Fratel MichaelDavide
(NPG 2014-05-66)
La chiesa del grembiule
I primi segni dell’albero di gesti che ci sembra ben rappresentare il Vescovo di Roma Francesco e la sua pacifica rivoluzione, si possono racchiudere simbolicamente tra il suo apparire alla Loggia centrale della Basilica di san Pietro e il suo sedersi sulla Cathedra Romana nella basilica di san Giovanni in Laterano. La preghiera, in ambedue i casi, è stata lo specchio semplice e immediato di ciò che papa Francesco sente di volere e dover essere nella Chiesa di Roma a servizio di tutte le Chiese e per il bene di tutta l’umanità. Recenti revisioni dei riti dell’elezione e dell’insediamento del nuovo Vescovo di Roma prevedevano questa preghiera pronunciata dal Cardinale Vicario prima che il papa si sedesse sulla sua cattedra al pari di ogni vescovo nell’atto di cominciare il suo ministero. Il testo della preghiera suonava così: "Come il vignaiolo che sorveglia dall’alto la vigna, sei posto in posizione elevata per governare e custodire il popolo che ti è affidato". Questa preghiera è stata mutata per esplicito desiderio del Vescovo Francesco.
Il Cardinale Vallini rivolgendosi al Vescovo, non ancora insediato sulla sua cattedra, ha pronunciato parole sostanzialmente diverse, parlando non tanto alla sua persona, ma al simbolo di questo “luogo” al cui servizio la persona del papa è chiamata: “Questo è il luogo eletto e benedetto, dal quale, fedelmente nello scorrere dei secoli, la roccia su cui è fondata la Chiesa, conferma nella verità della fede tutti i fratelli, presiede nella carità tutte le Chiese e con ferma dolcezza tutti guida sulle vie della santità”. Con questa formula solenne si conferma quanto papa Francesco aveva detto e fatto nel momento in cui si era presentato alla folla radunata in piazza san Pietro accanto al Cardinale Vallini. Appena eletto, papa Francesco aveva chiesto al Vicario la disponibilità a continuare ad aiutarlo per servire la Chiesa di Roma a cui avrebbe chiesto subito dopo di essere accolto come Vescovo. Proprio e solo quale Vescovo di Roma, il papa assicura un servizio anche alle altre Chiese e per questo ha voluto che fosse fosse il cardinale Vicario e non altri ad essergli accanto nell’atto di presentarsi al popolo romano. Il cambiamento nella formula usata per l’insediamento rivela quanto la sensibilità circa il ministero petrino del Vescovo di Roma sia evoluta in pochi giorni ritornando alla sua antica essenzialità e, in certo modo, incarnando il sogno di quella "chiesa del grembiule" profetizzata da don Tonino Bello.
La cathedra romana ritorna ad essere un luogo di umile ministero al cui servizio è posto, per primo e in modo emblematico, lo stesso Vescovo che porta su di sé il duplice carico della cura del suo popolo - come ogni altro vescovo della Chiesa - e la sollecitudine per tutte le Chiese in spirito di carità e di amore per la loro dignità e la loro crescita nella fede. Il ruolo del “governare” ritorna ad essere quello di confermare, presiedere, guidare alla santità con “ferma dolcezza”. Il linguaggio dei Padri e dei papi del primo millennio sembra essere tornato ed essere il linguaggio comune e condiviso. Senza nessun pronunciamento ufficiale, senza lunghe trattative curiali, senza lungaggini amministrative, papa Francesco ha ridato, attraverso il linguaggio e i simboli pregnanti della preghiera, un nuovo modo di concepire il suo servizio in consonanza profonda con quello più antico su cui tutti i credenti possono ritrovarsi serenamente. Per questo la preghiera continua così: "perché da un confine all’altro della terra si formi in solo gregge sotto un solo Pastore". Sembra evidente che si tratti del "Pastore supremo…" (2Pt 2, 25) di cui ci parla Pietro nella sua prima lettera. Di questo Pastore il successore di Pietro è un’icona di riflesso, chiamato a pascere solo perché conscio del suo poco amore (Gv 21) in confronto a quello di Colui che si è lasciato immolare sull’altare della croce.
Attraverso le parole della preghiera viene delineato così l’orizzonte del ministero petrino nella sua purezza e nella sua essenza riportata alla sue intrinseca essenzialità. Pertanto viene anche suggerito uno stile assolutamente cristologico e improntato all’immagine del Buon Pastore che rivela pienamente il cuore del Padre misericordioso cui papa Francesco allude ampiamente nella sua omelia al Laterano e che porta inciso sul cuore attraverso l’immagine della sua croce pettorale. Lo stile è concentrato in una sorta di programma pastorale: "con ferma dolcezza". Rivive così lo stile pastorale di grandi Padri della Chiesa come Gregorio Magno che scrive nelle sue lettere: "Coloro che presiedono si mostrino tali che quanti sono loro soggetti non arrossiscano di affidare loro i propri segreti, affinché quanti si sentono come bambini nella lotta contro i flutti delle passioni, ricorrano al cuore del Pastore come al seno di una madre" [1]. Il mezzo principale per portare avanti questo processo è la predicazione, che genera uno scambio e una crescita simultanea tra il pastore e il gregge [2].
La parola scambiata
Sin dal suo primo apparire alla loggia della basilica di San Pietro, già con le sue prime omelie e i discorsi tenuti in questo primo anno di ministero petrino, papa Francesco ci ha fatto intuire quanto sia importante per lui la parola scambiata attraverso cui viene traghettata la Parola nei cuori. Nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium inaspettatamente, all’interno di un testo programmatico, vi è una sezione dedicata all’omelia che Papa Francesco non ha timore di definire come "la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità di incontro di un Pastore con il suo popolo" (EG 135). Quest’affermazione così forte è stata preceduta, e continua ad essere accompagnata, dall’esempio di papa Francesco che, fin dall’inizio del suo ministero petrino, ha fatto – tra le altre – due scelte di fondamentale importanza e legate tra loro: abitare a Santa Marta e celebrare ogni giorno l’Eucaristia nella cappella, assicurando una predicazione quotidiana sulla Parola di Dio così come viene offerta del ciclo liturgico. In questo modo, papa Francesco ha ripreso l’uso più antico dei Vescovi di mantenere con il popolo un contatto quotidiano, attraverso il ministero dello spezzare la Parola nella forma dell’omelia che assicura un rapporto materno – di "dialetto materno" (EG 139) - tra il pastore e il suo popolo, la cui prima caratteristica è la quotidianità. L’abitudine di considerare la parola del Vescovo di Roma come “straordinaria” e “formale” è stata superata da un modo quotidiano e familiare che fa rivivere ciò che ci è testimoniato dalla prassi dei Padri della Chiesa. A ben pensare è proprio la pratica dell’omelia ad essere, in certo modo, la madre della teologia, la cui prima forma non è la dogmatica, bensì l’interpretazione spirituale dei testi continuamente impastati con la vita concreta e quotidiana dei discepoli, chiamati ad incarnare nella vita la Parola di Dio attraverso parole e gesti "intrinsecamente connessi" (DV 1).
Come in altri ambiti della vita ecclesiale, papa Francesco ha messo in moto un processo di rinnovamento che, in linea con tutta la Tradizione, non è innovazione gratuita [3], ma un serio e umile ritorno a quelle realtà e a quelle forme che rappresentano il meglio di quell’eredità spirituale della cui trasmissione siamo tutti responsabili in prima persona. La sfida per tutti i credenti, e in modo particolare per i pastori, è di praticare il servizio della predicazione non come un esercizio di dominazione intellettuale e spirituale, ma come "un’intesa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita" (EG 135). Tutto questo fa rivivere l’attitudine dei primi padri della Chiesa il cui ascolto personale e intimo della Parola di Dio, racchiusa nelle Scritture, è testimoniato dalla loro predicazione così come ci è trasmessa nei testi che ci permettono, ancora oggi, di sentirne l’eco. Tra i tanti Padri della Chiesa possiamo privilegiare ancora un Vescovo di Roma predecessore di papa Francesco anche nello stile: il papa Gregorio Magno. Questo Prefetto di Roma, divenuto vescovo della sua città con una chiara consapevolezza di un dovere di servizio a tutte le Chiese e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, ci ha lasciato una traccia del suo personale attingere alla sapienza della Parola per rispondere alle esigenze della storia. Non va dimenticato che Gregorio, prima di essere Vescovo di Roma, fu monaco al Celio e poi a Costantinopoli, dove, pur essendo Apocrisario papale, continuò a vivere monasticamente e, nonostante le sue incombenze diplomatiche, non smise di dedicarsi alla quotidiana meditazione e interpretazione della Parola di Dio assieme ai fratelli nella vita monastica e per il loro profitto.
Due orecchie e una bocca
Due elementi, tra molti possibili, della testimonianza di Gregorio Magno trovano eco nell’Esortazione di papa Francesco: la fedeltà all’ascolto personale e integrale della Parola di Dio racchiusa nelle Scritture e il laborioso impegno nello spezzare il pane della Parola per i fratelli, lasciandosi raggiungere e cambiare dai loro bisogni, dalle loro aspettative in un processo di cospirazione triangolare: il testo, il contesto, l’ermeneuta. Tutto ciò nella memoria di avere una sola bocca, ma due orecchie: una da tendere alla Parola di Dio racchiusa nelle Scritture e l’altra verso la vita concreta e spesso dolorosa delle persone.
Gregorio Magno è molto severo nei confronti di chi, come gli eretici, trascura di giungere alla comprensione spirituale delle Scritture, fermandosi invece alla corteccia delle parole [4]. Si tratta, infatti, di andare sempre di più al fondo delle cose, in modo da essere in grado di coglierne la ricchezza attraverso il nesso che si instaura tra i dati dell'esperienza e quelli della dottrina, con particolare riferimento alla Sacra Scrittura. È interessante vedere come, per Gregorio Magno, l'esperienza sia molto importante ed è ciò che quotidianamente papa Francesco con la sua predicazione pratica personalmente e indica ai pastori e agli operatori pastorali di tutta la Chiesa. Per Gregorio Magno ogni interlocutore è portatore di valore a partire dalla sua esperienza, prima di essere oggetto di trasmissione dei valori della fede e della sapienza. Bisogna inoltre dire che di questa esperienza fa particolarmente parte il dolore, il quale, per il santo papa, non è altro che una scuola, appunto la "scuola del dolore" [5].
Mentre evochiamo alcuni elementi fondamentali della modalità di Gregorio Magno di essere pastore che spezza la Parola di Dio per il popolo, sentiamo una profonda sintonia con quanto papa Francesco non solo sta chiedendo alla Chiesa del nostro tempo, ma sta chiedendo prima di tutto a se stesso per servire il cammino dei suoi fratelli e sorelle nella fede in Cristo. Papa Francesco fa eco a tutta la Tradizione e alla riforma liturgica post-conciliare, sulla centralità della presenza di Cristo nella Liturgia della Parola, in cui la contemplazione del Verbo, che parla alla Chiesa Sposa, non può essere disgiunta, nel Pastore che si vuole realmente mediazione di senso e di orientamento, dal dover avere, per così dire, un occhio che sia "contemplativo del popolo" (EG 154). Quando ciò avviene essa è fonte di forza di fronte alle difficoltà[6] perché "nella santa Chiesa ciascuno sostiene ed è sostenuto" [7]. Il senso dell'unità genera la solidarietà che è qualcosa che prende fino in fondo in quanto "solo chi sa mettersi nei panni di chi soffre può comprenderne lo stato d'animo" [8]. Il titolo “inventato” da Gregorio Magno per indicare il ministero del Vescovo di Roma - servo dei servi di Dio – è l’atteggiamento abituale di papa Francesco tanto da essere una sfida per tutti i credenti di indossare il grembiule dell’amore accettando di sporcarsi le mani con ogni sofferenza e con ogni umiliazione. Mai come ora questo titolo amato dai papi di sempre è diventato non solo vero per il loro ministero, ma un appello di stile per ogni credente che si voglia discepolo di Cristo e testimone del Vangelo.
NOTE
[1] GREGORIO MAGNO, Epistole, II, 6.
[2] IDEM, Regola Pastorale, III, 25. Per Gregorio la predicazione da una parte richiede molto tatto (Commento morale a Giobbe, XIII, 7) e sempre rimane l'arte delle arti che bisogna prima imparare e poi insegnare (Regola Pastorale, I, 1).
[3] Cfr. Papa Francesco: la rivoluzione dei gesti, Meridiana, Molfetta 2013.
[4] Cfr. GREGORIO MAGNO, Commento morale a Giobbe XX, 9, 20.
[5] Cfr. IDEM, Commento morale a Giobbe, V, 23.
[6] Cfr. IDEM, Omelie sui Vangeli, II, XXI, 1.
[7] IDEM, Omelie su Ezechiele, II, I, 5.
[8] IDEM, Commento morale a Giobbe, Pref., 7.