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    Volto di Cristo, volto di Figlio di Dio



    Luis A. Gallo

    (NPG 2004-04-51)


    Dicevamo nell’articolo introduttivo che il volto di Gesù è come un diamante dalle mille sfaccettature. Ne abbiamo individuato già una, di grande luminosità: la sua passione incontenibile per il regno di Dio. Facciamo ora oggetto della nostra contemplazione un’altra, che spesso è stata affrontata in chiave prevalentemente dogmatica, ma che vorremmo affrontare invece in chiave più schiettamente evangelica: il suo è un volto di Figlio di Dio.

    Una premessa: i titoli cristologici e il loro valore

    Le prime comunità credenti si sono impegnate per diversi motivi (devozione, curiosità, bisogno di rispondere alle domande dei nuovi aderenti...) nel tentativo di chiarirsi l’identità di quel Gesù in cui credevano.
    Gli strumenti che avevano a disposizione per farlo furono, in primo luogo, quelli che avevano ereditato dall’Antico Testamento. Da esso, inteso come preannunzio di Gesù, ricavarono espressioni come “figlio dell’uomo”, “messia”, “figlio di Davide”, “sommo sacerdote”, “servo di Dio”, e altre ancora, che applicarono a Gesù.
    In secondo luogo, utilizzarono delle categorie ellenistiche, proprie del mondo con il quale si trovarono a contatto e con il quale dovettero necessariamente confrontarsi. Un mondo che adoperava anche la categoria “figlio di Dio” nelle sue favole mitologiche, e nel quale era molto diffusa, tanto nell’ambito neoplatonico quanto in quello stoico, la categoria “lógos” (parola, verbo, ragione).
    Tutte queste espressioni si convertirono in “titoli” che le comunità attribuirono profusamente a Gesù nel loro tentativo di esprimere ciò che, nella fede, avevano scoperto in lui. Per dire, soprattutto, il ruolo che gli riconoscevano nell’ambito della salvezza operata da Dio.
    Il loro uso servì ai credenti, da una parte, a farsi chiarezza sulla sua persona e sulla sua azione, ma comportò anche, dall’altra, un grosso rischio: quello di convertirsi in un “letto di Procuste” con il quale misurare Gesù, di forzare cioè la sua identità a stare nei limiti del loro significato acquisito in anticipo, sacrificando così la sua incommensurabile originalità. Rischio che non sempre le comunità riuscirono a superare, come dimostra la lunga e intricata storia delle eresie.
    La fede genuina sa, invece, che Gesù è in persona la misura di tutti i titoli che gli si possono attribuire, che il loro senso viene definito da ciò che lui fu e fece, e non viceversa.

    La strada adeguata per capire la figliolanza di Gesù

    Se Gesù in persona è, quindi, colui che decide sul contenuto dei titoli che gli vengono attributi dalla fede, e non viceversa, è anche colui che decide sul significato di quello di “figlio di Dio”, il quale, malgrado la rilevanza che ha acquistato nell’insieme dei titoli per motivi storici che non è il caso di ricordare, non fa eccezione a questa regola.
    Quindi, la strada più appropriata per capire il significato di tale titolo non è tanto il ricorso all’Antico Testamento, nel quale esso veniva dato al re (Sal 2,7), o all’intero popolo d’Israele (Sir 36,11; Ger 31,9; ecc.), o al giusto obbediente alla volontà di Dio (Sap 2,13). Meno ancora è quella di rifarsi alla letteratura ellenistica, nella quale il titolo designava dei personaggi che si ritenevano generati da una divinità (Atena, Perseo, Enea, Achille...), e che perciò erano capaci di azioni straordinarie, godendo costantemente a questo scopo della protezione divina. Non è nemmeno, infine, quella di procedere filosoficamente partendo da un concetto di Dio e ricavandone quello di “figlio di Dio”.
    L’unica strada coerente è quella di prendere atto della figliolanza vissuta dallo stesso Gesù. Concretamente, vedere come egli visse da figlio di Dio.

    Un dato sorprendente

    In questo contesto il vangelo di Marco e qualche altro scritto neotestamentario ci forniscono un dato sconvolgente e carico di significato: l’uso, da parte di Gesù, dell’appellativo “abbà” per rivolgersi a Dio. Ne troviamo tre testimonianze preziose, che certificano la persistenza del suo ricordo nelle prime comunità: Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6.
    Studi di competenti in materia sono arrivati alla conclusione che in questo caso ci si trova senza dubbio davanti ad una delle “stessissime parole di Gesù”. Come ho rilevato nell’articolo precedente, gli scrittori neotestamentari riportano le sue parole e i suoi fatti con grande libertà. Non hanno la preoccupazione dell’esattezza oggettiva propria dei tempi moderni. Perciò ci possono essere nei vangeli dei detti a lui attribuiti che solo nel loro senso profondo sono collegati a ciò che lui effettivamente disse. Dell’appellativo “abbà” invece si è sicuri che sia uscito tale e quale della sua bocca. Anzi, che l’abbia utilizzato abitualmente per rivolgersi a Dio, e che inoltre abbia spinto i suoi discepoli a fare lo stesso (J. Jeremias).
    L’espressione era in uso nell’Israele di allora. La adoperavano abitualmente i figli per rivolgersi al loro genitore nell’ambito familiare. I figli piccoli, e in quel caso era carica di un intenso senso di affettività, e i figli adulti, esprimendo con essa particolarmente il loro rispetto e loro obbedienza verso colui che aveva dato loro la vita. In tutti e due i casi denotava uno stretto vincolo di familiarità e di dimestichezza. Va quindi tradotto più come “babbo” che come “padre”. L’uso non è in realtà cambiato con il passare dei secoli: anche oggigiorno è presente tra gli ebrei.
    Che Gesù l’abbia adoperato per rivolgersi a Dio è invece una grossa e sorprendente novità. In mezzo ad un popolo abituato da secoli a un rispetto molto accentuato verso l’alterità di Dio, doveva stonare fortemente. JHWH, infatti, il Dio che Israele onorava, era il Dio “santo, santo, santo” della visione di Isaia (Is 6,3), e quindi il Dio altro dal mondo. È vero che era entrato nella storia ed era sceso dalla sua santa dimora dei cieli per liberare Israele (Es 3,8), e poi aveva continuato a stargli vicino nelle svariate vicende attraverso le quali esso era andato avanti nei secoli, ma un senso di sacro timore nei suoi confronti era andato crescendo nel popolo. Ne è una dimostrazione il fatto che il suo nome – il sacro tetragramma JHWH – non veniva più pronunciato. Solo in occasione del rito annuale dell’espiazione (Lev 17) il sommo sacerdote osava proferirlo con estrema precauzione nel silenzio e nella solitudine dell’angolo più santo del tempio.
    L’eccezionalità dell’uso dell’appellativo “abbà” da parte di Gesù, la si coglie ancora meglio se si pensa che egli era un uomo adulto, lontano ormai dai sentimentalismi tipicamente adolescenziali; un uomo estremamente realista e altamente impegnato in un’attività incessante tra la gente, e non un misticheggiante estraneo al mondo e chiuso nella bambagia dei suoi rapimenti spirituali. E ancora, che sociologicamente egli non era un sacerdote (Eb 7,13-14), appartenente cioè alla categoria di uomini che si trovavano più frequentemente a contatto con Dio nell’ambito culto. Per di più, egli non era ufficialmente un maestro, anche se la gente lo considerava come tale (Mt 8,19; 9,11; ecc.), e mancava di autorità accreditata per assumere degli atteggiamenti non riconosciuti come legittimi dagli altri maestri.
    Il suo modo di invocare Dio era davvero sconcertante per la sensibilità comune dei suoi compatrioti, specie di quelli che si ritenevano le guide di Israele. In termini religiosi si potrebbe dire che era irriverente e perfino blasfemo. Di bestemmia, infatti, venne accusato nel processo che lo portò alla morte (Mt 26,65; Mc 14,64), e non è improbabile che l’accusa si fondasse anche su quel fatto. In termini di filosofia del linguaggio, si potrebbe dire che era altamente metaforico, se per metafora s’intende “un errore calcolato” (P. Ricoeur). Congiungere infatti il termine “Dio”, che designa il Trascendente, e quindi in qualche modo il colmo della lontananza, con il termine “babbo”, che designa l’essere più vicino e familiare, è infatti un “errore”. E Gesù commise questo errore consapevolmente. La ragione era che egli viveva il rapporto con Dio in questa chiave, e chiamandolo con tale nome esprimeva ciò che viveva.

    L’esperienza filiale di Gesù

    L’appellativo “abbà” condensa, infatti, l’intera esperienza del rapporto che Gesù manteneva con Dio, un rapporto di intensa e incomparabile figliolanza, che si esprimeva nei suoi atteggiamenti, nelle sue parole e nelle sue azioni.
    Leggendo i vangeli si ha la netta sensazione che egli vivesse intensamente in prima persona ciò che proponeva agli altri: una autentica infanzia spirituale (Mt 6,25-26; 18,3; Lc 12,6). Naturalmente si trattava di un’infanzia che non fu mai in lui un infantilismo.
    Una delle caratteristiche più tipiche dell’infanzia è quella della fiducia radicale verso i genitori, ed è una tale fiducia che Gesù visse nei confronti di Dio.
    Lo espresse con chiarezza, trasformandolo in invito ai suoi ascoltatori, in quel brano del discorso della montagna che ne costituisce come un programma: “Vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? [...] Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? [...]. Il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno” (Mt 6,26-32). Oppure in quell’altro discorso, nel quale esorta i suoi ascoltatori a non avere paura delle persecuzioni scatenate contro di loro: “Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio. Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete, voi valete più di molti passeri” (Lc 12,6-7).
    Non occorre molto sforzo per cogliere, nella lettura dei vangeli, che Gesù visse tutto ciò prima ancora di proporlo agli altri.
    In questo senso egli fu un “bambino”. Non invece nel senso di un infantilismo degradante. Infantilismo è, infatti, mancanza di responsabilità in chi la dovrebbe avere. Ora, Gesù in nessun momento appare come un irresponsabile che scarica le sue responsabilità sul Padre. Egli le sa assumere tutte, e fino in fondo, con impressionante determinazione (Lc 9,51).
    Si potrebbe dire, allora, che la sua figliolanza, senza rinnegare l’intensità affettiva che la contrassegna, è carica di quella corresponsabilità che egli dimostra di avere nei confronti del grande “sogno” di Dio, suo Padre, da lui abbracciato con entusiasmo e passione. Il suo farsi “obbediente, e obbediente fino alla morte”, come dice l’inno cristologico di Fil 2,8, è un chiaro segno di tale corresponsabilità portata fino alle ultime conseguenze.
    Non si tratta indubbiamente dell’obbedienza dell’automa, che esegue senza discernimento alcuno gli ordini che riceve da chi lo comanda, o dello schiavo, che adempie nella sottomissione e nel timore quanto gli viene ingiunto dal padrone, ma dell’obbedienza del figlio, che conosce dal di dentro il volere del padre e lo fa attivamente suo. La sua incontenibile dedizione alla causa del regno di Dio, di cui abbiamo parlato nell’articolo precedente, è appunto l’attuazione di tale obbedienza.
    C’è ancora da aggiungere che tale atteggiamento di figliolanza tenera e allo stesso tempo matura egli lo visse costantemente, fino all’ultimo, e non lo lasciò da parte neanche nei momenti più difficili e duri della sua vicenda, quando tutto parve smentire le sue convinzioni.
    È una fortuna per noi che gli evangelisti non abbiano tralasciato di raccontare i momenti tragici della fine della sua vicenda. Non solo non li hanno taciuti, ma sono stati anche in qualche modo spietatamente realisti nel narrarli. Hanno messo in chiara luce ciò che si potrebbe considerare come la sua “ultima tentazione”, quella che l’avversario si era riservata, secondo l’evangelista Luca, “per il tempo fissato” (Lc 4,13): la tentazione frontale contro la sua figliolanza.
    Il racconto della preghiera nell’Orto degli Ulivi è già un anticipo di ciò che egli visse sulla croce. Il grido che poi, servendosi del Sal 21,2, Matteo e Marco mettono sulle sue labbra mentre muore sulla croce, interpreta bene ciò che essi colsero: il suo rapporto filiale con Dio fu messo a dura prova, fino a provocargli la sensazione di una sua insopportabile interruzione. Le parole “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34) permettono di percepire la lancinante intensità del suo dolore. Tutti e due gli evangelisti aggiungono che egli, poco dopo, “dando un forte grido, spirò” (Mt 27,50; Mc 15,37).
    L’evangelista Luca, da parte sua, servendosi anche lui di un testo salmodico (Sal 31,6), completa la narrazione articolando il grande grido finale di Gesù: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). È il grido finale del figlio che, pur senza comprendere ciò che gli sta succedendo, si fida fino all’ultimo dell’amore del Padre.
    Gli stessi evangelisti, e con essi altri scritti neotestamentari, celebrano con gioia la risposta che, a modo suo, il Padre diede a questo grido. Lo dice espressamente la Lettera agli Ebrei: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte, e fu esaudito per la sua pietà” (Eb 5.7). La risposta paterna fu la sua risurrezione, l’intervento potente di Dio che, secondo Paolo, gli disse in quell’istante: “Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato” (At 13,33). Fu allora che la sua figliolanza, vissuta fino a quel momento nella debolezza della “carne”, come attesta lo stesso Paolo, arrivò alla sua piena e definitiva manifestazione nella “gloria” (Rm 1,3-4).
    Approfondendo ulteriormente questi dati, la Chiesa dei secoli successivi giunse a definire dogmaticamente la figliolanza divina di Gesù, fondata sulla sua eterna “co-sostanzialità” con il Padre (Concilio di Nicea), definizione che passò a formare parte del bagaglio delle verità centrali trasmesse dai simboli della fede. Ma ciò non può far dimenticare il punto di partenza dal quale ebbe origine tale confessione di fede: il volto vivo e affascinante di Gesù di Nazareth, segnato da una singolare e irripetibile esperienza di figliolanza nei confronti di Dio.


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