La chiave di casa


Virginia Di Cicco

(NPG 2004-01-2)



L’anno nuovo è cominciato con una nuova casa. L’abbiamo cercata con forza, sostenuti da una volontà tenace, mossi da una spinta incredibile.

Il pensiero di possedere quattro mura dove il nostro cuore possa trovare rifugio, un interno che ci somigli, arredato dai nostri viaggi, dalle ricerche e le scoperte fatte giorno per giorno, una casa che parli di noi, una casa in progress, che muti con i nostri mutamenti, è pensiero di una suggestione incredibile. Trasmette calore e incalza come fosse esigenza primaria, e probabilmente lo è.
I primi tempi rientrare è come un gioco, il gioco preferito e davanti la porta si esita un poco quasi ad allontanare un momento ancora l’attimo straordinario in cui si entrerà dentro il nostro mondo, quasi fosse dentro noi stessi. È l’odore a scaldarci: la casa profuma del nostro profumo e ci ascolta, ci consiglia nel silenzio e nel buio, ci ascolta e poi ci racconta le cose accadute durante la nostra assenza.
E il mio pensiero torna là, nel Ciad. Terra gialla, cielo giallo, aria gialla. Alberi a lunghi intervalli, capanne di arbusti, solo un tetto, un graticcio, l’accenno di una casa, l’abbozzo dell’idea nella mente del primo uomo e niente altro. Sessantacinquemila fantasmi si aggirano per queste costruzioni di niente, fuggiti da una guerra civile che sta distruggendo il Sudan, vivono così nel Moro Camp. Molti una casa l’avevano e l’hanno perduta. Molti sono nati a Moro e non immaginano neppure cosa significhi ritornare a casa.
Cambiano i lineamenti della gente e i nomi dei paesi ma le storie sono sempre quelle, anche al Bart Camp rifugio dei Ceceni oppure in Pakistan a Gamkol Camp per i rifugiati afgani.
In un campo profughi della Palestina un vecchio viveva tenendo una mano in tasca. A volte, inavvertitamente la mano sfuggiva dalla sua prigione, per un momento libera nell’aria, poi subito, con cura veniva riposta nel suo nido. Dopo molto tempo condiviso insieme, il vecchio mi svelò il suo segreto e tirò fuori dalla tasca un pezzo di ferro arrugginito e storto: in un momento lontano era stato una chiave, la chiave di casa. Quella chiave era l’unico tesoro del vecchio. La guardava con tenerezza e la sfiorava con le dita dure, mi raccontava di quella casa, del lavoro paziente per renderla bella, aveva costruito tutto lui, perfino la chiave. E la sua casa lontano lo stava aspettando e quando la follia degli uomini e del mondo si sarebbe finalmente addormentata, lui sarebbe tornato e la porta sarebbe stata lì pronta ad accogliere quella chiave.
Io so che quella casa non esiste più e che quella chiave apre oramai una porta sul nulla, sulla distruzione, sull’irreparabile. Lo sa anche lui, ma per quel vecchio è l’unica corda della speranza. E questo diventa tutto quando non hai più niente.
Porto quella forza disperata con me, e tutte le volte che inserisco la chiave nella serratura della porta di casa mia, ripenso al mio amico vecchio palestinese e trattengo il respiro per quell’esercito invisibile di centosettantacinque milioni di uomini che ogni anno abbandonano la propria casa alla ricerca di una vita migliore. E quello che sento è un morso allo stomaco e dallo stomaco nascono quelle due mani che stringono forte quelle pareti e penso che nascere dalla parte giusta del mondo è davvero una fortuna immeritata.
A volte cammino anche io con una mano in tasca, che stringe le chiavi. Cammino così, per rispetto.