ss), e ne identifica forse la posizione con il Monte Moria, dove Abramo offrì il suo sacrificio (2 Cron 3,1).
Questa doppia identificazione annuncia la città come il luogo della benedizione divina, che da Abramo raggiungerà tutti i popoli, a partire dalla discendenza dello stesso patriarca.
Al tempo dei Giudici, Gerusalemme era ancora una città pagana (Giud 19,11s), perché gli Israeliti avevano fallito nel loro primo tentativo di conquista (Giud 1,1).
Non fu certo un insuccesso senza significato: Gerusalemme, la città del futuro, non poteva essere conquistata dagli uomini contando solo sulle loro forze, perché il futuro è prima di tutto e soprattutto un dono di Dio.
Infine, quando venne il tempo giusto stabilito dalla provvidenza divina, David la prese ai Gebusei (2 Sam 5,6ss). Ne chiamò la cittadella “città di David” (5,9), la fortificò e ne fece la capitale politica del suo regno. Poi trasportandovi l’Arca dell’alleanza (6), vi fissò il santuario, segno basilare dell’unione tra le dodici tribù.
La promessa del profeta Natan confermò quanto “già” era stato realizzato dal grande re, ma annunciò anche un “non ancora” pieno di speranza, che Salomone avrebbe solennemente iniziato costruendo e dedicando il tempio (1Re 68). Venne così ad essere determinato il destino religioso della città, insieme concreto e simbolico, realtà presente e annuncio di un futuro ben più luminoso.
Nella terra santa infatti Gerusalemme occupava un posto a parte. Possesso personale della dinastia di David, essa rimane fuori del catasto delle tribù. Capitale politica, rappresenta in concreto l’unità nazionale del popolo di Dio. Capitale religiosa, è il centro spirituale di Israele perché Dio risiede in essa, sul monte Sion, che ha scelto come dimora (Sal 78,68s; 132,13-18). Così i credenti salgono ad essa in frequenti pellegrinaggi.
Questo duplice significato giustifica il suo carattere di città santa e le conferisce una funzione di primo piano nella fede e nella speranza di Israele.

L’esperienza del fallimento

Tutta la storia della Gerusalemme passata condivide la basilare caratteristica della storia del popolo eletto: quella di essere storia di fedeltà e di peccato, di tradimento e di perdono, e in particolare di essere una storia sottoposta, prima o poi, al giudizio inappellabile di Dio.
Immediatamente dopo la gloria luminosa del tempo di Salomone, Gerusalemme subisce il tremendo disastro dello scisma, che segue la morte del re e giunge come giusto castigo divino per le infedeltà del monarca (1 Re 11).
Da quel momento la storia di Gerusalemme è storia di una piccola città, capitale di uno stato ancora più piccolo: il regno di Giuda.
La sua grandezza e il suo valore restano quasi esclusivamente spirituali, la concretezza del presente si appoggia sempre di più sul “non ancora” del futuro, garantito dalla presenza del tempio di Dio. Ma Geroboamo crea in Israele dei santuari ufficiali che gli faranno concorrenza (12,26-33), e presto la fondazione di Samaria (16,24) le innalzerà di fronte una capitale rivale.
Alla storia futura della speranza e del bene si contrappone una “controstoria”, della superbia umana e della sopraffazione, dei ricchi e potenti sui poveri. La storia di Samaria, stigmatizzata dai profeti del nord come Amos (3,9ss; 4,1ss; 6,1ss) è per tanti versi la storia dell’Anti-Gerusalemme. Con un linguaggio preso in prestito da s. Agostino si potrebbe contrapporre la storia della “città di Dio” con quella della “città degli uomini”.
Tuttavia il significato di Gerusalemme sussiste, soprattutto agli occhi dei Giudei fedeli. Per loro la caduta di Samaria è segno e annuncio di quel “giudizio divino” che giungerà, immancabile elemento del futuro e della speranza credente. Le speranze si rivolgono allora di nuovo a Gerusalemme e il re Ezechia tenta di riunire le tribù del Nord. Vi realizza una prima riforma religiosa (2 Re 18,1-4), e sotto il suo regno la città esperimenta una liberazione straordinaria in occasione dell’invasione di Sennacherib (2 Re 18,1.3-19,36): il suo ricordo rimarrà scolpito a gloria della città santa (Sal 48,5-9).
Un secolo più tardi, il re Giosia tenta di nuovo di raggruppare tutti gli Israeliti attorno ad un santuario dove il culto sarà ormai centralizzato in modo stretto (2 Re 22,1-23,25). Un tempio, una città e un culto è la parola d’ordine di questo re, e per tanti versi un annuncio pieno di speranza in un futuro di fede e di amore a Dio. Ma il suo sarà l’ultimo tentativo dell’AT per salvare l’opera nazionale di David.
L’immancabile giudizio di Dio giunse, testimonianza e annuncio di un giudizio “non ancora” giunto e destinato nel futuro a conglobare tutto il mondo (2 Re 23,26s). “Perché è diventata una prostituta, la città fedele?” (Is 1,21).
Il messaggio profetico è fortemente permeato dalla tematica del giudizio divino sul suo popolo, che simbolicamente è soprattutto giudizio su Gerusalemme.
L’ira di Dio si abbatterà dunque su di essa: Isaia non vede salvezza che per un “resto santo” (Is 4,2s). Geremia promette al tempio la sorte di quello di Silo che fu distrutto (Ger 7,14). Ezechiele, riepilogando le infedeltà della città, le annunzia il castigo vicino (Ez 11,1-12; 23; 24,1-14), perché Dio ha deciso di abbandonarla (10,18ss).
Preparato da questi oracoli profetici il giudizio futuro di Dio si compie con la distruzione finale delle città ad opera di Nabuchodonosor (Ez 9,1-10,7).
Verificatosi questo evento luttuoso, la “figlia di Sion” non ha più che da confessare la sua lunga colpevolezza e piangere i suoi peccati (Lam 1-2).
Ma come sempre accade nella storia che Dio vive con il suo popolo, l’ultima parola non è mai la distruzione definitiva, ma sempre il perdono e la misericordia. Il futuro ha quindi ancora una luce di speranza.

La Gerusalemme nuova del futuro

I profeti infatti, mentre annunciano il dramma e ne seguono lo svolgersi, annunciano anche la sua soluzione nella misericordia divina e nella salvezza futura.
È la Gerusalemme nuova che a partire da Isaia i profeti intravedono nel futuro misericordioso di Dio. Isaia la vede ritornata, dopo la prova, “città di giustizia e cittadella fedele” (Is 1,26s).
Geremia scorge il giorno in cui il popolo di Israele sarebbe tornato ad adorare Dio a Sion (Ger 31,6.12). Ezechiele descrive minuziosamente la città futura, ricostruita attorno al tempio (Ez 40-46). Essa è il nuovo centro di un paese paradisiaco (47,1-48,29), aperta all’accoglienze e al ritorno delle dodici tribù (48,30-35) e avente come nome “Dio è là” (48,35).
Durante il periodo dell’esilio queste visioni del futuro si svilupperanno in promesse grandiose: Gerusalemme, scontati i suoi peccati, ritroverà le sue vesti festive (Is 51,17-52, 2). Magnificamente ricostruita (54,11) diventerà nuovamente la sposa del Signore (54,4-10), e così vedrà moltiplicarsi meravigliosamente i suoi figli (54,1ss. 49,14-26).
Questo futuro luminoso, che punta ad un tempo lontano e non ancora raggiunto, non è però puro sogno. Se esso è mistero e “non ancora”, è insieme arricchito dalla concretezza di un “già” che comincia con l’editto di Ciro (Esd 1-3) e la prima timida ricostruzione di parte della città distrutta da Nabucdonosor (Esd 5-6).
Questi segni non devono però illudere, il futuro non è qui. Se esso comincia a realizzarsi, il suo compimento pieno diventa sempre più glorioso e sempre più spostato nel futuro. Se gli uomini ricostruiscono le brecce e riedificano il tempio, la loro azione è poco più che simbolica: è solo Dio che salva e risana!
I profeti perciò annunciano la gloria della nuova città e del suo tempio, chiamati a diventare il centro religioso dell’universo (Agg 2,6-9; Is 60;62). E sempre più, il tono del testo profetico diventa ideale e futuro, fino a confondere l’immagine di Gerusalemme con quella del paradiso ritrovato (Is 65,18). Sion partorirà il nuovo popolo per una gioia senza pari (66,6-14).
La situazione concreta rimane di fatto molto meno brillante, e la città continua a conoscere la sua parte di prove: le mura restano a lungo in rovina (cf Sal 51,20; 102,14-18), e occorre l’energia di Neemia per ricostruirle (Neem 1-12). Sotto l’impulso dei suoi restauratori, essa diventa la “fortezza della legge di Dio”, isolata il più possibile dagli influssi stranieri (cf Neem 13). Ma questa capitale di una minuscola provincia è ormai priva di ogni funzione politica importante.
Questa fine di una speranza e un futuro umani, legati a logiche di potere politico e di forza militare, rimandano sempre più chiaramente alla visione di un futuro che chiamerà Gerusalemme a svolgere, quasi esclusivamente sul piano religioso, la sua missione essenziale.
Da ogni parte i Giudei si rivolgono ad essa (Dan 6,11). Vi si sale in pellegrinaggio (Sal 122) e si pone la propria gioia nel dimorarvi (Sal 84). È l’epoca delle belle liturgie nel tempio e soprattutto dei salmi che celebrano la residenza di Dio sulla terra (Sal 46; 48), chiamata a diventare la madre di tutte le nazioni (Sal 87). Giocando sul significato del suo nome, le si augura la “pace” (shalom: Sal 122,6-9) e la si invita a lodare Dio (Sal 147,12 ss).

La Gerusalemme del futuro

Su questo sfondo evolutivo diventa del tutto normale che gli ultimi testi profetici facciano di Gerusalemme il teatro del giudizio escatologico (Gio 4,9-17) e del banchetto di gioia offerto a tutta l’umanità (Is 25,6ss). Inoltre ne evocano la liberazione e la trasfigurazione finale (Zac 12;14).
Descrivendo in anticipo la felicità che Dio riserva alla città santa, la invitano alla fiducia (Bar 4,30- 5, 19). Essa conoscerà ancora la prova, sotto il re Antioco che la profanerà (1 Mac 1,36-40). Ma, in contrasto con questa realtà storica spesso poco brillante, le apocalissi giudaiche, che costituiscono il cuore della letteratura credente ebraica tra i due testamenti, presenteranno un’immagine sempre più fantastica della città futura. Per esse, esiste fin d’ora una Gerusalemme celeste, di cui la città davidica non è che la riproduzione imperfetta.
Negli ultimi tempi questa Gerusalemme sarà rivelata da Dio e discenderà sulla terra.
Una immagine bellissima per connotare insieme il futuro: sia come compimento del cammino umano, che come dono assolutamente gratuito che giunge da Dio.

IL NUOVO TESTAMENTO E LA SPERANZA CRISTIANA

Nella letteratura neotestamentaria, a partire dai vangeli, Gerusalemme occupa un posto sempre più importante. Tanto che in Luca questa città si trova al centro del discorso sulla storia provvidenziale della salvezza, snodo fondamentale nel passaggio da Gesù alla Chiesa.

La Gerusalemme del vangelo di Marco

Secondo il vangelo di Marco, il più antico, l’eco della predicazione di Giovanni Battista giunge fino a Gerusalemme (Mc 1,5). Ma il vangelo del regno annunziato da Gesù ha inizio e si realizza dapprima solo in Galilea (1,28.39). Gesù non si volge a Gerusalemme se non dopo aver urtato contro l’incredulità delle città di Gaillea (6,1-6; 8,11s; 9,30) e dopo aver annunziato per ben tre volte la sua passione: non vi sale che per consumarvi il suo sacrificio (10,32 ss).
Da questo momento si svolge il dramma: Gesù entra trionfalmente nella città conformemente alla Scrittura (11,1.11) e vi compie un’azione profetica con la purificazione del tempio (11,15-19). È un successo senza prospettive perché egli urta contro l’opposizione delle autorità giudaiche (11,27.12,40). Perciò, nella prospettiva della sua morte imminente (12,6-9), Gesù profetizza il castigo della città e la profanazione del suo tempio (13,14-20), fine di un tempo e preludio al giudizio finale da parte di Dio (13,24.27).
Effettivamente Gesù, rigettato dal popolo (15,6-15), condannato dai suoi capi (14,53-64), è crocifisso fuori della città (15,20 ss). Mentre egli muore, il velo del tempio si lacera, per indicare che l’antico santuario ha perso il suo carattere sacro (15,33-38). Qui Gerusalemme è soprattutto il luogo del grande rifiuto. Il segno di un presente che si è allontanato da Dio e che non entrerà nel futuro se non attraverso il giudizio e la condanna: non ne resterà pietra su pietra.

La Gerusalemme del vangelo di Matteo

A questo schema che conosce e rielabora, Matteo aggiunge parecchi tratti significativi. II dramma futuro si proietta sull’infanzia di Gesù: mentre dei pagani guidati da un astro vengono a Betlemme ad adorare il Messia (Mt 2,1s. 9ss), gli scribi non sanno riconoscere in Gesù colui che le loro Scritture annunciano (2,4 ss) e il re Erode medita già di farlo morire (2,16 ss). La capitale è privata della corona a vantaggio di Betlemme e di Nazaret. Figlio di David, Gesù non porterà il nome di Gerusalemme, la città del suo antenato, ma quello di Nazaret (2,23).
Durante il ministero pubblico, gli avversari peggiori di Gesù vengono da Gerusalemme (15,1). Perciò egli fa lamento sulla sorte riservata alla città, che mette a morte gli inviati divini (23,37 ss). Di conseguenza, in Galilea hanno luogo le apparizioni conclusive, durante le quali Gesù risorto manda i suoi apo-stoli a tutte le nazioni (28,7.16-20).

La Gerusalemme del vangelo di Giovanni

In questo disegno un po’ convenzionale, Giovanni introduce annotazioni storiche più complesse. Egli di fatto conosce parecchi viaggi di Gesù a Gerusalemme, dove si svolge la maggior parte del dramma. Presenta a lungo l’incredulità del suo popolo (Gv 2,13-25), la difficoltà che i suoi dottori migliori incontrano nel credere (3,1-12), i miracoli che Gesù vi compie e le contraddizioni che vi deve subire (5,7-10). Il suo ultimo miracolo è compiuto alle porte di Gerusalemme, come un’ultima testimonianza sulla sua opera di salvezza; ma Gesù se ne ritira quando sa che si complotta contro di lui (11,1-54). Non vi ritorna che per portare a compimento “la sua ora” di salvezza (12,27; 17,1). Ancor più che in Marco, qui è sottolineato il grande rifiuto di Gerusalemme.

La Gerusalemme nell’opera di Luca

Infine unendo al racconto evangelico un abbozzo delle origini cristiane, tratteggiato nel libro degli Atti, Luca mette in evidenza un’altra faccia di questo dramma sacro tutto volto al futuro di cui Gerusalemme è il centro. Nella vita di Gesù essa è il luogo al quale tutto fa capo. Il bambino Gesù vi è presentato, e anime fedeli ve lo sanno riconoscere (Lc 2,22-38). Vi sale nuovamente all’età di dodici anni e vi manifesta la sua sapienza in mezzo ai dottori (2,41-50): annunzi velati della sua manifestazione e del suo sacrificio futuri. Infatti Gerusalemme è lo scopo della sua vita: “Non conviene che un profeta perisca fuori di Gerusalemme” (13,33). Luca quindi dà un grande rilievo all’ascesa di Gesù verso la città in cui deve avvenire la sua partenza (9,31; 9,51; 13,22; 17,11; 18,31; 19,11.28). Dinanzi al rifiuto definitivo opposto alla sua missione, egli ne annunzia la rovina in termini più precisi che non in Marco e in Matteo (19,41-44; 21,20-24). Ma la prospettiva di un tempo intermedio, il “tempo dei pagani”, separa nettamente questo evento dalla consumazione finale (21,24-28).
Di fatto, se la storia di Gesù termina a Gerusalemme con il suo sacrificio, le sue apparizioni e la sua ascensione (24, 6-53; Atti 1,4-13), di là riparte poi la storia della testimonianza resa dagli apostoli.
A Gerusalemme essi ricevono lo Spirito (Atti 2). Da quel momento hanno la missione di portare il vangelo da Gerusalemme fino in Giudea, in Samaria e alle estremità della terra (1,8; cf Lc 24,47s).
Effettivamente essi annunciano dapprima la buona novella nella città e vi fondano la comunità cristiana (Atti 2-7). Il sinedrio vi rinnova contro di essi l’ostilità che aveva causato la morte di Gesù (4,1-31; 5,17-41). Per bocca di Stefano, Dio annunzia quindi la distruzione del tempio fatto da mano d’uomo, in punizione della resistenza di Israele allo Spirito Santo e del suo rigetto di Gesù (7,44-53).
La persecuzione suscitata da queste parole provoca la dispersione di una parte della comunità (8,1); ed ecco, per una conseguenza paradossale, una nuova espansione del vangelo in Samaria (8,2-40), a Cesarea (10), poi fino ad Antiochia (11,19-26), dove i primi pagani sono accolti nella Chiesa. Così pure la morte del primo testimone del vangelo ha come frutto la conversione di Saulo, il persecutore che diventerà uno strumento eletto nelle mani di Dio (7,58-8,1-85; 9,1-30).
Da quel momento Saulo lascia Gerusalemme per incominciare il suo compito di missionario (9,30; 11,25 s); anche Pietro la lascia dopo la sua prigionia (12,17); Gerusalemme cessa così di essere il centro della evangelizzazione per andare verso il destino che Gesù le ha predetto. Infine, un giorno, Paolo vi salirà di nuovo, ma per soffrirvi come Cristo (21,11) e subirvi un altro rifiuto (22,17-23). Il vangelo lascia Gerusalemme per raggiungere “le estremità della terra”.
È il momento finale di un giudizio che la Parola di Dio emette sul “già” di questo mondo.
I discepoli sono tratti dal mondo, ma il percorso verso la città futura della salvezza è anche uscita e rinuncia alla città terrestre.

Verso la Gerusalemme celeste

San Paolo, lo “strumento eletto” convertito sulla strada di Damasco (Atti 9), è il primo a sottolineare il superamento dell’antica Gerusalemme da parte di una nuova Gerusalemme, che ha radici nel cielo. Ai Galati egli presenta questa Gerusalemme di lassù, madre nostra, erede delle promesse divine, perseguitata dalla Gerusalemme della terra, che è chiamata a scomparire dinanzi ad essa (Gal 4,24-31).
La lettera agli Ebrei riprende la stessa immagine. Questa Gerusalemme celeste, città del Dio vivente (Ebr 12,21 ss), a cui i cristiani si sono già avvicinati al momento del battesimo, è la residenza divina dove si trova il tempio “non fatto da mano d’uomo”, termine della missione di Cristo (9,24; cf 9,11s). Questo tempio era il modello (typos: 8,5), di cui il tempio di quaggiù non era che la copia, l’ombra, la riproduzione, la figura (8,5;10,1).
Infine l’Apocalisse giovannea ne riprende la descrizione, per contemplare nella sua perfezione finale la Chiesa, sposa dell’agnello (Ap 21,1-22,5), meraviglia sfavillante e città di sogno.
I testi profetici che descrivevano la nuova Gerusalemme, specialmente quelli di Ezechiele e del libro di Isaia, sono qui ripresi e reinterpretati in modo tale che la città terrestre è persa di vista. È inteso soltanto il suo modello celeste; ma la Chiesa della terra ne porta già in sé l’immagine, perché partecipa al suo mistero: essa è la città santa che i pagani calpestano con la persecuzione (11,2).
Al termine del NT la capitale di Israele, l’antico luogo di residenza di Dio in terra, non ha più che il valore di una figura.
Siamo ormai lontani dal tempo del “già” e il “non ancora” è alle porte.
La speranza cristiana si chiude sulla visione luminosa della Gerusalemme celeste che scende da Dio e proprio nel momento in cui le speranze umane sono fallite e la primitiva chiesa è duramente perseguitata, tanto che rischia di estinguersi.
La figura di Gerusalemme in Apocalisse riassume con forza tutto il cammino fatto e sottolinea ancora una volta che la salvezza è un incontro tra la misericordia divina e l’impegno nel bene dell’umanità.
Il “non ancora” che ci attende è solo timidamente annunciato da quanto di positivo e di buono c’è nel “già” che noi sperimentiamo.
Per il resto il futuro è chiuso nel mistero di Dio (Mc 13,32). La fede biblica, tutta rivolta al futuro, non cerca però mai di indagarlo con la curiosità degli oroscopi o degli indovini. Il futuro è invito ad accostarsi con fede a Dio iniziando a costruire la comunione con Lui fin dal presente.

PER UNA RIFLESSIONE DI PASTORALE GIOVANILE

Il tema del futuro vicino e anche quello del futuro ultimo ha una particolare capacità di attrazione per i giovani, che sentono la loro vita ancora tutta segnata dal “non ancora” e dal progetto.
È però necessario educare questa attenzione e questa curiosità sul futuro perché non diventi semplicemente sogno e disimpegno. Il successo che hanno in ambito giovanile gli oroscopi e la varie forme di “indagine facile” sul futuro, denotano insieme la paura di quanto può accadere e il desiderio di avvicinarsi al futuro “senza rischi”, senza la fatica di costruirlo con un costante impegno nel presente.
La bellezza del racconto del “già e non ancora” segnato simbolicamente dalla figura di Gerusalemme è quella di offrire uno spunto di riflessione sul senso del futuro, ma libera da ogni tentazione di superstizione e di facile fantasia. Il rimando costante è al presente e alla concretezza di un giudizio divino sulle nostre azioni che si compie fin da ora.
Ogni tentazione di disimpegno è criticata dall’invito a costruire la città e il tempio, cioè la vita e la relazione con Dio, fin dal nostro oggi. Questa costruzione passa per una storia personale e comunitaria segnata da sconfitte e da distruzioni, ma anche da segni prodigiosi della misericordia e della provvidenza divina.
Lo sguardo alla città celeste, al “paradiso” e alla vita eterna, viene così educato nell’ambito della concretezza, dell’impegno quotidiano e del vissuto.
Solo dopo questa solida riflessione comune sarà facile collocare nel giusto ordine e nelle corretta impostazione le questioni che la curiosità di ogni generazione ha posto sulla vita futura. Proclamata la realtà indubitabile del mistero che resta ben chiuso nel pensiero divino, possiamo solo seguire il consiglio di Paolo, che invitava i primi cristiani a non farsi attrarre da vuote speculazioni, che pensano il futuro della resurrezione finale come una semplice meccanica continuazione del presente. Come tra il seme e la pianta c’è continuità ma c’è anche novità e mistero del tutto inaspettato, così sarà del “non ancora” che ci attende (1 Cor 15,40-49).