Esercizi di
esperienza dell'altro:
le età
Franco Cassano
Una volta approdati sulle rive dell'uomo [dopo il capitolo sugli animali, ndr] ci accorgiamo che esso, visto da vicino, non è così stabile come avevamo creduto. Ciò non perché avvenga qualcosa di inatteso e di nuovo, ma proprio perché le trasformazioni sono quelle con le quali conviviamo quotidianamente, dentro le quali stiamo, dall'interno delle quali guardiamo, parliamo.
In primo luogo le età, quelle trasformazioni che tutti gli uomini subiscono fin dal momento del loro concepimento. Se si pensa a come il corpo dell'uomo si trasforma nel tempo ci si può accorgere che esso può essere differente da se stesso, differente nel suo rapporto con il mondo esterno. Con l'età cambia quindi l'ambiente dell'uomo: da quegli automatismi che ne garantiscono la vita nel ventre materno al trauma della nascita nel quale si inizia la lunga strada che dovrà condurre all'autonomia, lungo la scala della crescita fisica e psichica, fino a quella nuova vulnerabilità che arriva con la vecchiaia. Il corpo si trasforma e diverso diviene il mondo che lo circonda, diversi i segnali importanti, i significati, le ricompense e le frustrazioni. Diversi sono i mondi delle diverse età: se si va in un museo con un bambino ed una persona anziana è facile che accada che della visita il bimbo ricordi la formica scovata in un angolo, un bambino con cui ha parlato, il cavallo impennato in un quadro di una battaglia e il vecchio la sala dove c'erano comodi divani e nella quale ogni tanto era possibile guardare un grande quadro con una veduta di campagna, il pensiero che di alcuni autori si continui a parlare anche secoli dopo la loro morte, la confusione causata dai gruppi con interpreti ed incredibili cappellini, lo sguardo fisso di un ritratto che ci guarda dal passato, l'assurdità e lo stordimento di quella doccia continua di emozioni che è un museo, l'umido che attende all'uscita.
Le trasformazioni del corpo che accompagnano l'età si collocano tra nascita e morte e si accompagnano con un diverso sentimento del tempo. La morte fa paura sempre, ma il vecchio ci abita vicino e davanti ha un tratto più breve di strada. Le trasformazioni del corpo sono quindi scandite anche sui ritmi di quel segmento di tempo che è la vita: ogni condizione d'età del corpo è insieme un diverso rapporto con il tempo. In gioventù si può mettere ancora molto nel proprio futuro, nell'età adulta il futuro è più ristretto e più nitido, ma continua a frequentare la vita. In vecchiaia l'avvenire inteso come vento che gonfia le vele se n'è andato e il meglio non è avanti, ma indietro e mantenere lo stato presente sarebbe già una conquista sul lungo periodo impossibile. Insieme vanno quindi le condizioni fisiologiche dalle quali si guarda il mondo, con le quali lo si abita e il rapporto con il tempo, con quella grande risorsa che è il futuro. Nel caso dei vecchi accade addirittura che essi, come dice Leopardi, «pospongono il presente al passato».
Questo attaccamento al passato è talvolta il frutto di un'illusione, grazie alla quale i vecchi proiettano sul mondo una modificazione che invece appartiene al loro corpo: «Io credo che ognuno si ricordi avere udito da' suoi vecchi più volte, come ricordo io da' miei, che le annate sono divenute più fredde, che non erano, e gli inverni più lunghi; e che, al tempo loro, già verso il dì di Pasqua si solevano lasciare i panni dell'inverno, e pigliare quelli della state; la qual mutazione oggi, secondo essi, appena nel mese di maggio, e talvolta di giugno, si può patire. [...] Ma i vecchi riuscendo il freddo all'età loro assai più molesto che in gioventù, credono avvenuto alle cose il cangiamento che provano nello stato proprio, ed immaginano che il calore che va scemando in loro, scemi nell'aria o nella terra»1.
Questa "proiezione" sulla realtà di un disagio soggettivo non è, secondo Leopardi, una prerogativa dei soli vecchi: infatti, «in ogni paese i vizi e i mali universali degli uomini e della società umana, sono notati come particolari del luogo» e gli uomini, «mentre viaggiano, sono amanti del loro soggiorno nativo e lo preferiscono con una specie d'ira a quelli dove si trovano. Tornati al luogo nativo, colla stessa ira lo pospongono a tutti gli altri luoghi dove sono stati»2. Essi «accusano sempre, o tendono naturalmente ad accusare de' loro mali o della mancanza de' beni, delle noie e scontentezze loro, quelli che li governano, anche in quelle cose nelle quali è evidentissima l'innocenza di questi [...] e la totale indipendenza e irrelazione di queste cose con loro»3. Tutto ciò accade perché «gli uomini sono miseri per necessità, e risoluti a credersi miseri per accidente«4.
Ciò che fa differente il vecchio è la circostanza che la speranza che nasce dalla fiducia che le ragioni del male siano contingenti e quindi rimovibili a luí non è più data: il bene sta lì nel passato verso il quale non si può tornare. Ma c'è un altro punto che impedisce di vedere questa nostalgia per il passato come semplice inganno: l'anziano è più debole e il suo rapporto con il mondo è cambiato a suo sfavore. L'indebolirsi del corpo, la somma di inabilità che lentamente vengono cumulandosi rendono diverso l'ambiente del vecchio. C'è qualcosa che non può più fare, qualcosa che richiede molto più tempo ed impegno. Ci sono sguardi che non si cercano e non si incontrano più, mentre tutto diventa più forte, più disattento, più veloce, più impaziente, più impersonale.
Il mondo può essere anche rimasto uguale, ma diviene diverso per chi al suo interno diviene più debole e scivola aí suoi margini. Le paure che ossessionano il vecchio appaiono risibili fobie agli occhi dell'adulto, ma quest'ultimo non ha da mettere in conto nella propria vita quotidiana la dipendenza, il fatto che molte cose sono possibili o più facili grazie soltanto all'attenzione e disponibilità altrui. Un vecchio lo si teme di meno di un adulto e lo si può quindi anche ignorare. L'adulto non vede che la fragilità del vecchio è divenuta fonte di timori perché è molto più facile strappare qualcosa ad un vecchio, spingerlo e scappar via, è più facile precederlo con un salto, prenderlo in giro o ricattarlo. Lo sguardo sospettoso di un vecchio che talvolta sembra una sgradevole maschera è la spia di questa trasformazione a seguito della quale è semplicemente molto più difficile vivere.
Corrispondente a questo processo è, come già s'è detto, il mutamento del rapporto con il tempo, un cambiamento che giustamente Simone de Beauvoir ha definito di "ottica":
La differenza radicale tra l'ottica del vecchio e quella del fanciullo o dell'adolescente, è che il primo ha scoperto la sua finitezza, mentre all'inizio della sua vita la ignorava: allora le possibilità che vedeva davanti a sé erano così molteplici e così vaghe, che gli apparivano illimitate; per accoglierle, l'avvenire nel quale le proiettava si dilatava all'infinito. [...] Il vecchio, invece, sa che la sua vita è fatta, e che non potrà rifarla. L'avvenire non è più gonfio di promesse, si contrae alla misura dell'essere finito che ha da viverlo5.
Non si tratta di una semplice modificazione della quantità di tempo da vivere ma del peso della possibilità: il giovane non è ancora determinato ed è inseparabile da questa sua indeterminazione, dalla possibilità di proiettarsi in una molteplicità di futuri; il vecchio sa chi è o chi è diventato, ha già compiuto il suo percorso e fatto le scelte necessarie. Può avere il desiderio di tornare indietro per rifare diversamente una o più scelte, ma la sua vita vera è già stata e quel desiderio rimane un sogno. Tale demarcazione non può esserci per il giovane per il quale le due vite sono ugualmente possibili, ugualmente reali ed ugualmente irreali, così come tante altre ancora. Ciò gli rende meno visibile la propria finitezza e lo costringe a convivere con un futuro che potrebbe essere bello come i nostri sogni migliori, ma anche brutto come i peggiori, verso il quale correre, dal quale scappare lontano.
Questo rapporto di apertura alle possibilità fa anche sì che le "illusioni" abbiano presa maggiore sui giovani: il male e il dolore sono estirpabili, è possibile un mondo dove esso sia assente o anche soltanto drasticamente ridotto. La proiezione nel futuro e l'assenza di finitezza permettono di porre tra le possibilità in campo anche quella di un futuro radicalmente altro rispetto al presente, dove la felicità che diserta sempre le nostre contrade e popola quelle altrui, che diserta il nostro tempo e ha popolato altri tempi, l'onestà che non caratterizza i nostri governanti ma quelli altrui, dove tutto ciò che non c'è possa finalmente esserci. E alla replica dell'anziano secondo cui queste non sono che "illusioni" il giovane risponde additando il "novum" del proprio tempo, con la convinzione di essere un Weltverbesserer, un miglioratore del mondo6.
A queste due età corrispondono rapporti diversi con il tempo anche da un altro punto di vista. Nell'infanzia il tempo scorre più lentamente. Dice Schopenhauer: «Nell'infanzia la novità di tutti gli oggetti e avvenimenti porta ognuno di essi alla coscienza: perciò la giornata è infinitamente lunga»'. Anche dopo l'infanzia per quanto inizi a subentrare un rapporto più sistematico e "razionale con il tempo" «le stagioni continuano a svolgersi con meravigliosa o terribile lentezza» (de Beauvoir)8. Questa strana condizione che fa sì che il nostro rapporto con il tempo sia come un cammino in salita (più lento) nella prima parte della vita e come una discesa sempre più veloce nella seconda, nasce dall'intreccio di diverse ragioni. Da un lato c'è la considerazione solo apparentemente banale che un anno per un bambino di cinque anni costituisce un quinto della vita e per un sessantenne una frazione di tempo dodici volte più piccola, dall'altro (ma probabilmente si tratta dello stesso fenomeno visto da un altro lato) c'è la circostanza, già accennata, che allorché tutto è nuovo e viene visto per la prima volta, ogni giorno è mille volte più denso di avvenimenti. Se per il vecchio ogni esperienza ormai arriva seconda e quando ormai la porta dell'attenzione è stata chiusa, per il giovane tutto è incredibilmente primo. Solo in parte la sua esperienza può essere surrogata dalle nozioni trasmessegli con l'educazione. Quest'ultima solo limitatamente, per nostra fortuna, può riparare il giovane dal rischio di sbagliare da solo:
il giovane istruito da' suoi studi, dall'educazione ecc. sulla natura degli uomini, e sulla diffidenza che bisogna sempre averne, sarà veramente impossibile, che quantunque persuaso di ciò, prima dell'esperienza, applichi queste teorie alle persone che lo circondano, ch'egli ha da gran tempo conosciute, ch'è avvezzo a riguardar come buone9.
Ciò che viene appreso come primo è per il giovane di straordinaria importanza: egli è talmente coinvolto nelle sue esperienze da non poterne avere distacco; il vecchio è colui che ormai non apprende più. Ragionando su quel pregiudizio etnocentrico che conduce i membri di una società a ritenere che solo la storia di quest'ultima possegga un senso e che solo in essa si siano dati eventi significativi per ogni uomo Claude Lévi-Strauss lo paragona a quell'illusione «che affligge i vecchi in seno alla loro propria società, e del resto anche gli oppositori di un nuovo regime. Trovandosi esclusi dagli affari per l'età o per ragioni politiche, hanno l'impressione che la storia dell'epoca in cui essi non sono più impegnati attivamente ristagni, a differenza dei giovani e dei militanti al potere, che vivono con fervore questo periodo ín cui per gli altri gli avvenimenti si sono per così dire immobilizzati»10.
C'è quindi anche un etnocentrismo dell'età dal quale ogni capacità di relativizzazione, anche quella presente in questo discorso, non ci può mai completamente emancipare dal momento che parliamo sempre da un'età e anche questo discorso non è fuori dal tempo di chi scrive.
Parlando del fenomeno delle "generazioni" Karl Mannheim ha guardato alla rilevanza di questo fenomeno da un'angolazione un po' diversa, ma proponendo un concetto, quello di "stratificazione dell'esperienza" che può tornare utile anche nel nostro contesto. «Le prime impressioni - osserva Mannheim - hanno la tendenza a fissarsi come concezione naturale del mondo. Pertanto ogni esperienza posteriore si orienta in base a questo gruppo di esperienze, sia che venga sentita come conferma e completamento di questo primo strato d'esperienze, sia che venga sentita come negazione ed antitesi dello stesso» 11. Siamo tutti soggetti a qualcosa di simile all'imprinting dell'ochetta Martina di Lorenz quando fissa a lungo, appena nata, con un solo occhio l'etologo che diviene sua madre o al bambino freudiano segnato per sempre da un trauma infantile. Il carattere inevitabilmente gerarchizzato delle esperienze fa sì che alcune arrivate prima divengano giudici di quelle successive e che con il passare del tempo si producano sempre meno eventi significativi e decisivi e vada cadendo la disponibilità ad apprendere. Accade così che la scoperta della propria finitezza che caratterizza l'ottica della vecchiaia coincide con il progressivo spegnersi della curiosità, con il dolore che ogni innovazione comporterebbe per una struttura rigida e ormai troppo lenta. Certo questo declino può essere visto anche come acquisizione di nuove facoltà, come causa di un nuovo rapporto con il mondo e costruzione di un nuovo ambiente: la scoperta della propria finitezza può essere vista contemporaneamente come raggiungimento della saggezza. Finalmente diviene possibile quell'equilibrio, che sembrava lontano ed illusorio allorché i piaceri corporali erano ancora frequenti e facilmente esperibili. Non si raggiunge solo adesso quella capacità di tacitare gli impulsi che aveva sempre disturbato l'obiettività della conoscenza? E solo consolatorio il De senectute di Cicerone e l'apologia della vecchiaia in esso contenuta è solo un motivo culturale o di classe? Certo anche questo (torneremo successivamente su questo problema) e soprattutto questo, ma non solo questo. La vecchiaia è insieme la chiusura a nuove esperienze e la saggezza. Non è forse quest'ultima sempre fondata sull'idea (del tutto infondata) che l'esperienza di una vita (di quella del saggio) possa permettere (a quest'ultimo) di lasciare precetti anche per il futuro e quindi per un'epoca di cui non si sa nulla? Tali precetti potrebbero essere utili solo a condizione che l'esperienza condotta dal saggio fosse ritenuta capace di contenere dentro di sé tutte le esperienze possibili: ma non è proprio questo il pregiudizio etnocentrico della vecchiaia? L'idea di potere conoscere l'essenza del mondo definitivamente non contiene in sé qualcosa di simile alla vendetta del vecchio nei riguardi del futuro? Perché la vita dovrebbe mostrare il suo significato solo al tramonto, per di più di un giorno qualsiasi imprigionando in esso tutti i nuovi mattini e i nuovi giorni? D'altra parte come non vedere in questa resistenza del vecchio anche un antidoto contro la retorica di chi vive il nuovo ed il presente senza distacco? Come non capire che l'utilità della vecchiaia sta proprio nella dissonanza con l'oggi prodotta dall'attaccamento ad una vecchia gioventù?
L'etnocentrismo o la metafisica della gioventù sta d'altra parte proprio nel rifiuto dell'esperienza" dell'adulto. Così Benjamin: «La nostra lotta per divenire responsabili la combattiamo contro un essere mascherato. La maschera dell'adulto si chiama esperienza. È inespressiva, impenetrabile, sempre la stessa. Quest'adulto ha già vissuto tutto: gioventù, ideali, speranze, la donna. Tutte illusioni. Ne siamo spesso intimiditi e amareggiati. Forse ha ragione. Che dobbiamo rispondergli? Non abbiamo esperienza»12.
Lungi dall'essere una dote l'esperienza dell'adulto è capace solo di insegnare l'insensatezza della vita, «l'inutilità dell'aspirare a cose grandi, nuove, future». Tutto ciò fa dell'adulto un filisteo che «conosce solo l'esperienza e nient'altro» e «non ha mai compreso che oltre l'esperienza c'è qualcos'altro, ci sono valori - inesperibili - al servizio dei quali noi siamo». La differenza è quella tra chi cerca e chi ormai si è arreso e si è rassegnato, tra chi è capace di sentire la voce dello spirito che chiama a «cose grandi, nuove, future» e chi invece passa gran parte della sua vita ad «odiare i sogni della sua giovinezza» e cerca continuamente di rassicurarsi per il tramite dell'esperienza che la voce dello spirito che un giorno chiamò anche lui era solo uno di quei sogni. Per il giovane e per l'adulto l'errore assume un significato del tutto opposto: «Chi è spensierato si tranquillizza nell'errore. "Non troverai mai la verità", grida a chi cerca, "Lo so per esperienza". Ma per chi cerca, l'errore è solo un ulteriore aiuto per raggiungere la verità (Spinoza). Priva di senso e senza spirito l'esperienza lo è solo per coloro che mancano di spirito. Per chi si accanisce a cercare, l'esperienza potrà forse essere dolorosa, ma non lo lascerà mai nella disperazione»13. C'è quindi una lotta tra l'adulto e il giovane sul senso da dare agli eventi: il primo tenderà a banalizzarli per rassicurarsi sulla propria banalità, il secondo li assumerà sempre ín un contesto nel quale è possibile avvertire la voce dello spirito. Ma è anche una lotta tra uomini diversi, tra coloro che hanno ceduto divenendo adulti e coloro che vogliono restare giovani e tentano di mantenere viva quella forma dell'esperienza". C'è quindi una chance che consente di forzare il condizionamento che viene dall'età, e il problema di Benjamin è il contrario del problema della saggezza: mentre il saggio è colui che è capace di anticipare il più possibile il sapere dell'età adulta e della vecchiaia, è giovane colui che riesce a resistere il più possibile al fascino discreto della "maturità". L'indignazione al fondo richiede un'assenza di saggezza, una mancanza di significato delle spiegazioni di un fenomeno, una condizione molto vicina allo stupore, alla sorpresa, all'orrore. Perché essa si produca occorre che si rovesci la condizione della massima leopardiana precedentemente ricordata e che il mondo ci si configuri come abitato da uomini miseri "per accidente" e propensi a credersi miseri "per necessità". La metafisica della gioventù, il suo etnocentrismo richiede che si pensi che la condizione umana finalmente sia modificabile, che da essa si possa fare esodo marciando verso la terra promessa. L'esperienza filistea ritiene il mondo sostanzialmente immodificabile oppure modificabile "a spizzico" 14, solo con mille cauti, laici e razionali accorgimenti; essa ha dimenticato la critica.
La massima ciceroniana ripresa da Montaigne «filosofare è imparare a morire» teme la passione del cambiamento: se il vecchio è colui che ha scoperto la sua finitezza e filosofare è prepararsi alla morte, la filosofia tenta di anticipare nei limiti del possibile la vecchiaia e l'età più antifilosofica dovrebbe essere la gioventù. Qui infatti proprio perché non si accetta la trasmissione dell'esperienza, perché «ognuno sperimenta solo se stesso», non si produce l'esperienza della propria finitezza. Non è un caso che nel 1938 Horkheimer abbia dedicato un saggio durissimo 15 a Montaigne e che alla vigilia di grandi orrori la «metafisica della gioventù» contenuta nella teoria critica si sia scontrata con la «metafisica della vecchiaia» personificata dalla saggezza scettica. Lo scritto di Horkheimer è profondamente ingiusto perché riduce all'accomodamento con l'esistente la nozione di "esperienza" in Montaigne che non esclude mai che un nuovo evento possa arricchirla: troppo forte è il peso del caso e della fortuna in Montaigne perché lo si possa chiudere nell'esperienza del "filisteo" che aspetta soltanto che il mondo confermi la sua morte interiore17. Nonostante ciò e al di là dei contenuti metaforici attribuiti alle diverse età dagli autori citati, ciò che ci rimane è la diversità delle forme della loro esperienza, il colore e lo spessore diverso delle rispettive bolle di sapone.
Tra questi due estremi si estende l'età adulta che qualcuno vede più prossima alla vecchiaia e altri come più autonoma, come dotata di una propria forma d'esperienza. Certo è che tale condizione non è esperibile senza il prodursi di una distanza dalla gioventù, senza un minimo di storicizzazione, di relativizzazione della assolutezza di essa, della sua metafisica. E la sperimentazione della finitezza, ma non ancora nella forma acuta e dolorosa della vecchiaia, bensì nella forma caratteristica di un'età in cui non tutti i giochi sono fatti, ma anzi si gioca la fase decisiva della partita. La distanza è necessaria («Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani?»)17 ma non sufficiente. Occorre saper manipolare il mondo, occorre aver imparato dove finiscono le illusioni senza cadere nella rassegnazione. Molto spesso questo vuol dire semplicemente che si cerca di sopravvivere agli altri rovesciando su di essi la nostra finitezza, tentando di far più grande la nostra figura rispetto a quella degli altri. Si può diventare ricco, potente o celebre: «Il ricco raccoglie mucchi e branchi. Ad essi equivale il denaro. Non gli importa raccogliere uomini: gli basta poterli comprare. Il potente raccoglie uomini. Mucchi e branchi non lo interessano, a meno che non gli servano per procurarsi uomini. [...] Il celebre raccoglie cori. Egli vuole soltanto udire da loro il proprio nome»18. Un sogno di immortalità è costitutivo della metafisica della gioventù; ciò che ad esso aggiunge l'età adulta grazie all'accresciuta consapevolezza della finitezza è la più o meno forte coscienza del carattere particolaristico della realizzazione del sogno. «Un vecchio - dice Simone de Beauvoir - è qualcuno che ha molti morti dietro di sé»19. Un adulto quando vince sopravvive a molti, come ci insegna Canetti20.
Ma l'età adulta è anche capacità di recitare i ruoli, di ingannare, di simulare apparendo altro da ciò che si è diversamente da quanto fanno il giovane e il vecchio. Questi ultimi avvertono in qualche forma questa maturità, questa doppiezza dell'adulto allorché quest'ultimo commenta con i suoi coetanei le "stranezze" infantili o senili. Di fronte ad un adulto un giovane o un vecchio hanno sempre il sospetto che il primo sia "doppio", come quegli attori che ogni tanto si rivolgono al pubblico per commentare la situazione rappresentata in scena. Questa facoltà che appartiene alla maturità di concepire molteplici livelli di realtà può condurre ad un aumento della capacità di manipolazione e ad un filisteismo diverso, ma non lontano da quello denunciato da Benjamin. La maturità può essere terribile e volgare quando di fronte a gioventù e vecchiaia si riesca solo a sorridere, in un circuito continuo tra esorcismo e volontà di accrescimento e sopravvivenza. Ma l'età adulta può essere invidiabile allorché riesce a convivere con dignità con il suo prima e con il suo poi: «Gli uomini debbono sopportare le pene per uscire da questo mondo come quelle per venirci. La maturità è tutto. Avanti!»21.
(Franco Cassano, Approssimazioni, Il Mulino 1989, pp. 53-63)
Note
1 G. Leopardi, Pensieri, Milano, Adelphi, 1982, XXXIX, pp. 44-45.
2 Ibidem, XXXI e XXX, p. 37.
3 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, n. 4070, Milano, Mondadori, 1980, p. 1069.
4 G. Leopardi, Pensieri, cit., XXXI, p. 38.
5 S. de Beauvoir, La terza età, Torino, Einaudi, 1971, p. 349.
6 L'espressione è di H. Hesse, Il miglioratore del mondo, Roma, Newton Compton, 1984.
7 A. Schopenhauer, Aforismi sulla saggezza del vivere, Milano, Mondadori, 1987, p. 232.
8 S. de Beauvoir, La terza età, cit., p. 347.
9 G. Leopardi, Zibaldone, cit., n. 1867-68, pp. 675-676.
10 C. Lévi-Strauss, Lo sguardo da lontano. Antropologia, cultura, scienza a raffronto, Torino, Einaudi, 1984, p. 13.
11 K. Mannheim, Sociologia della conoscenza, a cura di Paul Kecskemeti, Bari, Dedalo, 1974, p. 347.
12 W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, Torino, Einaudi, 1982, p. 64.
13 Ibidem, p. 65.
14 L'espressione (piecemeal tinkering) è di Popper ed è stata da lui coniata in occasione della famosa polemica contro l'ideologia "olistica" dello storicismo (K.R. Popper, Miseria dello storicismo, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 63-72).
15 M. Horkheimer, Montaigne e la funzione dello scetticismo, in Teoria critica. Scritti 1932-1941, Torino, Einaudi, 1974, vol. II, pp. 196-253.
16 Si veda lo splendido studio di J. Starobinski, Montaigne. Il paradosso dell'apparenza, Bologna, Il Mulino, 1984, particolarmente il cap. VII, pp. 309-386.
17 A. Busi, Seminario sulla gioventù, Milano, Adelphi, 1984, p. 11.
18 E. Canetti, Massa e potere, Milano, Adelphi, 1981, p. 482.
19 S. de Beauvoir, La terza età, cit., p. 340.
20 E. Canetti, Potere e sopravvivenza. Saggi, Milano, Adelphi, 1974.
21 W. Shakespeare, Re Lear, Milano, Garzanti, 1981, pp. 384-385.