La risurrezione
di Gesù
Questioni storico-esegetiche
Pedro Barrado
Quasi tutti gli studiosi che fanno ricerche sul Gesù storico si fermano alla sua morte, e in pochi si spingono a prendere in considerazione la sua risurrezione. La ragione, per questi storici, sta nel fatto che l'evento della risurrezione va oltre la storia e rientra pienamente nel campo della fede e della speranza. In questo senso si suole dire che la risurrezione non è un avvenimento storico, non perché non sia un avvenimento reale (ed essenziale per la fede cristiana), ma perché la categoria dello storico è insufficiente ad accogliere o comprendere tutto il significato della risurrezione.
Cominciamo col dire che la risurrezione, a differenza della morte, è un avvenimento assolutamente unico e singolare nella storia dell'umanità. Se aggiungiamo che essa ci porta direttamente a contatto con la sfera di Dio e del divino, allora comprenderemo più pienamente la difficoltà di parlare della risurrezione di Gesù.
Detto con altre parole, risuscitare significa partecipare della vita di Dio, della vita nella sua totale pienezza. Da quest'affermazione deriva un dato fondamentale per la sua comprensione: la risurrezione non è un ritorno prodigioso alla vita umana che conosciamo, né il ritorno di un cadavere alla vita fisica..., il cui destino, dopo un supplemento di vita, più o meno lungo, sarà inevitabilmente la morte. È perciò, molto importante, comprendere la differenza tra le «risurrezioni» narrate dai vangeli – di Lazzaro, del figlio della vedova di Naim, della figlia di Giairo – e la risurrezione di Gesù. Anzi, bisognerebbe utilizzare due termini differenti per sottolineare che si tratta di eventi totalmente e radicalmente diversi.
A questo proposito bisogna sapere che nel Nuovo Testamento si parla della risurrezione di Gesù utilizzando vari termini e diverse strutture concettuali. Possiamo trovare, infatti, vicino al termine «risurrezione» quello di «glorificazione» («Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù... »: At 3,13), di «esaltazione» («Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome»: Fil 2,9), o l'espressione «stare seduto alla destra del Padre» («Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio»: Col 3,1).
Il termine «risurrezione», predominante nel nostro linguaggio, è rivolto alla morte, fissa lo sguardo sul «da dove», perché risuscitare significa, etimologicamente, rimettersi in piedi (naturalmente facendo riferimento alla posizione distesa del cadavere). In questo senso, anche il risvegliarsi dal sonno, metafora della morte, sarà utilizzato come un'immagine della risurrezione («Svègliati, o tu che dormi, déstati dai morti e Cristo ti illuminerà»). Al contrario, le altre tre espressioni citate sembrano orientare verso il «dove» e il «come»: partecipare della gloria di Dio, essere proiettato «verso l'alto», condividere con Dio la sua stessa posizione di dominio e di sovranità. La posizione seduta era tipica dei re, così come il lato destro era considerato favorevole e buono, mentre il sinistro come sfavorevole e infausto.
Dobbiamo avere la consapevolezza che le parole ci aiutano a esprimerci, ma allo stesso tempo ci limitano. Per esempio, usiamo la parola «cielo» tanto per descrivere lo spazio fisico dove circolano gli aerei, come per riferirci alla dimora di Dio. Quando l'evangelista Luca descrive l'ascensione di Gesù come una «salita al cielo», è evidente che non possiamo comprenderla come un'elevazione verso lo spazio fisico (dove volano gli aerei o più su dove girano i satelliti artificiali), ma come unione alla sfera di Dio (il quale non sta solo in cielo, ma anche in terra e in ogni luogo) e quindi alla pienezza della vita divina. Nella lingua inglese non esiste questa difficoltà, perché con il termine sky ci si riferisce allo «spazio fisico», mentre con heaven s'intende il «cielo di Dio». Così a nessuno che parla la lingua inglese, verrebbe da dire: «Padre nostro che stai nello sky», ma dirà sempre: «Padre nostro che stai nello heaven».
Da quanto abbiamo detto, si può comprendere che la nostra grande difficoltà, quando parliamo della risurrezione, sta nel fatto che dobbiamo esprimerci secondo le categorie umane, che sono sempre, e necessariamente, legate allo spazio e al tempo, pertanto «storiche»; mentre l'oggetto del nostro discorso appartiene, per la sua stessa essenza, alla vita di Dio e, pertanto, si colloca fuori dello spazio e del tempo.
Per cogliere l'essenza di questa nostra inadeguatezza, qualcuno ha proposto l'esempio del cieco dinanzi ai colori: come spiegare a un cieco dalla nascita come sono i colori rosso, azzurro o verde? Per forza di cose dovremo farlo ricorrendo a esemplificazioni che coinvolgono l'esperienza di un altro dei suoi sensi. Così, potremmo dirgli che il colore rosso è intenso, come il fuoco o il sole; il colore azzurro è freddo o rinfrescante come l'acqua del mare; il colore verde è rilassante, come unapasseggiata di primavera in un parco pieno di alberi. E evidente che, in questo modo, ci saremo avvicinati solo lontanamente alla realtà dei colori, col descrivere al cieco le sensazioni che essi causano in chi ha la fortuna di poterli vedere. Però, di fatto, non saremmo mai riusciti a trasmettergli che cosa sono realmente i colori rosso, azzurro e verde.
Qualcosa di simile avviene, con ognuno di noi, quando parliamo della risurrezione. Non potremmo mai conoscerla o spiegarla nella sua pienezza, perché questo esigerebbe la capacità di penetrare nel mistero di Dio. Il Risorto è tale perché partecipa pienamente della vita e del mistero di Dio. Proprio per questa ragione, lo ripetiamo, non può rimanere imprigionato all'interno delle coordinate della storia, ossia dello spazio e del tempo, ma le trascende.
In questa prospettiva possiamo comprendere anche le narrazioni evangeliche delle apparizioni di Gesù. Dice il Vangelo di Giovanni che Gesù si fa presente in mezzo ai suoi discepoli mentre le porte della casa dove sono raccolti «rimangono ben chiuse» (Gv 20,19); Luca racconta che Gesù scomparve, improvvisamente, dalla vista dei due discepoli con i quali stava cenando (Lc 24,31). Non si tratta, evidentemente, di magia o di trucchi che fanno comparire o sparire persone e oggetti; al contrario, si tratta di un linguaggio volto a comunicare che, sebbene il Risorto si trovi al di fuori delle nostre categorie spazio-temporali, noi abbiamo bisogno di esse per esprimere la nostra percezione della risurrezione e intravedere qualcosa del mistero di Dio.
Un'ultima e importante considerazione si fa necessaria: quando parliamo della risurrezione di Gesù, non parliamo di una realtà che riguarda solo lui. Infatti, trattandosi dell'immersione totale di Gesù nel mistero di Dio, essa trascende la sua persona e ricade sui suoi discepoli, «irrorando» anche ognuno di noi. Proprio questo significano le parole che Paolo dirige ai Corinzi: «Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20). In realtà, si tratta di una conseguenza della nostra unione e solidarietà con lui, perché la nostra sorte è unita indissolubilmente a quella di Gesù: «Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo» (2Tm 2,11-12).
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I vangeli canonici sono molto contenuti nel narrare la risurrezione di Gesù, limitandosi, in concreto, a constatare il fatto. Non così gli scritti apocrifi. Il Vangelo di Pietro (un testo composto tra gli anni 100 e 150 d.C.), per esempio, è molto più loquace e ardito:
Di buon mattino, allo spuntare del sabato, da Gerusalemme e dai dintorni venne una folla per vedere la tomba sigillata. Ma durante la notte che precedeva il giorno del Signore, mentre i soldati montavano la guardia a turno, due a due, risuonò in cielo una gran voce. Tutti videro aprirsi i cieli e scendere di lassù due uomini, in un grande splendore, che si avvicinarono alla tomba.
La pietra che era stata appoggiata alla porta rotolò via da sé e si pose a lato, si aprì il sepolcro e i due giovani vi entrarono. A questa vista, i soldati svegliarono il centurione e gli anziani. Anch'essi, infatti, stavano di guardia; e mentre spiegavano loro quanto avevano visto, scorsero tre uomini uscire dal sepolcro: due di essi sorreggevano il terzo ed erano seguiti da una croce. La testa dei due giungeva al cielo, mentre quella di colui che conducevano per mano sorpassava i cieli. E si udì dai cieli una voce che diceva: «Hai tu predicato ai dormienti?». E dalla croce si udì la risposta: «Sì!» (Vangelo di Pietro, 34-42).
Storia della risurrezione (I)
Con i due capitoli che dedichiamo alla «storia della risurrezione» vogliamo evidenziare il processo graduale della formulazione della fede nella risurrezione di Gesù, attraverso la lettura del Nuovo Testamento. Di fatto, quando si parla di risurrezione, la nostra memoria corre subito alle apparizioni ai discepoli e al sepolcro vuoto, ossia alle narrazioni più spettacolari e stupefacenti dei vangeli. Però, da una lettura più attenta del Nuovo Testamento si deduce che non furono quelli i primi episodi a richiamare l'attenzione e a essere trasmessi. Altri li precedettero.
Le prime manifestazioni della fede nella risurrezione, prese in considerazione dagli specialisti, si trovano espresse nelle confessioni di fede, negli inni e nei cantici. «Voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino e avete ucciso l'autore della vita. Ma Dio l'ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni» (At 3,14-15).
Queste parole sono poste in bocca a Pietro, nel secondo discorso dopo la Pentecoste, dall'autore del libro degli Atti degli Apostoli. Sebbene questo scritto di Luca sia databile intorno agli anni 80, tuttavia nelle parole di Pietro si sentono gli echi di una cristologia molto antica. La stessa cosa si può dire del primo discorso di Paolo, sempre negli Atti: «E noi vi annunziamo la buona novella che la promessa fatta ai padri si è compiuta, poiché Dio l'ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesù, come anche sta scritto...» (At 13,32-33).
Se leggiamo la Lettera ai Romani, uno scritto di Paolo che risale agli anni 50 del I secolo, troviamo un'altra confessione di fede: «Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9). Nella lettera ai Filippesi leggiamo: «Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (2,9), un versetto questo che fa parte di un inno più antico (vv. 6-11), qui ripreso da Paolo. Anche in 1Pt 3,18 troviamo un testo che forse faceva parte di un inno battesimale: «Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito».
Tutti i testi citati condividono un'unica espressione di fede: il «soggetto agente» della risurrezione è Dio, mentre Gesù è il «soggetto paziente». Questo non significa che dobbiamo prenderli nel senso proclamato da una delle prime eresie del cristianesimo, conosciuta con il nome di subordinazionismo. Gli adepti di quell'eresia adottavano una dottrina trinitaria che riteneva il Figlio subordinato al Padre e, pertanto, a lui inferiore. Noi vogliamo affermare, invece, che ci troviamo dinanzi alle prime manifestazioni della fede nella risurrezione, enunciate secondo una mentalità e con formule espressive differenti da quelle che saranno utilizzate, più tardi, nelle formulazioni dogmatiche del IV e V secolo. Inoltre, nei testi citati, sono ancora assenti le narrazioni del terzo giorno, del sepolcro vuoto e delle apparizioni di Gesù. Ci troviamo, semplicemente, dinanzi alla confessione che Dio ha strappato Gesù dalla morte per farlo partecipe della sua vita.
Nella prima Lettera ai Corinzi troviamo un testo a metà strada e, per così dire, di collegamento tra la confessione di fede e la narrazione. Si tratta di un testo molto antico (si tenga presente che questa lettera risale alla metà degli anni 50), in cui Paolo parla di una tradizione che egli stesso ha ricevuto e che secondo alcuni studiosi si sarebbe formata intorno agli anni 40 nella comunità di Gerusalemme. Scrive Paolo: «Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato [...1. Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anelli() ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (1Cor 15,1-8).
Come si può vedere, in questo testo sono presenti alcune costruzioni narrative sulla risurrezione. Si parla del terzo giorno e delle apparizioni, sebbene tra queste ultime e quelle narrate dai vangeli esistano delle differenze espressive: per esempio quella a san Giacomo non risulta nelle narrazioni dei vangeli, dove, invece, sono presenti le apparizioni alle donne. Nel testo della Lettera ai Corinzi, inoltre, non c'è nessun accenno al sepolcro vuoto. Infine, sono interessanti alcune insistenze: quella sulla morte reale di Gesù (morì e fu sepolto), forse per distinguerla dalle «morti» e «risurrezioni» simboliche di cui parlavano altre religioni, come per esempio i misteri orientali di Eleusi, Isis e Serapis, ecc., messi in relazione, frequentemente, con i cicli naturali di «morte e risurrezione» della natura e della vegetazione; il riferimento all'Antico Testamento, che indicherebbe una volontà di rilettura delle Scritture ebraiche, allora le uniche disponibili per la comunità cristiana, in una prospettiva pasquale, finalizzata tra l'altro a dare un significato allo scandalo della croce; e, non ultima, quella sulla vetustà della tradizione, come denota l'uso del nome aramaico Cefa al posto di Pietro, o il fatto di non identificare gli «apostoli» con i «Dodici»: di fatto, all'inizio si chiamava apostolo chiunque fosse inviato dalla comunità, mentre più tardi quell'epiteto fu riservato, con esclusività, ai Dodici.
Per quanto riguarda la menzione del «terzo giorno», che compare per la prima volta negli scritti del Nuovo Testamento, si tratta di un'espressione da comprendere come una formula di pienezza di senso e, pertanto, non cronologica (altrimenti i conti non tornerebbero!). Essa, infatti, sembra derivata da una citazione del profeta Osea: «Venite, ritorniamo al Signore: egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza» (Os 6,1-2). Così, possiamo desumere che i testi non stanno dicendo che Gesù rimase due giorni nel sepolcro e risuscitò al terzo, ma che la risurrezione appartiene a una dimensione atemporale che si esprime nella formula del «terzo giorno», che risponde a una dimensione di pienezza; una forma di vita nella quale si vive «rialzato» alla presenza e della presenza di Dio. Infatti, anìstemi (levarsi, alzarsi) è il verbo greco che darà origine alla parola «risurrezione», anàstasis.
Comunque, conviene ricordare che stiamo parlando di una realtà che, sebbene si situi oltre il tempo e lo spazio, pure per essere narrata e compresa da noi deve rivestirsi delle categorie nelle quali viviamo e ci muoviamo. Parlare di «quando» Gesù risuscitò è una necessità umana; ma in sé, o contemplata dalla «prospettiva di Dio», la domanda sul tempo non ha senso, perché l'evento della risurrezione si situa fuori del tempo. Di fatto, l'evangelista Giovanni, che ha un suo modo specifico di organizzare il tempo, situa le apparizioni alla Maddalena e ai discepoli nel giorno dopo la morte di Gesù.
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Al tempo di Gesù molti ebrei non credevano nella risurrezione. Tuttavia, il giudaismo che si formò dopo gli anni 70 d.C. (distruzione di Gerusalemme), in grande parte influenzato dalle credenze dei farisei che credevano nella risurrezione di morti, farà di essa una delle sue principali convinzioni.
Citiamo, come esempio, due testi del Talmud di Babilonia, il primo dei quali ha una certa rassomiglianza, un po' curiosa, anche se solo formale, con alcune parole di Gesù in Gv 12,24. Ecco i testi:
La regina Cleopatra disse a rabbi Meir: «Io so che i morti risusciteranno, perché dice la Scrittura: "Quelli della città fioriranno come l'erba del campo" (Sal 22,16). Ma c'è un problema: si alzeranno nudi o vestiti?». Rispose rabbi Meier: «Puoi dedurlo dalla kal wahomer [una delle regole d'interpretazione] del caso di un chicco di grano: se un chicco di grano, che viene interrato nudo, diventa una pianta avvolta in molti vestiti, con più ragione usciranno vestiti i giusti, che vengono sepolti vestiti» (Sanedrìn 90b).
Nella scuola di rabbi Yismael hanno insegnato così: si può dedurre dalla kal wahomer del caso di un vaso di vetro; se un vaso di vetro, che si produce con il soffio di un essere di carne e sangue, può essere ricomposto quando si rompe, con molta più ragione si potrà ricomporre un essere di carne e sangue fatto dal soffio del Santo, che sia benedetto (Sanedrin 91a).
Storia della risurrezione (II)
Nella «storia della risurrezione» che stiamo delineando, il sepolcro vuoto e le apparizioni entrano in scena in un secondo momento.
Secondo la narrazione dei vangeli, alcune donne – tra le quali si distacca Maria Maddalena – fanno la scoperta della tomba aperta e vuota. Nelle narrazioni dei vangeli non c'è unanimità sulle ragioni che avrebbero portato le donne al sepolcro di Gesù; infatti, secondo Marco e Luca le donne vanno al sepolcro per imbalsamare il corpo di Gesù; secondo Matteo vanno per piangere sul defunto, mentre Giovanni non dà un motivo specifico per la visita: «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro» (Gv 20,1).
Quanto narrato dai vangeli è abbastanza insolito perché nel mondo ebraico il ruolo della donna, come testimone, era ritenuto di poco valore. Dice la Mishnà: «Queste sono le persone non adatte a testimoniare: il giocatore ai dadi, l'usuraio, chi lascia fuggire le colombe, quelli che negoziano i prodotti dell'anno sabbatico, gli schiavi. Questa è la regola generale: nelle materie in cui non è sufficiente la testimonianza di una donna, non lo è neppure quella delle persone elencate» (Rosh hashanà 1,8).
Tornando alla testimonianza delle donne sulla risurrezione di Gesù, potremmo dire che se si trattasse di un falso o di una pura invenzione, sarebbe stato più logico addurre la testimonianza di uno o più uomini per dare credito alla notizia del sepolcro vuoto. D'altra parte, bisogna pur dire che non sarebbe stato per nulla verosimile predicare la risurrezione con un cadavere giacente nella tomba.
Inoltre, è inevitabile osservare che il sepolcro vuoto non può essere la prova della risurrezione, perché il fatto potrebbe avere molte altre spiegazioni. Di fatto, la prima cosa che viene in mente alla Maddalena, quando vede il sepolcro vuoto, è pensare che qualcuno, per esempio il giardiniere, abbia portato via il corpo di Gesù. Secondo la narrazione di Giovanni, la Maddalena si rivolge all'uomo che crede il giardiniere, con queste parole: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto» (Gv 20,13). Peraltro, l'evangelista Matteo ci tramanda un'eco delle dicerie che correvano tra i giudei del suo tempo: «I sommi sacerdoti si riunirono allora con gli anziani e deliberarono di dare una buona somma di denaro ai soldati dicendo: "Dichiarate: i suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa verrà all'orecchio del governatore noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni noia". Quelli, preso il denaro, fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questa diceria si è divulgata fra i giudei fino ad oggi» (Mt 28,11-15). Pertanto, le dicerie alle quali fa riferimento Matteo confermano, indirettamente, che il sepolcro era stato trovato vuoto.
C'è chi ha spinto il dubbio fino alla negazione della risurrezione, sostenendo la seguente tesi: i racconti evangelici, nei quali si parla della sepoltura di Gesù in un sepolcro nuovo scavato nella roccia, di proprietà di Giuseppe di Arimatea, appartengono più alla teologia che alla storia. E per confermare la loro tesi sostengono che la sepoltura riservata ai morti in croce era la fossa comune, quando non venivanolasciati sulla croce per divenire pasto degli animali predatori e dei volatili. Contro quest'argomentazione basta ricordare il ritrovamento dei resti del giovane crocifisso Yehojanàn, di cui abbiamo parlato nel capitolo dedicato alla sepoltura di Gesù, che sta lì a dimostrare che esisteva la possibilità di un'onorata sepoltura.
Un altro testo per provare che Gesù fu sepolto è il seguente: «Gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi [...] chiesero a Pilato che [Gesù] fosse ucciso. Dopo aver compiuto tutto quanto era stato scritto di lui, lo deposero dalla croce e lo misero nel sepolcro» (At 13,27.28-29). Questa versione degli Atti degli Apostoli fa pensare che Gesù non fu sepolto dai suoi discepoli ma dai suoi nemici, cioè da quelli che avevano voluto la sua condanna ed eseguito la sua crocifissione. Per assurdo, si potrebbe pensare, perfino, che i discepoli ignorassero dove l'avevano sepolto. Comunque, rimane valida anche l'interpretazione tradizionale, cioè che sia stato deposto dalla croce dai suoi discepoli e da Giuseppe di Arimatea.
Infine, per comprendere un altro aspetto della problematica legata al ritrovamento del sepolcro vuoto, è interessante prendere in considerazione un'iscrizione trovata a Nazaret nel 1878, che sembra riportare la risposta imperiale a una sollecitazione d'intervento. L'iscrizione, chiamata anche rescritto di Nazaret, riporta un editto imperiale che impone la condanna alla pena capitale per chiunque trafugasse i cadaveri dai sepolcri. Ci domandiamo: Perché quest'iscrizione imperiale appare in un luogo senza importanza come Nazaret? Ci sarebbe una relazione con avvenimenti legati a quel modesto villaggio, mai menzionato nell'Antico Testamento, ma che fu la patria di Gesù e forse un centro importante dei suoi primi seguaci?
Per quanto riguarda le apparizioni di Gesù risorto è importante notare che nei vangeli sono raggruppate in due cicli. Matteo e Marco localizzano le apparizioni in Galilea. Per essere più precisi, nel finale «originale» del Vangelo di Marco (Mc 16,8) si fa riferimento all'apparizione di un angelo (a Gerusalemme), inviato per annunciare ai discepoli che Gesù li aspetta in Galilea, dove si farà vedere; ma poi Marco non racconta l'apparizione. Luca, invece, colloca le apparizioni nello scenario di Gerusalemme; mentre Giovanni combina le due tradizioni e parla di apparizioni tanto a Gerusalemme (cap. 20) come in Galilea, intorno al lago di Tiberiade (cap. 21).
Non sappiamo quale dei due cicli sia l'originale; ma, nei due casi ci troviamo di fronte a narrazioni di grande contenuto teologico. Il concetto centrale che vogliono trasmettere è che il Crocifisso e il Risorto sono la stessa persona; non sono due «persone» diverse, ma hanno due «modi di essere» differenti e due maniere di entrare in relazione con i discepoli. Perciò, il Risorto porta i segni della crocifissione e mangia con i discepoli, così come entra in una casa a porte chiuse o scompare dalla vista dei due discepoli con i quali sedeva a mensa.
Un elemento da tener presente, se non vogliamo rimanere irretiti nel solo ambito dell'immagine fisica, è la prospettiva dalla quale i vangeli parlano delle apparizioni di Gesù. Essa appare molto bene dalla forma del verbo greco orao (vedere) che i vangeli usano nel senso di «lasciarsi vedere». Del resto, questo è anche il termine che la traduzione greca della Bibbia utilizza per parlare delle apparizioni di Dio o degli angeli, in vari episodi dell'Antico Testamento. Questo significa che le apparizioni non sono un semplice evento fisico, osservabile da chiunque e in qualunque circostanza; al contrario, esse presuppongono sempre la volontà del Risorto, perché è sua l'iniziativa, è lui a farsi vedere. Ma, anche dai testimoni si esigono particolari condizioni interiori, prima fra tutte la fede; infatti, il Risorto non è un«oggetto» che tutti possono vedere, indipendentemente dal legame personale con lui.
Per concludere, dobbiamo fare una menzione speciale di Luca, l'evangelista che più degli altri ha sviluppato il tema delle apparizioni. Di fatto, dobbiamo a lui il dato «teologico» dei quaranta giorni di apparizioni che precedono il racconto dell'ascensione, anche questa, una narrazione esclusivamente lucana: «Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio» (At 1,3). Nel paradigma lucano abbiamo tre momenti: il primo è legato alla risurrezione di Gesù, il secondo alle sue apparizioni, il terzo all'ascensione. È come se Luca utilizzasse la scansione del tempo in modo pedagogico per rendere possibile la comprensione di qualcosa che è, per sua natura, ineffabile. Potremmo dire che il periodo di quaranta giorni di apparizioni – ricordare che quaranta è la cifra biblica per significare un tempo pieno, completo, chiuso – altro non è che lo spazio di tempo necessario al Risorto per guidare i suoi discepoli a intraprendere un nuovo cammino: il loro cammino.
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Presentiamo ora il testo dell'iscrizione trovata a Nazaret nel 1878. È incisa su una lastra di marmo, larga 60 cm e alta 37,5, disposta su ventidue righe e scritta in lingua greca. Dall'analisi del tipo di scrittura, realizzato negli anni Trenta del secolo scorso, è databile alla prima metà del secolo I d.C.
È noto a tutti che i sepolcri e le tombe, che sono stati costruiti per onorare gli ancestrali o i loro figli, devono rimanere inviolabili per sempre. Così, dunque, se qualcuno è riconosciuto colpevole di averle distrutte, di aver esumato cadaveri – non importa come l'abbia fatto – o di aver traslato i corpi in altri luoghi, con cattiva intenzione, commettendo così un crimine contro i morti; di aver cancellato le iscrizioni o rimosse le pietre dalla tomba, ordino che quest'individuo sia trascinato davanti al giudice, come avviene con chi agisce contro la religione degli dèi Mani, cioè come se avesse agito contro le stesse divinità tanto care ai romani. Perciò, dunque, in primo luogo è necessario onorare i morti. Non deve essere permesso a nessuno di spostare i morti dai loro giacigli. Chiunque lo farà, sarà ritenuto colpevole del crimine di violazione dei sepolcri, e sarà punito con la pena capitale.
(Il testo qui riprodotto è tratto da J. GONZALEZ ECHEGARAY, Arquelogía y evangelios, Verbo Divino, Estella 1994, p. 245.)
(Pedro Barroso, Gesù di Nazaret, il Cristo di Dio, Messaggero 2010, pp.127-144)