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    La Pasqua ebraica

    e quella cristiana

    Oscar Battaglia

    pesah-pasqua

    L’etimologia del nome

    Siamo talmente abituati ad usare certe parole di uso comune, che non ci domandiamo più che cosa significhino. Una di queste è la parola «Pasqua», che in ebraico suona «Pesah» (פםח), e in greco e in latino: «Pascha». Il termine ricorre la prima volta nel testo che racconta la sua istituzione nel Libro dell’Esodo al Cap. 12. Eccolo:

    “1 Il Signore disse a Mosè e ad Aronne in terra d’Egitto: 2 «Questo mese (Nisan) sarà per voi l'inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell'anno.3 Parlate a tutta la comunità di Israele e dite: Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. 4 Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, al più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l'agnello, secondo quanto ciascuno può mangiarne. 5 Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell'anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre 6 e lo serberete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l'assemblea della comunità d'Israele lo immolerà al tramonto. 7 Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull'architrave delle case, nelle quali lo mangeranno. 8 In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. 9 Non lo mangerete crudo, né bollito nell'acqua, ma solo arrostito al fuoco con la testa, le gambe e le viscere. 10 Non ne dovete far avanzare fino al mattino: quello che al mattino sarà avanzato lo brucerete nel fuoco.

    11 Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore! 12 In quella notte io passerò per la terra d'Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d'Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell'Egitto. Io sono il Signore! 13 Il sangue sulle vostre case deve vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre(pasah); non vi sarà tra voi flagello di sterminio, quando io colpirò il paese d'Egitto. 14 Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne. 15 Per sette giorni voi mangerete azzimi. 22 Prenderete un fascio di issopo, lo intingerete nel sangue che sarà nel catino e spruzzerete l'architrave e gli stipiti con il sangue del catino. 23 Il Signore passerà per colpire l'Egitto, vedrà il sangue sull'architrave e sugli stipiti: allora il Signore passerà oltre (pasah) la porta e non permetterà allo sterminatore di entrare nella vostra casa per colpire»” (Es.12,1-23).

    «PASQUA» (Pesah) ha un doppio significato contenuto nella sua radice : il significato di «passare oltre» (saltare) e il significato di «ostacolare, impedire» (difendere). I due significati sono correlati: quando si incontra un ostacolo si cerca di saltarlo o aggirarlo per passare oltre. Il sangue che fu posto sulla porta di casa serviva da segno e da difesa: ostacolava l’ingresso nella casa dello sterminatore, come strumento di punizione di Dio, e gli indicava che doveva passare oltre senza causare danno.

    Dal punto di vista celebrativo il termine venne a significare «il passaggio salvifico» di Dio per la liberazione del suo popolo dalla schiavitù egiziana. Era il giorno di festa più grande del popolo ebreo, la festa della sua liberazione. Un memoriale da celebrare per tutte le generazioni come ringraziamento e come monito. Ogni israelita si sentiva coinvolto in prima persona da quella liberazione, era come se si fosse trovato là in quel tempo. Era però messo in guardia da ogni tipo schiavitù, specie quella del peccato. La via giusta della libertà era segnata dai dieci comandamenti che Dio gli consegnò al Monte Sinai, quando ormai l’Egitto era un lontano e brutto ricordo.


    La fusione di dure tradizioni ancestrali

    Il rito della festa descritto dal testo di Esodo prevedeva una cena a base di agnello e di pane azzimo. Questi due elementi ci riportano alla duplice fisionomia del popolo d’Israele, popolo di pastori e di contadini. L’agnello richiamava la loro origine di pastori nomadi, il pane richiamava la loro condizione di contadini ormai sedentarizzati. Nella pasqua si sono dunque fuse due tradizioni: quella nomade e quella contadina, ormai assimilate dall’intero popolo di Dio. Ambedue le categorie celebravano la loro festa in primavera e la legavano alla luna piena del primo mese dell’anno, che era un anno lunare di 360 giorni. Il tempo era scandito dalle fasi lunari sia per i pastori che per i contadini.

    I pastori nomadi celebravano la festa della transumanza, quando spostavano i loro greggi dai pascoli invernali a quelli primaverili. Nell’occasione offrivano al loro dio (per i nomadi era proprio il dio-Sin, il dio-Luna) un sacrificio e gli immolavano un agnello nato nell’anno. Col suo sangue i pastori bagnano l’ingresso delle loro tende e imbandivano le sue carni arrostite in un banchetto sacro di comunione con la divinità. Tutto questo come segno di propiziazione; chiedevano al dio la protezione e la fecondità del gregge.

    I contadini sedentari celebravano per sette giorni la festa del pane azzimo, cioè il pane nuovo confezionato con il primo raccolto dell’orzo che a primavere era già maturato. Lo scopo era lo stesso dei nomadi: chiedere la protezione sui raccolti e la fecondità dei campi coltivati. Il pane azzimo indicava lo stacco dal raccolto dell’anno precedente con l’eliminazione del lievito come residuo della pasta vecchia. Tutto doveva essere nuovo e puro, un vero inizio di vita come nella primavera e nell’anno appena iniziato.

    C’era una novità: gli ebrei erano monoteisti, non veneravano gli astri, ma il Dio che li aveva liberati dalla schiavitù nel tempo in cui le due tradizioni, quella nomade e quella sedentaria, si erano fuse in terra egiziana. Giacobbe e la sua famiglia erano entrati in Egitto come pastori, nella regione di Goshen, nel delta orientale del Nilo, ma presto dovettero adattarsi anche alla coltivazione della terra irrigua e feconda di quella zona. Ormai erano pastori e contadini, perciò avevano unito le due feste tradizionali di primavera.

    Quando gli ebrei uscirono dall’Egitto la festa agricolo-pastorale assunse un significato storico commemorativo nuovo: Divenne la commemorazione della straordinaria liberazione nazionale. Gli elementi del pasto sacro assunsero allora significato particolare: L’agnello con il suo sangue divenne segno di liberazione e di riscatto, le sue carni divennero nutrimento e sostegno per il viaggio verso la libertà. Il pane azzimo significò la fretta della partenza che non consentì di far fermentare la pasta, ma divenne anche il segno dell’afflizione e della povertà sofferta nella schiavitù. Così la descrive il Deuteronomio: «Con la vittima non mangerai pane lievitato; con essa per sette giorni mangerai gli azzimi, pane di afflizione, perché sei uscito in fretta dalla terra d’Egitto» (Dt 16,3). Le erbe amare, cioè le cicoriacee, che crescono in primavera ed erano l’usuale contorno del pasto primaverile, passarono ad indicare l’amarezza dell’esilio e della schiavitù.

    La festa con il pasto sacro si celebrava al sopraggiungere della notte, quando nasceva all’orizzonte la luna piena. Essa consentiva ai nomadi e ai contadini di aver un supplemento di luce per la loro festa all’aperto. La luce lunare piena consentì la partenza notturna dell’inero popolo ebraico dall’Egitto, che assunse l’aspetto di una fuga. Fu una notte di veglia e di libertà ritrovata. La mistica ebraica l’ha annoverata tra le quattro notti del decisivo intervento di Dio nella storia. Ne parlano i Targumin, che erano traduzioni e spiegazioni in lingua aramaica dei testi ebraici di lettura sinagogale. Il Targum Neofiti I descrive così le quattro notti sacre:

    «Questa è la notte predestinata e preparata per la liberazione nel nome di Jhwh (Adonai) per l’uscita dei figli d’Israele liberati dalla terra d’Egitto. Quattro notti sono state iscritte nel libro delle memorie: La prima notte fu quella in cui Adonai apparve sul mondo per crearlo: il mondo era deserto e vuoto e le tenebre ricoprivano l’abisso: La Parola di Dio fu luce e illuminò la notte: Sia fatta la luce! E la luce fu (Gn 1,2-3). E la chiamò la prima notte.

    La seconda notte fu quando Adonai apparve ad Abramo all’età di cento anni, e Sara sua moglie ne aveva novanta, perché si compisse ciò che dice la Scrittura: ″Abramo all’età di cento anni potrà generare e Sara all’età di novantenni potrà concepire?″ (Gn 17,7) (Dio condusse il patriarca fuori della sua tenda, lo invitò a guardare il cielo stellato e gli disse: ″Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle; e soggiunse: Tale sarà la tua discendenza″. Gn 15,5 a cui si aggiunse anche Gn 17,5= L’alleanza con Abramo)» . Nel Targum Neofiti si aggiunge il ricordo del sacrificio di Isacco sul monte Moria, dove più tardi sorgerà il Tempio di Salomone. Isacco, secondo la tradizione, doveva esser immolato il 15 di Nisan, il giorno della futura pasqua ebraica, ma Dio lo sostituì all’ultimo istante con un ariete, cioè un agnello, appunto quello pasquale (Gn 22,12s). Ecco il testo: «Isacco aveva 37 anni quando fu offerto sull’altare; i cieli discesero e si abbassarono e Isacco vide la perfezione e i suoi occhi rimasero abbagliati per le loro perfezioni. E la chiamò notte seconda»

    Con questa commemorazione si introdusse nella Pasqua un significato sacrificale che all’origine non aveva. Assunse così valore di sacrificio l’uccisione dell’agnello nel Tempio e l’aspersione dell’altare con il suo sangue. Si rilesse in senso sacrificale il sangue posto dagli ebrei sugli stipiti e sull’architrave delle case al tempo dell’esodo: Quel sangue aveva riscattato il popolo. Anche la scelta dell’agnello il 10 del mese di Nisan ebbe un significato espiatorio perché messo in relazione con la festa del Kippur il 10 del settimo mese, di Nisan. Proprio questi riferimenti hanno consentito a Gesù di inserire nella cena pasquale il memoriale della sua passione e morte, col suo corpo donato e col suo sangue versato.

    «La terza notte fu quando Adonai si manifestò contro gli egiziani nel mezzo della notte (Es 12,29e Sap 18,14-16: ″Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua Parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriere implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando come spada affilata il tuo decreto irrevocabile e, fermatasi, riempì tutto di morte; toccava il cielo e aveva i piedi sulla terra″). La sua mano uccideva i primogeniti degli egiziani e la sua destra proteggeva i primogeniti d’Israel, per compiere la parola della Scrittura: Mio figlio primogenito è Israele (Es 4,22). E la chiamò notte terza.

    Questa era la notte centrale, quella che aveva dato origine alla festa di Pasqua con il suo cerimoniale. Durante la cena commemorativa, il padre di famiglia raccontava ai figli e ai familiari gli eventi della fine della schiavitù egiziana con i 10 miracoli compiuti da Dio per mano di Mosè, il passaggio del Mare dei Giunchi, il cammino nel deserto fino al Monte Sinai. Il racconto era alternato dal canto dei Salmi che esaltavano l’intervento provvidenziale di Dio.

    Prosegue il Targum: «La quarta notte sarà quando il mondo, giunto alla sua fine, sarà dissolto. I gioghi di ferro saranno spezzati e le generazioni dell’empietà annientate. E Mosè uscirà dal deserto... E’ la notte della Pasqua per il nome di Adonai: notte fissata e riservata per la salvezza di tutte le generazioni d’Israele»

    Questa quarta notte descriveva in anticipo la venuta del Messia che avrebbe messo fine alla dominazione straniera d’Israele e avrebbe fondato il regno di Dio in terra. La venuta del Messia sarebbe stata annunciata dal profeta Elia, che era stato rapito in cielo per essere rinviato proprio nella notte di Pasqua. Il profeta Malachia (3,1.23-24) ricordava: ″Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate; l'angelo dell'alleanza, che voi sospirate, ecco viene, dice il Signore degli eserciti. Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore, perché converta il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri; così che io venendo non colpisca il paese con lo sterminio″. Le famiglie ebree riservano per lui una sedia vuota nella cena pasquale. Per noi cristiani, l’annuncio di quella quarta notte è divenuto realtà con la notte di Natale e con quella di Pasqua, due notti di veglia che segnano l’inizio e la fine della vita di Gesù.


    La cena pasquale ebraica

    La cena pasquale descritta dal testo dell’Esodo rispecchia l’ambiente arcaico delle origini: L’agnello veniva ucciso e «arrostito con le testa, le zampe e le interiora», il 14 di Nisan al tramonto del sole: Subito iniziava il pasto con un particolare rito. L’agnello doveva essere mangiato in tenuta da viaggio: «In piedi, con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano, in fretta» (Es 12,11). Quando però gli ebrei si stabilirono nella terra promessa ed ebbero edificato il tempio, il rito mutò. La Pasqua si celebrava solo a Gerusalemme oppure negli immediati dintorni, infatti gli agnelli erano sacrificati nel recinto del Tempio e non potevano essere trasportati lontano dalla città, perché iniziava subito il riposo sabbatico che proibiva di percorrere più di due miglia. Non si poteva andare oltre il Monte degli Ulivi. La cena sacra poi si doveva mangiare in casa con i membri della famiglia o del gruppo. Era una festa familiare che conserva questa sua caratteristica ancora oggi tra gli ebrei.

    Il 14 del primo mese, il mese di Nisan, al pomeriggio, si portavano gli agnelli nel Tempio. Qui venivano scannati e preparati dai singoli proprietari. I sacerdoti si limitavano a raccogliere il sangue in catini che poi versavano ai pied dell’altare. Gli animali macellati e depilati (si toglieva la lana non la pelle) venivano portati a casa e arrostiti in strada, in piazza o nei cortili delle abitazioni. Quando le carni erano arrostite gli invitati si trasferivano all’interno di casa, in una stanza addobbata con tappeti e cuscini (i più ricchi avevano i triclini). I commensali si sdraiavano sul fianco sinistro in circolo intorno ad un desco, dove erano deposti gli ingredienti alla portata di tutti. Si cenava da uomini liberi e sovrani con le comodità che la casa offriva; non più quindi in tenuta da viaggio e con la fretta di chi deve fuggire.

    Gli ingredienti della cena si erano accresciuti rispetto alle origini: C’era l’agnello che si mangiava senza spezzargli le ossa, ma solo slogandole; c’erano le focacce di pane azzimo e le erbe amare come in antico. Si era aggiunto sopratutto il vino, bevuto in quattro momenti successivi della cena, in segno di allegria e di festa; c’era inoltre «il caroset», un impasto di mele grattugiate, di noci tritate e di miele, che stava a significare l’impasto dei mattoni confezionati durante la schiavitù; c’era infine il racconto dell’esodo fatta dal capofamiglia dopo aver spezzato la focaccia azzima. La cena durava tutta la notte, fino a quando qualcuno non annunciava che l’alba era imminente. C’era tutto il tempo per stare insieme e per conversare specialmente sul tema della festa.

     

    La pasqua cristiana

    Questa fu la cena che celebrò Gesù con i suoi discepoli la vigilia della sua passione narrata sinteticamente dal vangelo di Marco in questi termini (14,12-25):

    «Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza in cui io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

    Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici .Ora, mentre erano a tavola e mangiavano Gesù prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza che è versato per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio».

    Così iniziò la Pasqua cristiana inserita nella Pasqua ebraica. Il racconto è scarno, come nello stile dell’evangelista Marco, ma fa risaltare alcuni elementi essenziali. Innanzi tutto è evidente l’atmosfera di segretezza che circonda il luogo della cena. Gesù non voleva sorprese in quella sera di intimità da trascorrere con i suoi dodici seguaci più stretti. Sapeva che Giuda avrebbe potuto segnalare al Sinedrio il luogo di raccolta a due passi dalla casa di Caifa, e così sarebbe stato più facile arrestare Gesù nel chiuso di una casa senza dare troppo nell’occhio. Nemmeno i due incaricati (Pietro e Giovanni, secondo Lc 22,8) sapevano fino all’ultimo dove si trova la casa per la cena comune, lo appresero da quel misterioso uomo con la brocca, che incontrarono alla fonte di Siloe e che fece loro da guida. Attingere acqua era mestiere da donne e un uomo con la brocca era una rara eccezione, facilmente riconoscibile.

    La cena pasquale iniziava con la lavanda delle mani: I commensali si passavano un catino nel quale si lavavano la mani: Gesù modificò questo rito iniziale, chinandosi a lavare i piedi agli apostoli in segno di umiliazione e di servizio: «Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15). Da qui iniziò il cambiamento dei riti: «La Legge divenne Verbo, il vecchio divenne nuovo, il tipo divenne realtà, l’agnello divenne il Figlio», cantava Melitone (Pascha 7). La cena cambiò segno e divenne rito cristiano che sarà celebrato nella Chiesa fino alla fine dei secoli.

    Ecco la novità centrale: Al momento in cui il capofamiglia spezzava il pane azzimo e dava così inizio al pasto, Gesù prese in mano l’azzima, recitò la preghiera di benedizione a Dio, che nutre col pane gli uomini (″Benedetto dei tu, Signore Dio nostro, re del mondo che fai uscire il pane dalla terra″) la spezzò e la distribuì a tutti dicendo: «Questo è il mio corpo», cioè «questo sono io». Parole misteriose che hanno significato sacrificale: quel pane è il corpo di carne di Cristo che sarà immolato tra poco sulla croce per la vita del mondo. Questa indicazione è precisata poco dopo nell’offerta del vino (″Bendetto sei tu, Signore Dio nostro, re del mondo e creatore della vite″) della terza coppa, quella che concludeva il pasto prime dei canti e dell’augurio finali: «Questo è il mio sangue dell’alleanza che è versato per tutti».

    Le parole ci rimandano alla crocifissione, quando Gesù diventa realmente l’agnello pasquale immolato per togliere i peccati del mondo. Forse per questo motivo nei racconti della cena non si parla di agnello, anche se dovette essere presente come richiesto dal rito (Lc 22,15: ″ho tanto desiderato mangiare questa pasqua (agnello pasquale) con voi, prima della mia passione″). I Sinottici parlano di corpo offerto e di sangue versato, ma Giovanni, che ha presentato, per bocca del Battista, Gesù come «Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29) ci descrive così la morte di Gesù in croce: «Gesù, chinato il capo consegnò lo spirito. Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato - era infatti un giorno solenne quel sabato -, chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all'altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe,ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso (Es.12,46). E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (Gv 19,32-37).

    Questo racconto di Giovanni costringe a domandarsi in che giorno Gesù mangiò la Pasqua con i discepoli. Non certo il giorno fissato dalla liturgia del Tempio (Scribi e sacerdoti di Gerusalemme). La cena ufficiale era infatti celebrata il giorno della morte di Cristo, il 14 di Nisan che quel giorno cadeva di venerdì. Gesù quella sera era già nel sepolcro. Chiaramente la cena fu da lui anticipata. Giovanni ci fa sapere che le autorità giudaiche, quando condussero Gesù da Pilato «non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (18,28). Dopo la crocifissione le stesse autorità chiesero a Pilato di togliere in fretta dalla croce i cadaveri per non contaminare il solenne giorno di festa che cadeva di Sabato. C’è chi ha pensato che Gesù abbia celebrato la cena secondo un antico calendario solare in uso ancora a Qumran e in alcuni circoli religiosi della capitale; se n’è trovato notizia in un documento della grotta n. 4 (Q4). Tale calendario prevedeva 364 giorni diversamente da quello lunare di 360 giorni), i giorni settimanali delle feste erano fissi non mobili: La Pasqua, il 15 di Nisan, cadeva sempre di mercoledì e la cena si celebrava il martedì sera, il 14 di Nisan. In questo caso l’agnello della cena era sacrificato nel tempio, ma con cerimonia privata e poi mangiato in casa. Questa doppia celebrazione pasquale consentiva di alleggerire l’affollamento causato in città dai moti pellegrini ai quali era difficile trovare una stanza libera nella stessa sera. Consente anche di distribuire meglio gli eventi della passione concentrati altrimenti in poche ore del mattino. La legislazione rabbinica prevedeva un giorno di pausa tra la discussione di una causa a la condanna, per consentire ai giudici di riflettere meglio su quanto dovevano decidere. La Chiesa antica ha concentrato gli eventi per necessità di celebrazione: non si poteva chiedere ai fedeli, che lavoravano, di far festa per troppi giorni in una settimana. Dovevano pur lavorare per vivere.

    Tutto ciò diventa più bello e significativo: Nell’ora in cui nel Tempio iniziava la mattanza degli agnelli, Gesù veniva inchiodato alla croce e vi moriva, Agnello di Dio sacrificato per tutti in remissione dei peccati. Il suo corpo donato nella cena sotto il segno del pane azzimo era la sua carne immolata per tutti; il sangue offerto attraverso il segno del vino era quello della Nuova Alleanza tra Dio e gli uomini.

    Gesù, nuovo Agnello, nella cena, non offriva però il suo cadavere, ma se stesso vivo, risorto, sia pure con i segni della passione. La Pasqua è pasqua di croce e di risurrezione insieme. Alla risurrezione allude Gesù nella cena quando dice: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione, perché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel Regno di Dio» (Lc 22,16). Quel compimento arriverà con la sua risurrezione, quando Gesù risorto mangerà più volte con i suoi discepoli in segno chiaro di vita ritrovata (Lc 24,41; Gv 21,9-14;): ″Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti″ (At 10,41).

    Quel banchetto pasquale continua ancora perché Gesù aveva comandato, durante la cena: «Fate questo in memoria di me. Fate questo ogni volta che ne berrete, in memoria di me» (Lc 22,19; 1 Cor 11,24-25). A Corinto, già nel 52, si celebrava la sacra cena introdotta da Paolo come sacramento-memoriale della Pasqua di Gesù e ricordata così: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga » (1 Cor 11,23-26).

    La Pasqua è la festa più grande per noi cristiani come lo fu per gli Ebrei. La sua importanza e il suo valore è tale che la ricordiamo ogni giorno nella Messa, ogni Domenica con la liturgia settimanale e ogni anno con la festa più solenne. Ogni credente non può fare a meno di domandarsi perché Gesù si è immolato come agnello pasquale per noi. La risposta è duplice: Prima di tutto l’evento salvifico è frutto dell’amore di Dio che lo ha programmato dall’eternità: «Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito, perché chi crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,16). In secondo luogo c’è il fatto che Gesù «non ci amato per scherzo» come diceva lui stesso a S. Anela da Foligno: « Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). La Pasqua nasce dall’unione di questo duplice amore fuso nel cuore di Cristo: l’amore di Dio e di Gesù per il mondo da purificare dal male. E’ la novità cristiana che combacia con la primavera quando il creato riprende vita. E’ la primavera di Dio che accende ogni anno la nostra speranza.


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