Figure della fede /8
Carmine Di Sante
(NPG 2001-01-56)
A quale immagine ricorrere per dire in breve e rappresentarsi che cosa è stato Gesù di Nazareth, e in che cosa consiste la novità sconvolgente che egli ha introdotto nella storia umana e di cui i personaggi di cui abbiamo l’anno passato sono la testimonianza e il racconto che la tramandano?
Se diverse sono le vie per rispondere a questa domanda, ce n’è una privilegiata, che consiste nell’interrogare il rito per eccellenza della tradizione cristiana, dove viene raccolto e trasmesso il nucleo profondo e più segreto del messaggio cristiano: di ciò che Gesù è stato ed è per la vita dell’uomo e per la storia umana. Come è noto, il rito costitutivo della tradizione cristiana è la celebrazione dell’eucaristia che culmina nella comunione con il «pane» consacrato, segno memoriale della presenza reale di Gesù in mezzo alla sua comunità. Ora, nel momento della comunione, prima di invitare i fedeli a cibarsi del «pane» consacrato che è pane di vita eterna, il sacerdote tiene sollevata l’ostia mostrandola alla comunità silenziosa e adorante e proclamando a voce alta: «Ecco l’agnello di Dio. Ecco colui che toglie i peccati del mondo». Dopo, e solo dopo, aver pronunciato questa «formula», egli fa la comunione e la offre ai fedeli della comunità che si dispongono in fila per riceverla sul palmo della mano.
In questa «formula» mirabile («Ecco l’agnello di Dio. Ecco colui che toglie i peccati del mondo») è forse condensata l’interpretazione più profonda e originale che la tradizione cristiana ha dato e dà dell’evento di Gesù di Nazareth.
Utilizzata in ambito liturgico, essa è di origine neotestamentaria e si trova nel vangelo di Giovanni, sulla bocca del Battista che, vedendo Gesù andargli incontro, ne riconosce e proclama l’identità profonda: «Il giorno dopo, Giovanni [Battista] vedendo Gesù venire verso di lui disse: Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1, 29).
Alcune informazioni sono indispensabili per capire il senso di questa proclamazione di fede straordinaria dove Giovanni e la chiesa, sull’esempio di Giovanni, condensano la loro comprensione del mistero di Gesù.
La prima riguarda il significato del termine «agnello» che rimanda ad un passo molto celebre di Isaia 53, dove si parla di un uomo disprezzato e reietto che, per amore, si fa carico delle sofferenze e delle ingiustizie del mondo:
«Eppure egli si è caricato
delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza
si è abbattuto su di lui,
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come un agnello condotto al macello,
come pecora muta
di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca» (Is 53, 4-7).
Proclamando Gesù come «agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» Giovanni (Giovanni Battista a cui dà voce Giovanni evangelista) pensa a questo testo di Isaia e lo vede realizzato in Gesù di Nazareth la cui identità ultima è, per lui, quella di chi si assume sulle sue spalle il male del mondo: tutta la violenza che, come da un corpo infetto, fuoriesce dal cuore degli uomini e della loro storia seminando vendette, sofferenze, odi, distruzioni e morte. Gesù è colui che, come l’agnello descritto dal profeta Isaia si addossa, tacendo e senza ribellarsi, la violenza omicida del mondo, dei soggetti che l’abitano e delle strutture che l’oggettivano.
Ma perché se l’addossa, lui innocente e incapace di nuocere come un agnello? Perché tace, lui che, giusto, è l’unico che dovrebbe protestare? Perché non si ribella, lui che, senza colpa, è l’unico che avrebbe il diritto di discolparsi? La risposta di Giovanni è scultorea e mirabile: lo fa perché solo così facendo è possibile, per lui, «togliere il peccato del mondo», abbattere l’inestricabile struttura di sofferenza e di violenza che, come una montagna di fango e di detriti, si abbatte e travolge la storia umana.
Ma qui si rende necessaria una seconda precisazione riguardante il significato del verbo «togliere» che, nel linguaggio giovanneo amante dei bisensi o doppi sensi, vuol dire contemporaneamente due cose: da una parte «portare via» ciò che ingombra, trasportandolo da un posto all’altro, come nell’espressione: «il macigno è stato portato via dalla strada che ostruiva»; dall’altra la modalità concreta con cui avviene la rimozione dell’ostacolo e che consiste nel caricarselo, portandone il peso sulle proprie spalle. Proclamando che Gesù è «l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo», Giovanni non dice soltanto che Gesù è colui che «toglie» il male del mondo, ma soprattutto che lo toglie caricandoselo sulle spalle e portandone il peso, come fa il contadino quando, arando, porta via i sassi che ne intralciano i solchi. Di questi due sensi, il secondo, «il portare il peso sulle proprie spalle», è la condizione di possibilità del primo, che si riferisce al suo toglimento. Gesù elimina il male del mondo non «magicamente», con l’ordine di scomparire (non è questo il sogno con cui vorremmo che il male fosse cancellato dal mondo?), ma pagando di persona e rimettendoci, come chi si sostituisce a chi si trova in un campo di concentramento o in un carcere dicendogli: «tu sei libero; al posto tuo ci vado io».
Si ricorderà che lo scorso anno c’è stata una perdita radioattiva da una centrale nucleare nipponica e che la catastrofe della nube tossica fu scongiurata da un gruppo di tecnici coraggiosi che, per bloccare la fuoriuscita delle radiazioni, accettarono di calarsi nel ventre del reattore esponendo se stessi alla morte, per risparmiarla alle vicine popolazioni. Esempio mirabile che aiuta a capire in che senso, per il racconto neotestamentario, la morte di Gesù libera dalla morte l’umanità peccatrice e in che senso egli toglie il peccato del mondo assumendolo sulle sue spalle.
Esempio mirabile, però ancora lontano da ciò che, per il Nuovo Testamento, ha fatto Gesù il cui gesto è irriducibile sia a quello di chi, per amore si sostituisce all’amico rinchiuso nel campo di concentramento o nel carcere e sia a quello di chi, come i tecnici della centrale nucleare del Giappone, mette a rischio la sua vita per salvare gli altri. La differenza irriducibile consiste in questo: che mentre nel primo e nel secondo caso la propria vita è «sostituita» e «data» in cambio della vita di un altro o di altri con i quali si hanno rapporti di comunanza (comunanza di amicizia, per chi si sostituisce all’amico nel carcere e di appartenenza per chi, come i tecnici giapponesi, hanno esposto la loro vita per salvare il popolo), per quanto riguarda Gesù egli, secondo il racconto neotestamentario, dona la sua vita e la sostituisce non in cambio di chi gli è amico bensì in cambio di chi gli è nemico, e nemico di quella inimicizia che gli sottrae la vita uccidendolo e inchiodandolo sulla croce, la morte più infame. Il gesto inaudito che, per il racconto neotestamentario, si disvela sulla croce è il gesto di amore che Gesù compie nei confronti dei suoi uccisori, nella cui violenza viene letta non un caso eccezionale o un errore giudiziario ma la legge stessa della storia umana, storia non solo pervertita e capovolta ma soprattutto non consapevole di essere tale, come il daltonico che ignora la distorsione che l’affligge o il malato del complesso persecutorio che si sente perseguitato senza sapere che in realtà è lui a perseguitare. Il gesto inaudito che Gesù annuncia e «pianta» nel cuore della violenza che lo assale e lo uccide è il gesto di chi dice: «tu mi uccidi perché mi credi nemico; in realtà non sono io ad esserti nemico. Sei tu ad essermi nemico e per questo mi uccidi; ma per me tu resti sempre amico e anche se mi togli la vita, non sei tu a togliermela ma io a donartela, scegliendo di morire al tuo posto».
Gesù è il miracolo di questo gesto, che il Nuovo Testamento chiama «perdono», piantato nel cuore della violenza umana come si pianta il seme nelle profondità del deserto, in attesa che fiorisca e produca frutti. Ogni volta che si infrange la barriera dell’inimicizia considerando il «nemico» (poco importa se reale o più spesso immaginario) come il possibile amico, il miracolo divino del perdono accade di nuovo nella storia fecondandola e rigenerandola.