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    Oltre l'ombra. La morte nella narrativa italiana contemporanea


     

    Severino Cagnin

    (NPG 1995-02-16)


    La narrativa è uno dei segni della cultura e delle tendenze del modo di pensare e di comportarsi della società. Dai romanzi di un determinato periodo di tempo, relativamente ad una determinata area geografica, si può ricavare le scelte e gli orientamenti di fondo di quella società.
    Così anche il cinema, la canzone d'autore, il teatro, le forme del divertimento collettivo, le strategie dei mezzi di comunicazione sociale. Ognuno di questi settori, in sé, non è esauriente ed infallibile, ma certamente segnalerà qualcosa di vero circa le preferenze e gli orientamenti del costume di quella certa società.

    PREMESSE

    Se analizzati, poi, assieme, sicuramente ci porteranno ad un quadro di rilevamento, utile a comprendere il tempo in cui viviamo. Il premio letterario «Campiello», ad esempio, che seleziona cinque opere di narrativa tra una cinquantina scelte tra le più significative dell'annata, il festival musicale di San Remo, la mostra di Arte Cinematografica di Venezia, la Biennale di Arte figurativa di Venezia, che intende esporre le nuove forme espressive emergenti, certamente, se analizzate con criteri mirati, offrono un quadro orientativo ed abbastanza oggettivo della realtà italiana attuale.
    Se si vuol aggiungere, anche, alcuni fatti del mondo dello spettacolo, i carri carnevaleschi di Viareggio o l'indice di gradimento di alcune trasmissioni televisive o i soggetti delle copertine di un'annata di Panorama o Famiglia Cristiana o altri segnali, sarà difficile sbagliarsi di grosso.
    La narrativa di anno in anno dimostra questa capacità di «spia» e di «specchio dei tempi» con una certa sicurezza, maggiore rispetto ad altre forme culturali e di costume. Infatti la pagina scritta esige delle forme espressive stabili e definite, quindi particolarmente pensate ed elaborate, esposte anche ad essere vagliate criticamente, selezionate e valutate secondo criteri ben definiti ed espliciti. Si pensi agli incontri di selezione del Premio «Campiello», dove la dozzina di critici professionisti, componenti la giuria, è costretta a manifestare pubblicamente i motivi della scelta o del rifiuto di un'opera.

    Parlare della morte è parlare della vita

    L'argomento della morte, con tutta la tematica connessa e con le tematiche secondarie che la compongono, non sembri un argomento da poco. Non si tratta di rappresentare quel momento in cui la vita fisica di una persona cessa. Come afferma E. Frank, «tutta la vita dell'uomo è una lotta per conquistare un'esistenza reale per conseguire sostanzialità in modo da non essere vissuti invano e da non svanire nell'ombra» [1] e quindi tutta la vita, più o meno consapevolmente, è impostata secondo un certo senso, oppure senza alcun senso, in modo che ognuno vive l'esperienza inevitabile della morte in un determinato modo. A nessuno sfugge la differenza sostanziale tra il credente, che vede la morte come il passaggio alla vita eterna dell'aldilà e colui che, come J. Rostand, la considera un caso biologico, come la fine dell'esistenza di «un atomo irrisorio, sperduto nel cosmo inerte e sconfinato» [2]. Evidentemente la morte acquista quel senso proprio della vita di una persona e sarà vista differentemente dall'avaro (o dal manager che aveva fatto dalla propria esistenza una conquista di massimi risultati economici) come il distacco dalla ricchezza; dall'edonista come la fine delle possibilità di godere; dall'uomo di successo come lo spezzarsi di una carriera o dall'agnostico come la fine di una esperienza umana, varia ed interessante, anche, ma di cui ignora il futuro. A questo proposito mi ha colpito una recente affermazione di Cees Nooteboom, lo scrittore attualmente più letto in Olanda: «Mi piacerebbe molto credere all'immortalità dell'anima, ma purtroppo questa bella metafora non mi convince del tutto. Sono un normale agnostico e preferisco pensare, più che alla vita dopo la morte, al fatto che la vita usi in un certo senso il nostro corpo per continuare a esistere» [3].
    Del tutto diversa invece è la considerazione della morte per chi avrà cercato nella vita la realizzazione di un progetto di perfezionamento individuale nelle proprie qualità spirituali, o un'azione di solidarietà verso gli altri o la crescita del Regno di Dio sulla terra per un credente nel Vangelo. In ogni modo, anche se in modo poco consapevole per la maggior parte delle persone affannate a vivere, la morte è sentita in modo conseguente alla propria concezione della vita.

    La morte è un momento importante della vita

    Se è vero quanto è stato accennato nella seconda premessa, la morte è un fatto importante dell'arco della vita, addirittura determinante rispetto alle scelte della vita stessa, sia che l'individuo ne sia consapevole, sia che viva le proprie esperienze superficialmente, al seguito dei fatti, senza espressamente rendersi conto.
    La letteratura filosofica e saggistica, circa l'importanza della morte e della consapevolezza del ruolo che svolge nelle convinzioni e nei comportamenti dell'individuo, è antica e ricchissima, con eccezione degli ultimi decenni.
    Mi piace scegliere qualche citazione di supporto, offertaci da pensatori di differente estrazione ideologica e storica. Carl Jung afferma addirittura che «un uomo che non si ponga il problema della morte e non ne avverta il dramma ha urgente bisogno di essere curato» [4]. La morte non può essere soggetta a rimozione, perché ci costringe a porci le domande essenziali, e questo anche se tutto ci andasse a favore e come l'animale sazio ci sentissimo soddisfatti.
    Un richiamo al pensiero classico, che è sempre fonte di riflessione profonda, lo scelgo dal Fedone di Platone. «Mi sembra - dice a Socrate - e forse anche a te, che vedere chiaro intorno a tali problemi (della morte) in questa nostra vita è forse impossibile o difficile, e tuttavia non esaminare con diligenza quello che se ne dice e rinunciare alla ricerca prima di aver terminato ogni indagine, mi sembra sia da vile. Insomma, per tali problemi occorre o imparare da altri la soluzione o trovarla da sé, ma se questo non è possibile occorre accogliere quel ragionamento umano che sia il migliore e il meno confutabile, e lasciandosi condurre da questo, navigare per il mare della vita così come su una zattera, a meno che qualcuno non possa fare il tragitto più sicuramente con minor pericolo su una barca più solida, affidandosi a una qualche rivelazione divina» [5]. Viene subito, per contrasto, alla mente la società italiana del nostro tempo, che sembra aver annullato il richiamo alla morte, pur dovendola incontrare quotidianamente nelle cronache internazionali di guerre, attentati e genocidi o nei fatti di casa, dalla droga alla violenza, dal suicidio all'assassinio mafioso.
    Jonesco ha scritto una pagina acuta sulla presenza della morte accanto a noi, ogni mattina: «Mi si spara a bruciapelo tutte le mattine. Appena apro il giornale alla pagina degli spettacoli e guardo gli annunci pubblicitari dei film che sono sugli schermi, vedo decine di revolver e di carabine e di mitra puntati su di me. Oggi, c'è addirittura un'immagine sensazionale: quattro pistole perfezionate a quattro canne tenute da un uomo con quattro mani, sedici bocche pronte a sputarmi il fuoco in faccia. La gente va al cinema proprio per essere uccisa, deliziosamente uccisa o per veder uccidere. Ma tutto questo è solo un gioco terribile. C'è la realtà» [6].
    Lo scrittore Pierre Chaunu avvisava di questo silenzio del nostro tempo della morte, nonostante la presenza crescente di essa nella società di oggi, analizzando la produzione di saggistica nel mondo negli anni '60 e '70. «Ci è capitata una curiosa avventura: avevamo dimenticato che si deve morire.
    È ciò che gli storici concluderanno dopo aver esaminato l'insieme delle fonti scritte della nostra epoca. Un'indagine su circa centomila libri di saggistica usciti negli ultimi vent'anni mostrerà che solo duecento (una percentuale, dunque, dello 0,2%) affrontavano il problema della morte. Libri di medicina compresi» [7].
    Un'analisi attenta, sul piano sociologico, è stata condotta da circa trent'anni da vari autori sulla nostra società occidentale, tecnologica e progredita. La conclusione è così documentata e stringente che non lascia dubbi e trova tutti concordi.
    La società tecnologica - secondo Ziegler - ha annullato la morte. Sviluppando e concentrando tutte le energie sul produrre, ha creato tecnologie ed ottenuto risultati altissimi circa i beni strumentali e di consumo, ma, come dice il saggio negro Tààkinà Molosan, «i bianchi conoscono tutto. Un solo affare sfugge loro: la morte» [8].
    Sarebbe interessante anche sviluppare - ma qui ne accenno solamente, anche se la divagazione sarebbe ricca di corollari attualmente significativi - la diversa cultura africana ed orientale sulla morte, ed anche una analisi storica sulla frattura del pensiero moderno rispetto a quello medievale cristiano e classico pagano, quando cioè con il razionalismo illuminista si definì una spaccatura nella concezione unitaria della persona nell'arco vita-morte-aldilà e si affermò l'alternativa tra vita come bene da usare e morte come termine violento di tale bene.
    Oggi, analizzando anche da questo punto di vista la società italiana degli anni '90, vediamo realizzata quella che Ziegler definisce «la società bottegaia» [9], della catena produzione-consumo-produzione. Se tutta una società si pone come scopo globale massimo il benessere, allora diviene necessario produrre il più possibile beni di consumo, spingere la gente ad acquistarli per produrne di nuovi e sempre più utili ed appetibili. In questa catena, la pubblicità, con TV, stampa, spettacolo, massmedia in genere, è il carburante unico e massimo. Si crea così un benessere anche reale, ma con una soddisfazione solo apparente e un inevitabile malessere esistenziale.
    Così, mentre aumentano discoteche, programmi televisivi frivoli e spettacoli esibizionistici, stampa sensazionale e scandalistica, superficialità e imitazioni standardizzate (trasmissioni televisive come Non è la RAI e Karaoke sono dunque da studio sociologico!), dall'altra aumentano le case di cura psichiatriche, i suicidi e gli omicidi, le violenze, le separazioni familiari. Si paga veramente l'apparente benessere con un reale ed irreversibile malessere esistenziale. Sarebbe grave, se le istituzioni educative, come la scuola, chiesa. enti culturali, seguissero e tentassero di far concorrenza a questo modello di società. Avremmo una società organizzata, in cui è proibito pensare, come scherzosamente Cesare Zavattini fa dire da un capoufficio al suo impiegato, troppo serio: «Le proibisco di pensare alla morte durante le ore di lavoro» [10]. 
    Ci avviamo, forse, verso una società immatura, stabilmente e felicemente bambinona, che crea lo stordimento in varie forme innocue o mortali, pur di non pensare alla verità?
    Con conseguenze tragiche già previste, repressione della libertà delle persone, saccheggio della natura, manipolazioni genetiche. Così prevedono studi seri di U. Galimberti, A. Peccei, E. Fromm.
    E l'Est europeo seguirà l'occidente dei supermercati? In tale contesto chi pensa ed è più sensibile ai significati esistenziali (spesso i drogati, i suicidi, i pazzi della nostra società non sono sempre i meno intelligenti e i meno aperti!) sente un fallimento profondo, una ricchezza sprecata, la solitudine al posto dell'affettività e della solidarietà.
    Esprime bene questa situazione di disagio, con la acuta sensibilità del «diverso», il poeta Paul Valery: «Solo. Sempre più solo. Tutte le cose mi circondano, ma non mi toccano affatto. Guardo e respiro. Sono e non sono. Non c'è più posto per me nell'ordine delle cose (...). Tutto mi è estraneo. Perché non c'è alcun Dio? Perché vertici di angoscia e abissi di abbandono non diventano sicuri messaggi? (...) Nessuno ascolta la mia voce interiore. Nessuno che mi parli direttamente, che comprenda le mie lacrime, e riceva la confidenza del mio cuore (...). Solo. Se ci fosse un Dio visiterebbe, credo, la mia solitudine, mi parlerebbe familiarmente nel mezzo della notte» [11].
    Mi si perdoni la lunga premessa, con uso troppo largo di citazioni, ma, preavvisando che sul tema della morte nella narrativa italiana degli ultimi dieci anni ho trovato abbastanza poco, oppure molto se si considerano le possibili cause di tale silenzio, di proposito mi sono dilungato sulla cornice, abbellendola il meglio possibile, dovendoci mettere dentro un quadro abbastanza povero e quasi deludente, salvo qualche eccezione.
    Dirò una parola dunque sul metodo usato per ricostruire tale quadro.

    Questo articolo

    Ho preso in considerazione circa 500 titoli di narrativa (romanzi, racconti e prose miste, autobiografiche, storiche, dissertative, vicine ai moduli narrativi), editi in Italia dal 1982 al luglio del 1994: 12 anni di libri, dunque, che si sono segnalati per qualità letteraria e per una certa originalità o tematica o strutturale o di messaggio. Da questi ne ho selezionato una cinquantina, che toccano, poco o molto, l'argomento della morte.
    Mi sono limitato alla produzione di autori italiani, anche se, come si sa, le idee non hanno confini geografici o amministrativi. Ciò per giungere ad un quadro abbastanza definito di un modo di sentire culturale e sociale, che se può differire poco rispetto ad aree territorialmente o culturalmente vicine, certamente non si può assimilare a regioni culturali totalmente diverse, come l'area nordafricana o balcanica o degli stati excomunisti.
    Dal sondaggio su queste opere - dicevo - ho trovato una debole presenza del tema della morte, facendo anche un confronto con un lavoro analogo sulla narrativa degli anni '70. Anche in scrittori che nel decennio precedente avevano espresso un approccio originale all'argomento, autori sia di ispirazione cristiana (P. Santucci, Testori, Pomilio, Bacchelli), sia laica (Camon, Fallaci, Satta), nell'ultimo periodo preso in esame sono un po' mancati all'appello [12].
    Le opere che toccano il tema o vi si accostano, lo fanno spesso non direttamente, ma trasversalmente o solo per necessità narrativa. Per tentare un orientamento più specifico tra questa produzione, ho raggruppato la cinquantina di opere suddividendole in cinque aree, con approssimazioni e destinazioni discutibili, anche, secondo le diverse modalità di approccio al tema.
    Un primo gruppo di autori toccano l'argomento, ma evadono, quasi non si arrischiano di addentrarsi: addirittura sembra che lo evitino.
    In qualcuno, tuttavia, l'impatto è inevitabile: allora mostrano di subire con amarezza la crudeltà del distacco da questa vita.
    Un terzo gruppo fa entrare la morte indirettamente nel racconto, che primariamente è storico o psicologico o sociologico. Numericamente sono, forse, la maggior parte. Sembra che al lettore degli anni '90 non interessi cosa fa il personaggio della vicenda, come si comporta, come reagisce agli eventi, quali pensieri gli passano per la testa, e come si relaziona agli altri: non ci si addentra nel perché delle scelte e dei comportamenti. Le motivazioni dell'agire presuppongono un progetto di vita, che si fonda su una visione della vita stessa. Questo aspetto ideologico o metafisico, come lo si voglia chiamare, è quasi assente.
    Un quarto gruppo, anche se ridotto, e con opere sporadiche, sente drammaticamente l'incubo della morte e l'impotenza a controllare in qualche modo questa realtà.
    Infine un ultimo gruppo di opere, prevalentemente di autori che si qualificano nell'area cristiana, vedono la morte secondo il senso religioso di un passaggio alla vita dell'aldilà. Ma in questo decennio le opere di questo tipo sono meno numerose che nel precedente e di proposta meno esplicita. Salvo qualche nome nuovo, come Erri De Luca, Pasquale Maffeo, Stefano Jacomuzzi, da cui si attende conferma più sicura nel prossimo futuro.


    L'EVASIONE DAL PROBLEMA

    In queste opere, anche di notevole livello letterario ed impegno culturale e politico, si ha l'impressione che il problema della morte, con i connessi interrogativi sul senso della vita, sia eluso. Si verifica probabilmente quello che Arrigo Cajumi formula così esplicitamente: «Non sappiamo il perché del nostro vivere e morire; non sappiamo che mai siamo venuti a fare quaggiù: quindi cerchiamo di passare il tempo nel modo più consono ai nostri gusti. Io non ho altra morale: anzi sono pronto ad applaudire chi, nato per fare il collezionista di francobolli o di porcellane, non ha che questo scopo nella vita» [13].
    Il Palomar di Italo Calvino (1983) è l'individuo che vuol rendersi conto della realtà, si interroga su tutto, ma ha perso l'aria ingenua e sognatrice di Marcovaldo, che lo portava a domande importanti, e, quello che è più triste, non ha risposte. Quello di Palomar è un tentativo di decifrare un silenzio, sapendo che al di là non ci sarà mai né una voce, né parola, né persona. Egli, partendo dagli interrogativi sugli oggetti in cui inciampa nella città o sulla spiaggia, ogni giorno, tenta di capire» il cosmo, il tempo. l'infinito, i rapporti tra l'io e il mondo. la dimensione della mente. Si aspetta invano che egli affronti il senso della morte e gli interrogativi sulla vita. Qui si può rendersi conto anche della visione marxista di un autore, per altri aspetti in lui superata: la sua ricerca è solo orizzontale e quando si imbatte in una esperienza che lo porta necessariamente ad interrogativi sul trascendente, non ne imbocca la strada: se ne è già precluso il cammino, dovunque possa condurre.
    Analogamente si può considerare :to questo aspetto la posizione di Oriana Fallaci. In Niente e così sia (1969) la giornalista rivela di essere andata in Vietnam a cercare la risposta alla domanda che la piccola Elisabetta le ha posto una sera: la vita cos'è? e la morte cos'è? La risposta è trovata alla fine degli assurdi giochi della violenza e val la pena di rileggerla, per accertarci quanto profonda era e quanto ora ne siamo lontani.
    «Proprio perché siamo condannati a morte, bisogna attraversarla bene, la vita, riempirla senza sprecare un passo, senza addormentarsi un secondo, senza temere di sbagliare, di romperci, noi che siamo uomini, né angeli, né bestie, ma uomini». E nelle parole di Elisabetta la scrittrice scrive la sua speranza oltre la morte. La piccola non si rassegna al fatto che la vita si riduca solo allo spazio di tempo tra la nascita e la fine e che la morte sia l'ultimo atto definitivo. «Non ci credo alle cose che dice - esclama la bambina -; io credo che quando un uomo muore fa come gli alberi che d'inverno si seccano, ma poi viene la primavera e loro rinascono, sicché la vita dev'essere un'altra cosa». Nella sua seconda importante opera, impegnata civilmente, Inshallah del 1990 è riportata la tragica situazione a Beirut tra la fine del 1983 e il gennaio '84. È ammirevole come il suo messaggio, dichiarato nella dedica, sia di amore, per le vittime e per la vita: (l'autrice) «dedica questa sua fatica ai quattrocento soldati americani e francesi trucidati nel massacro di Beirut dalla setta dei Figli di Dio. Lo dedica agli uomini, alle donne, ai vecchi, ai bambini trucidati negli altri massacri di quella città e in tutti i massacri dell'eterno massacro che ha nome guerra. Questo romanzo vuol essere un atto d'amore per loro e per la Vita».
    Ma di fronte a queste morti l'autrice non fa il passo che aveva tentato - e così felicemente - in Niente e così sia. Non si interroga sul senso di ciò che sta accadendo, ma ne è coinvolta emotivamente a tal punto che tutta la narrazione ne risulta eccessiva, violenta e perciò tanto esagerata nei particolari sensazionali, da risultare persino poco credibile.
    Un livello meno impegnato dei suoi racconti precedenti si può notare anche nelle ultime opere di Leonardo Sciascia. In Occhio di capra (1985) con ricordi, episodi storici e ricostruzioni ambientali sulla sua Racalmuto si ferma ad un livello di piacevole conversazione erudita. Ne Il Cavaliere e la Morte (1989), titolo che allude al celebre quadro di Dürer, mentre sarebbe stato facile sviluppare narrativamente il messaggio religioso del pittore tedesco, Sciascia conduce la sua indagine morale e civile sulla giustizia e sulla magistratura siciliana.
    Un altro autore di nobile impegno come Enzo Siciliano in Carta bleu del '92 ricostruisce la propria giovinezza tra studi universitari e passatempi con gli amici: difficile trovare un pensiero che vada oltre l'immediato.
    Una autrice sensibile come Rosetta Loy, di cui ricordiamo il finissimo Strade di polvere (1989), nei romanzi successivi (Sogni d'invernoAll'insaputa della notte) con la sua memoria si restringe ad un gioco di sensazioni con un malessere sentito e non risolto. La morte nella sua prima opera è accolta attraverso la memoria contadina con la serenità dei suoi antenati; ora nella città progredita ed inquieta prevale una ricostruzione ambientale fredda e rassegnata della famiglia borghese.
    Il ritorno di Arbasino, già contestatore del romanzo tradizionale, con il nuovo ampliato Fratelli d'Italia (1994), ripete il conversare dotto brillante del primo di venti anni fa, ma gli argomenti seri sono evitati.
    Egli impone il suo parere su tutto e tutti (difficilmente qualcosa dell'attuale Italia sfugge al suo bersaglio), ma se si cerca qualche riga su temi universali, nulla.

    L'IMPATTO INEVITABILE

    Nonostante l'argomento venga evitato, si constata, per altri autori, come l'impatto con la morte sia inevitabile. La realtà è colta allora nella sua drammaticità e, per così dire, disturba il normale procedere degli eventi. A volte incombe come un alone di misteriosa inquietudine e, per quanto si voglia evitare di darne una interpretazione, rimane nell'animo un senso di incapacità a trovare una interpretazione. Afferma Ferdinando Camon, parlando della morte serena di credenti: «Queste sono morti rasserenanti, addirittura consolanti, non solo per il credente, ma per l'uomo in generale (...), queste sono morti pacifiche, addirittura aspettate (si riferiva a papa Giovanni XXIII). In questo amor fati c'è un tipo di sapienza che la nostra cultura laica non possiede e non trasmette. Noi fatichiamo a trovare qualche ragione per lavorare, studiare, scrivere; facciamo di questa ragione un motivo per cui vivere; ma una ragione per morire non riusciamo ancora a inventarla, la nostra cultura non arriva a tanto».
    Giorgio Manganelli nella sua ricerca della letteratura come gioco intellettuale, che finisce in un nulla esistenziale, manifesta di continuo l'incapacità di dare una qualsiasi motivazione alla morte e all'angoscia di non capire («e se dovessero esserci disegni di cui non capiamo il senso?»): egli accumula nelle pagine de La palude definitiva (1991) immagini di morte e putrefazione. Al massimo di approdo a cui era pervenuto in Hilarotragoedia era stato un Ade escrementizio. Non basta, poi, giocare con le parole e i cruciverba logici. Tutto rimane senza senso finale, come nei suoi racconti di Centuria (1991), appena abbozzati e tutti sospesi, nell'impossibilità di una conclusione verosimile. «Vivere è come un uomo che vuol scrivere un libro - egli ha detto -, ma non sa né cosa è un libro, né come cominciare o cosa dire». Forse dagli scritti postumi apparirà un Manganelli un po' diverso e finalmente orientato, ma fino alle sue ultime opere edite (Dall'Inferno del 1985 e Amore del 1992) egli rimane bloccato ed esterrefatto di fronte alla morte.
    Questa sensazione si coglie anche in scrittori della generazione successiva: si veda Vincenzo Cerami, che richiama il suo maestro Pasolini. In Ragazzi di vetro (1984) egli tenta di leggere dentro l'inquietudine giovanile, le loro devianze e ribellioni contro la mediocrità, ma in fondo egli, l'autore, è come la sua creatura, Stefano, che rivela un grave malessere, così come è apparentemente velleitario e interiormente disorientato, poiché non ha una certezza né una illusione a cui appigliarsi.
    Vincenzo Consolo (Retablo) e Gesualdo Bufalino, al di là delle loro capacità di vivificare un racconto con luci barocche e richiami culturali-storici alla loro terra siciliana, rivelano - mi sembra - questi limiti: non affrontano i temi impegnativi, rimanendo autori preziosi e talora abili incantatori, anche quando rievocano la vita di un santo.
    Altri dimostrano di non poter evitare, perlomeno, il senso di mistero e di inquietudine che la morte loro impone. Così Giuseppe Pontiggia, a contatto con la vecchiaia ne La grande sera (1990), trova che gli uomini non sanno vivere e si adeguano alla inautenticità della vita, ma un fatto particolare, come la scomparsa di un amico, o la vecchiaia, o la falsità del loro esistere, li mette violentemente di fronte al problema. Il suo racconto richiama il film Otto e mezzo di Fellini
    Più vicino ad esprimere il mistero delle cose si presenta Michele Prisco. Nelle sue storie interiori (Lo specchio cieco, 1985), elegantemente delineate, si respira spesso un alone di enigma di gusto pirandelliano.
    In alcuni di questi e in altri autori, più vicini ad esprimere un significato personale al fatto della morte, si ha come un'allusione timida, che non ha il coraggio di proporsi, ma che fa intendere che un senso deve esserci in questa realtà che non si può eliminare.

    SOLUZIONI CHE NON RISOLVONO

    La maggior parte delle opere che ed impegnati toccano il tema della morte, in modi diversi, ma espliciti, lo risolvono in contesti storici o psicologici o sociali. Ma, per l'assunto di questa analisi, sono soluzioni solo apparenti.
    I maggiori autori emergenti in questo ultimo decennio sono ritenuti Antoonio Tabucchi e Sebastiano Vassalli, due scrittori molto seri sul piano letterario ed impegnato anche civilmente a fare delle loro storie dei messaggi politici a favore dei diritti dell'individuo e della giusta evoluzione sociale dei ceti umili. 
    Tabucchi con le sue storie portoghesi mette in evidenza situazioni difficili e protagonisti impegnati per la liberazione dell'uomo. Nel suo ultimo manzo Sostiene Pereira (1994), ambien tato nel regime di Salazar degli anni '30, la morte, attesa o violenta, occupa larghi spazi narrativi, come nei suoi racconti precedenti, collocando l'autore su di un filone neorealista aggiornato.
    Il suo interesse, però, è nettamente politico e, al massimo, psicologico, nel ritrarre il comportamento del protagonista, un giornalista, tra leader di una opposizione antigovernativa e l'incapacità di realizzare le trame cospiratrici. Anche Vassalli, si veda Marco e Mattio (1992), pregevole racconto ambientato in un passato dalla situazione sociale ingiusta (e in altre opere l'autore aveva espresso la sua preferenza per storie di inquisizione e violazione dei diritti personali), affronta con pagine fortemente espressive il fatto della morte, ma tiene l'episodio al livello storico-descrittivo, senza addentrarsi in una lettura più esaustiva. Poiché è stato avanzato il richiamo al Seicento del Manzoni, proprio qui si può verificare il diverso grado di interpretazione della realtà. La morte di Don Rodrigo ne I promessi sposi o quella dei due protagonisti de La storia della colonna infame, per non parlare della figura della madre di Cecilia, attingono a certezze ben più chiare e ricche, che vanno sicuramente oltre l'episodio storico.
    Anche Giuseppe Pederiali con le sue avventure ambientate nel medioevo padano (Il tesoro del BigattoLa Compagnia della Selva Bella), tra realismo popolare e fantasia, preferisce la ricostruzione surreale ed epica. Assurto a caposcuola di questi autori, che utilizzano la storia (e vi aggiungiamo sicuramente anche Roberto Pazzi) è Umberto Eco con Il nome della rosa, dove la morte è presente e dominatrice nelle lugubri trame di un monastero medievale, ma il senso del romanzo distrae il lettore e lo indirizza altrove. Utilizzando figure storiche particolarmente espressive, testi filosofici e liturgici, l'autore persegue altri intendimenti. Così si verifica la medesima impostazione in racconti di rappresentazione sociologica o psicologica. Molte opere narrano fatti della vita ordinaria, con attenzione particolare ai giovani e al loro disagio. Si veda Andrea De Carlo con Due di due e il sociologo Bettin con l'autobiografico Qualcosa che brucia (1989), storia difficile di un giovane tra ribellione e droga.
    Altri autori, sulla scia del minimalismo americano, raccontano storie di ordinaria vita quotidiana o di banalità, o di biografie senza importanza, come l'ultima raccolta di racconti di Pontiggia, che ha rifatto a rovescio le vite di uomini illustri di Svetonio, questa volta con personaggi insignificanti del nostro tempo.
    De Benedetti con Se la vita non è vita (1991) annuncia fin dal titolo l'assenza di interessi. Anche l'ultima opera della Sanvitale, impegnativa per la mole e la documentazione, preferisce tracciare il ritratto di un inetto nella figura del figlio di Napoleone, morto prematuramente tra sospetti.

    L'INCUBO, RARAMENTE

    In alcuni autori troviamo la presenza della morte, apertamente riconosciuta e sentita come incubo sovrastante, ineliminabile nemica della vita e fine di tutte le gioie e possibilità terrene. Si affaccia in questi racconti il suicidio, logica conseguenza di una concezione nichilista dell'esistenza. Il prototipo di questi personaggi è Bazarov, protagonista di Padri e figli di Ivan Turgenev. Tutti i nichilisti del nostro tempo si riconoscono in lui. Per vie diverse hanno come presupposto non dimostrato la negazione della sacralità inviolabile della persona, il rifiuto della capacità umana di conoscere e di costruire qualcosa di positivo e, in radice, un ateismo teorico e pratico. Spesso si camuffano di umanesimo o di sociologismi libertari, ma alla base della loro visione della vita vi è un'amara negazione del bene. Quindi la rassegnazione alla realtà, lieta o triste che sia; la sfiducia verso gli altri; una cultura di amara sottomissione alla morte, sentita come «disgrazia» e fine di ogni possibilità umana. Disprezzo per l'uomo - in fondo - e per il Dio che potrebbe averlo creato. I materialismi moderni, marxista o liberista, i minimalismi filosofici, la fenomenologia letteraria, l'amoralità corrente, imposta dai mass-media - senza voler esagerare né generalizzare - coltivano questo virus diffuso, anche se occulto. È la cultura della filone o la pseudo-cultura dominante, che legalizza l'aborto e l'eutanasia, che giustifica i giochi suicidi dei giovani; è l'infermiera di Vienna, che dopo aver eliminato 48 anziani, dichiara alla stampa che «assistere i vecchi è un lavoro infernale e inutile»! Voci così tristi ne troviamo anche nella produzione letteraria di questi anni. Moravia, nelle ultime opere, non è deprimente e nichilista?
    Senza voler esprimere giudizi morali, ma recependo i loro messaggi, Giampaolo Rugarli impressiona per la durezza implacabile di Nido di ghiaccio (1989). Luca Canali, latinista finissimo e uomo sofferente, è sovrastato dal senso della sconfitta dell'uomo. E se si analizzassero con attenzione alcune pagine dei romanzi di Umberto Eco (o è il senso di tutta l'opera, come da qualche autorevole giudizio è stato proposto?), non emerge forse una visione tragica della realtà globale? Ne Il nome della rosa, dopo tanti episodi di inganni, di soprusi e violenze, la conclusione è che di reale esistono solo i nomi, cioè le apparenze, le forme ingannevoli e convenzionali. Ne Il pendolo di Foucauld è impressionante la scena, e più ancora il suo significato, di uno dei protagonisti, impiccato al pendolo, che nel suo oscillare segna i dieci attributi di Dio. Di quale Dio si parla, se ha bisogno della morte dell'uomo per manifestarsi e prevalere? L'autore le definisce «le dieci tappe dello sfiato esangue e della deiezione del divino nel mondo». Si vuol dire forse che tutto proviene da un principio-caos per dissolversi nel «Polo Nulla» e che tragicamente non c'è alcun senso nella vita e nella morte perché esse «sono un enigma sanguinoso e insensato»?
    Umberto Eco, con la sua opera di semiologo e narratore, non è certamente tutto qui, ma pagine ed affermazione di questo tipo fanno sospettare di un approdo al nulla nella traiettoria futura dello scrittore.
    La stessa opera postuma di Pier Paolo Pasolini Petrolio, da lui non pubblicata, assieme ad un erotismo ossessivo, rivela una sfiducia amarissima verso la dignità della persona e la possibilità di vivere secondo una norma etica. Carlo Sgorlon, che in questi anni ha continuato a pubblicare le sue storie popolari di gente concreta, che vive nel destino della propria storia e nel cuore della propria terra, ha anche maturato una posizione sempre più personale e dichiaratamente spiritualista nel ricupero di valori etici e religiosi perduti. In un articolo del giugno 1994, denuncia apertamente con nomi ed episodi circostanziati come la cultura ufficiale e quella di massa siano state chiaramente violentate da pochi maestri di ideologie nichiliste. I loro strumenti di potere sarebbero stati le case editrici, i mass-media di stato e l'esclusione di chi non si allineava o si opponeva al loro programma. Nel suo ultimo romanzo, Il regno dell'uomo (1994), un giovane intellettuale si oppone a vari uomini di cultura, detta negli anni della contestazione, «radicale» o «di sinistra». Egli matura a fatica, con molti contrasti, una propria convinzione fondata sulla spiritualità della persona e sulla fede nel trascendente.
    La voce di Sgorlon è ora chiara e libera dalle emarginazioni patite e ci propone la morte come un momento importante della vita e la riconosce in un quadro di valori morali e religiosi.

    VOCI DI SPERANZA OLTRE IL MISTERO DELLA MORTE

    Prima di analizzare alcune opere di narrativa, accennerò solamente ad alcuni autori, qualificati per la loro cultura e la testimonianza di vita che hanno offerto, perché i loro scritti rientrano attraverso la saggistica religiosa in quella letteratura mista di riflessione, invenzione e documentazione, che riscuote successo ai nostri giorni. Basti pensare che l'autore più venduto in assoluto in Italia negli ultimi anni è il cardinale Martini di Milano.
    Tra questi autori val la pena di ricordare Davide Maria Turoldo, che anche nella malattia degli ultimi suoi anni ha lasciato parole profonde di verità che già aveva espresso in tre racconti allegorici, ora riediti ne La morte dell'ultimo teologo (1994).
    Anche Ernesto Balducci, con taglio più antropologico, ne Il terzo millennio, inserisce i fatti storici attuali e i dibattiti su violenza, disarmo. pace, diritti della vita, in un quadro sistematico culturale, dove egli vede il futuro come risposta alla vita, nella storia e nel concreto, nel superamento della cultura di morte.
    Il filosofo Nicola Abbagnano, passato da un iniziale scetticismo ad una speranza laica, fortemente marcata di fiducia ed ottimismo, ne La saggezza della vita (1986) diventa un maestro che sa guardare alle situazioni dell'esistenza, anche quelle più dolorose con serenità e costruttività. Anche la morte si riveste di pacata accettazione.
    Più direttamente interessati alla narrativa sono alcuni autori, già affermatisi ed anche alcuni più giovani. Tra i primi ricordiamo Mario Pomilio, prematuramente scomparso. Con il suo Il Natale del 1833 (1983), rielaborando testi ed episodi luttuosi della vita di Manzoni, esprime il dramma del dubbio fino al limite della disperata negazione di Dio per giungere alla certezza per cui «la luce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno e il dolore di ciascuno è la croce di Dio». In questa visione anche la perdita dolorosa delle persone più amate trova una risposta. Breve testo, ma molto curato e molto alto per elaborazione della struttura e della formulazione letteraria, oltre che per il messaggio.
    Anche Giorgio Saviane si è inserito con la sua consueta originalità tra queste voci di spiriti credenti nella vittoria sulla morte. Ne fa l'argomento diretto del suo romanzo Il terzo aspetto (1990). È un'opera viva e ricca di dialoghi, luoghi dell'Europa e personaggi attuali, ma soprattutto per il coraggio di affrontare l'argomento della dimensione dell'esistenza oltre la morte e le suggestioni che sa aprire a varcare il buio del mistero.
    Altri autori si ispirano negli iscritti di questi anni ad una visione cristiana della vita, ma non hanno affrontato l'argomento in modo diretto: Santucci, Barbaro, Doni, Parazzoli ed altri.
    Nuove voci sono invece venute ad arricchire il panorama letterario di questo decennio e che potranno in seguito offrire ulteriori sviluppi positivi.
    Stefano Jacomuzzi, entrando in narrativa dalla cattedra universitaria, esordisce con Le storie dell'ultimo giorno (1993), dove una robusta ricostruzione storica ingloba dibattiti e scelte morali nella prospettiva apocalittica del giudizio di Dio. Le forti convinzioni religiose dell'autore riescono, soprattutto in alcune pagine felici, a trasformare la materia in tensione e contrasti appassionati.
    Un giovane scrittore napoletano, Erri De Luca, nella sua breve opera prima, Non ora non qui (1989), molto originale per la varietà linguistica ed i piani comunicativi, accoglie in pieno nel finale il tema della morte. Val la pena di riportare la pagina della morte della moglie. «Quando morì non me ne accorsi. Dormivo sulla sedia, le mani intrecciate alle sue, gli occhi miei chiusi e i suoi aperti verso di me. Quando sciolsi le dita dalle sue, fui solo al mondo. Fu la mia porzione quella donna venuta fino a me. Edificammo contentezze, lenticchie di una festa minore ma continua. Fu la mia porzione e non l'ho custodita. È stata poco con me, una breve durata nel corso della vita, ma anche nei sette anni del matrimonio. Essere al mondo, per quello che ho potuto capire, è quando ti è affidata una persona e tu ne sei responsabile e allo stesso tempo tu sei affidato a quella persona ed essa è responsabile per te».
    Dopo la pubblicazione di racconti di attualità, ispirati alla Bibbia, De Luca ha affrontato ancora direttamente l'impatto con la morte in Aceto arcobaleno (1992). Qui un assassino, un prete con il cancro e un giramondo fanno visita ad un Giobbe moderno. La salvezza viene in una luce biblica, quasi una rinnovata visita dei tre angeli ad Abramo, qui capovolta in tre peccatori. Dal peccato di ciascuno viene la misericordia di Dio.
    Pasquale Maffeo in Prete Selvatico (1982) tenta il grande racconto morale alla Bernanos, rappresentando il drammatico dibattito tra debolezza umana e Grazia. Don Simmaco nel paese terremotato del Sud ritrova la propria identità e vocazione. Un bambino, quasi angelo di Dio, lo conduce sulla strada del ravvedimento fino all'incontro con la misericordia divina.
    Proprio di fronte alla morte avviene il miracolo: il prete confesserà al bambino il suo tradimento sacerdotale, riceverà il perdono ed accoglierà in pace la morte.
    Ci sono autori che, pur non parlando esplicitamente di una morte cristiana, ispirano a convinzioni religiose le proprie riflessioni culturali e le proprie invenzioni narrative.
    Così è per il critico e narratore Claudio Magris. Alla domanda come mai egli non abbia mai dedicato uno dei suoi saggi alla Bibbia, che dice di leggere di continuo e che «è fondante nella mia vita, nel mio lavoro di critico come di scrittore», ha risposto: «Come critico, ho degli autori che analizzo, studio, interpreto. Ma la Bibbia non mi interessa come oggetto d'analisi letteraria, è piuttosto l'occhio con cui guardo le cose. Per cui affiora di più nelle mie opere di narratore, come Danubio. Mai però esplicitamente. Della Bibbia non scrivo, ma quando scrivo di qualcosa lo faccio con la sensibilità che dalla Bibbia mi nasce».
    Sono voci consolanti, queste ultime, per chi cerca di vivere la propria fede ed anche per chi è alla ricerca e vive con cuore sincero secondo la prospettiva di una dignità umana e non può non interrogarsi sul mistero della morte.
    Jean Paul Sartre, pur avendo offerto dalla sua cattedra alle generazioni del dopoguerra insegnamenti non sempre accettabili, nella sua amara laicità, ha invitato tuttavia ad una scelta dignitosa attraverso il riconoscimento di un significato della morte per dare un senso alla vita: «Se la morte non ha un senso, allora neanche la vita ha senso. La ricerca di un indirizzo da dare alla vita dev'essere in ogni caso preceduta dalla ricerca del significato della morte, per quanto lontana essa sia» [14].
    Per questo Giovanni Arpino, vicino alla fine, scriveva in Passo d'addio (1986) che è «una spaventosa bestemmia del nostro tempo voler far morire la morte: è come tentare di spegnere un faro, che segna un pericolo e insieme un approdo».


    NOTE

    1) Cit. in F. Canova, Le chiavi della speranza, Paoline, Milano, 1989.
    2) J. Rostand, L'homme, Paris, 1962.
    3) Da una intervista in L'Espresso, 3.6.1994.
    4) Cit. da V. Messori, Scommessa sulla morte, SEI, Torino, 1982.
    5) Platone, Fedone o dell'immortalità dell'anima, La Prora, Milano, 1950, pag. 84.
    6) E. Jonesco, Antidoti, Spirali, Milano, 1988.
    7) Cit. in V. Messori, op. cit.
    8) Idem.
    9) J. Ziegler, I vivi e la morte, Mondadori, Milano, 1978.
    10) Cit. in V. Messori, op. cit.
    11) P. Valery: Cahiers in «ouvres complètes», VIII, Pléiade, Paris, 1977. pp. 466-7.
    12) Cf S. Cagnin, La morte nella narrativa italiana contemporanea, in Note di Pastorale Giovanile, LDC, Torino, ottobre 1981.
    13) Intervista in L'Espresso, 22.7.1994.
    14) Cf V. Messori, op. cit. pag. 28.


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