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    Contemplare il volto di Cristo


    Luis A. Gallo

    (NPG 2004-01-36)

    Nella sua Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte del 6.01.2001, papa Giovanni Paolo II fece una sorta di bilancio dell’anno giubilare che finiva, raccogliendo le ricchezze da esso fruttificate per la vita della chiesa e del mondo. Quasi come condensando in una sola frase tutte quelle ricchezze affermò: “Se volessimo ricondurre al nucleo essenziale la grande eredità che essa [l’esperienza del Giubileo] ci consegna, non esiterei ad individuarlo nella contemplazione del volto di Cristo” (n. 15, corsivi nel testo).
    Si potrebbe dire che il Papa si faceva eco dell’invito rivolto quasi duemila anni prima dall’autore della Lettera agli Ebrei a conclusione del suo lungo discorso sulla fede: “Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni [...], corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Eb 12,1-2).
    È quindi un invito che ha attraversato i secoli questo a tenere fissamente lo sguardo su Gesù, e a diventare così permanenti contemplatori del suo volto, cercando di scoprire la mille sfaccettature che esso, quale prezioso diamante, offre a chi lo guarda. Una contemplazione che ha sì una componente di godimento estetico, perché offre la possibilità di dilettarsi con la sua bellezza, ma che deve includerne anche un’altra, di serio impegno, mirato a riprodurre in se stessi e negli altri i suoi lineamenti. Un po’ come l’esperienza vissuta dai tre discepoli sul Tabor (Mt 17,1-9), che pur comprendendo un momento di intenso compiacimento (“Signore, è bello per noi restare qui”), fu seguita da una discesa alla valle della vita ordinaria, richiesta dallo stesso Gesù.
    Cercheremo di delucidare, nelle riflessioni che seguiranno, le dense ricchezze che questa contemplazione del volto di Cristo racchiude.

    Il desiderio di vedere Cristo nel mondo di oggi

    C’è nel vangelo di Giovanni un racconto che potrebbe assurgere a simbolo di una situazione oggi molto diffusa: è quello dei greci, cioè dei pagani aderenti all’ebraismo, che a Gerusalemme, durante le feste pasquali, volevano vedere Gesù, e si avvicinarono a Filippo e Andrea perché facessero loro da mediatori (Gv 12,21). È probabile che quegli uomini ne avessero sentito parlare in giro, e che le informazioni avute avessero suscitato in loro tale curiosità. Il “ponte” teso dai due discepoli servì certamente ad appagare il loro desiderio, anche se il vangelo, preso da altri interessi, non si sofferma a dirlo.
    Un caso analogo viene raccontato da Luca nel suo vangelo. Egli riferisce che, mentre Gesù passava attraverso Gerico, un certo “Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là” (Lc 19,2-4). Il suo sguardo ebbe la fortuna di incrociarsi con quello di Gesù, il quale “alzò lo sguardo e gli disse: ‘Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua’” (v. 5). Da quello scambio di sguardi scaturì un incontro conviviale che trasformò totalmente Zaccheo.
    Un terzo racconto evangelico in linea con i precedenti è quello che ha come protagonista Maria di Magdala, fermatasi piena di angoscia, all’alba della domenica di Pasqua, alle porte del sepolcro del suo amato Maestro: “Maria invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti. [... gli angeli] le dissero: ‘Donna, perché piangi?’. Rispose loro: ‘Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto’. Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi” (Gv 20,11-14). Anche lei, quindi, ardentemente bramosa di vedere Gesù, si muove spinta da quella brama, e raggiunge il suo scopo.
    Giovanni Paolo II nella già citata Lettera Apostolica dice:
    “Gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di ‘parlare’ di Cristo, ma in certo senso di farlo loro ‘vedere’. E non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio? La nostra testimonianza sarebbe, tuttavia, insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto...” (n. 16).
    Sono diversi in questo testo gli elementi degni di essere sottolineati. Anzitutto, la constatazione che il desiderio di vedere Gesù non è solo un fatto del passato, ma lo è anche del presente. Quei greci a cui fa riferimento il vangelo di Giovanni, quel Zaccheo la cui esperienza viene così simpaticamente narrata da Luca, quella Maria di Magdala che, ancora nel vangelo di Giovanni, corre al sepolcro del suo Maestro spinta dallo struggente desiderio di vederlo, rivivono oggi in tanti uomini e donne del mondo attuale. Magari, come precisa il papa, inconsapevolmente. Perché tale desiderio si può manifestare in mille modi differenti. Perfino, in certi casi, in modi che sconcertano o perfino provocano delle reazioni di sfiducia o di opposizione, perché non si adeguano ai canoni a cui si è abituati.
    Tra questi uomini e donne vi sono certamente anche i giovani che, proprio perché affamati di vita, sono anche implicitamente affamati di Colui che disse: “Io sono... la Vita” (Gv 14,6).
    Un secondo rilievo degno di attenzione è che il papa identifica in qualche modo “i credenti di oggi” con quei due apostoli – Andrea e Filippo – che facilitarono le cose perché i greci potessero vedere Gesù. Svolsero cioè un ruolo esattamente opposto a quello esercitato da coloro che, ancora a Gerico, volevano impedire l’avvicinarsi a Gesù di Bartimeo, il cieco che voleva ricuperare la vista e urlava chiedendo pietà (Mc 10,46-52). Al desiderio di vedere Gesù che sperimentano gli uomini e le donne di oggi, devono venire incontro i credenti in lui, per aiutarli a raggiungere tale scopo.
    Giovanni Paolo II aggiunge per inciso un’osservazione di rilievo: i credenti sono sollecitati non tanto a dire delle parole su Gesù, quanto a farlo in certo senso vedere. Così sembrano aver fatto Andrea e Filippo con i greci: non si sono profusi in discorsi su Gesù, ma – lo possiamo desumere dal vangelo – li portarono per mano perché potessero vedere con i loro propri occhi quel Gesù che tanto bramavano conoscere di persona. E una volta portati fino a lui, li lasciarono – lo si può anche supporre – a contemplare il suo volto.
    Una terza cosa che emerge dal testo papale citato è che per poter svolgere tale ruolo in favore degli uomini e delle donne di oggi, i credenti in lui devono a loro volta essere dei “contemplatori del suo volto”. La cosa viene detta con parole molto incisive, quasi pungenti: “La nostra testimonianza sarebbe, tuttavia, insopportabilmente povera se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto...”. Non parla solo di povertà, ma anche di “insopportabile” povertà nel caso che i testimoni fossero privi di contemplazione. Come a dire che è proprio la contemplazione del volto di Cristo che conferisce consistenza e densità alla testimonianza data di lui, e la libera perciò del rischio della vuotaggine.

    Perché tornare a fissare lo sguardo sul volto di Gesù Cristo?

    Lo sappiamo bene: Gesù Cristo è al centro della nostra fede. Si tratta di una affermazione troppo ovvia e scontata. Non per niente ci diciamo “cristiani”. Ma più di una volta il suo volto resta nascosto o almeno come sfuocato alla nostra vista: non riusciamo più a vederlo, o lo vediamo distorto. 

    Ci sono, infatti, anzitutto degli ostacoli oggettivi che si frappongono tra esso e noi. Concretamente, una serie di strati che si sono andati sovrapponendo sul suo volto originale attraverso i secoli, e che oggi a più di uno, particolarmente ai giovani, impediscono di averne una visione appropriata.
    Esistono, per cominciare, degli strati appartenenti all’ambito cultuale. Cominciarono a formarsi molto presto nella chiesa. I primi cristiani erano profondamente convinti della singolare e strettissima unità di Gesù con Dio. Perciò, come si desume dagli scritti neotestamentari, dopo la Pasqua gli attribuirono il titolo di “Signore”, che l’Antico Testamento aveva riservato esclusivamente a Dio stesso. E vollero esprimere tale convinzione anche nelle loro celebrazioni liturgiche. Cominciarono così a rendergli culto, un culto che andò poi acquistando forme diverse, secondo le svariate sensibilità che si susseguirono nel tempo.
    Preghiere e riti si sono andati moltiplicando fino ad oggi, prendendo come oggetto di culto or uno or l’altro dei diversi aspetti della persona e dell’opera di salvezza attuata da Gesù. Spesso essi si ricollegarono alle vicende dottrinali che visse la comunità ecclesiale.
    Agli strati cultuali si aggiungono, poi, gli strati dottrinali. Le prime comunità credenti sentirono subito la necessità di approfondire il messaggio di Gesù esplicitandone i contenuti nella catechesi, o di difendere lui e la sua proposta da tendenze ereticali mediante l’apologetica. Come si sa, nel tentativo di calare la loro fede nelle sensibilità culturali con cui entravano a contatto, alcuni cristiani misero in serio pericolo la genuinità di tale fede. La oscurarono con delle affermazioni che non erano coerenti con essa.
    Per assicurare la genuina comprensione della persona di Gesù e del suo messaggio, la comunità ecclesiale dovette allora prendere posizione elaborando delle affermazioni dottrinali che facevano come da tessera di ortodossia per i suoi membri. In determinati momenti, specialmente nei grandi concili ecumenici dell’antichità, arrivò anche a coniare formule molto precise e solenni (i dogmi), mediante le quali volle esprimere in forma autorevole e definitiva la verità di fede. Così, per esempio, venne definito dogmaticamente che Gesù era Figlio di Dio, uguale al Padre nella sua sostanza sin dall’eternità; che era vero Dio e vero uomo; che in lui la natura umana era completa e che essa era unita “ipostaticamente” con la natura divina in una sola Persona; che egli è realmente presente nell’Eucaristia, ecc.
    Oltre ai dogmi, e spesso attorno ad essi, si andò tessendo una fitta rete di altri enunciati dottrinali, ritenuti più o meno importanti, che i competenti in materia elaborarono con cura e attenzione. In tale modo Gesù diventò oggetto di delucidazioni sempre più complesse che, con maggiore o minore fedeltà, vennero assimilate anche a livello popolare, specialmente attraverso la predicazione e i catechismi. Anche l’arte ne fu interessata, servendo a esprimere le dottrine.
    Ci sono, inoltre, gli strati morali, che riguardano il modo di agire dei membri della chiesa. La proposta fatta da Gesù in quest’ambito andò soggetta, come era naturale, a delle costanti attualizzazioni. La sua era una proposta di base, che richiedeva di venir calata nelle concrete condizioni storiche in cui i suoi discepoli si sarebbero trovati a vivere. Perciò nella chiesa si sono andati forgiando lungo i secoli dei precetti mirati a regolare il comportamento dei suoi membri.
    Ne è scaturito una notevole mole di norme e di disposizioni. Esse sono nate, in ultima istanza, dal desiderio di aiutare i credenti in Gesù a condurre una vita coerente con la fede che professano, anche se poi, in alcuni momenti, si sono convertite in un peso quasi insopportabile per gli stessi credenti.
    Non mancano, infine, gli strati giuridici. Come si può scorgere nei documenti del Nuovo Testamento, la comunità dei discepoli di Gesù si diede presto un’organizzazione, e sentì il bisogno di dare delle disposizioni che regolassero il modo di vivere al suo interno, e nel rapporto con coloro che ad essa non appartenevano. Ne andò così nascendo a poco a poco un massiccio corpo di leggi e di norme che finirono per costituire, abbastanza recentemente, un codice di diritto canonico.
    Tutto questo insieme di cose – riti, dogmi, norme morali, ordinamenti giuridici – ebbe la sua sorgente il più delle volte in un autentico desiderio di fedeltà da parte della chiesa a Gesù Cristo e alla sua proposta originale, e costituì un modo di rendere viva e significativa la sua presenza a coloro che lo volevano seguire. Tuttavia, cambiate le circostanze storico-culturali, spesso finisce per fare come da schermo tra la sua genuina figura e coloro ai quali viene presentata. La nasconde o almeno la sfuoca ai loro occhi. Ciò che inizialmente era trasparenza si converte, più di una volta, in opacità.
    Ma, oltre agli ostacoli oggettivi menzionati, esistono anche quelli soggettivi, presenti e operanti nell’intimo dei cuori degli stessi credenti. Soprattutto il rischio dell’assuefazione. È un rischio che minaccia particolarmente chi è abituato ad una certa dimestichezza con la figura di Gesù Cristo, sia mediante la lettura dei testi evangelici, sia mediante la frequentazione dei sacramenti. Come diceva un antico proverbio latino, “ab assuetis non fit passio”, che potremmo tradurre liberamente: “A ciò con cui siamo abitualmente a contatto non si fa più attenzione”. E ciò che costituisce il mondo della fede non ne costituisce un’eccezione per il fatto di essere tale.
    Una conclusione si ricava da quanto è stato detto: se vogliamo tornare a contemplare Gesù come ci invita a fare Giovanni Paolo II, dobbiamo cercare di rimuovere tutto ciò che può rendere torbido il nostro sguardo. Può acquistare nuova attualità in questo senso l’invito che, nella visione dell’Apocalisse, viene detto all’angelo della chiesa di Laodicea: “Ti consiglio di comperare da me collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista” (Ap 1,18).


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