Carmine Di Sante
(NPG 2005-01-37)
L’ottava parola fondativa dell’umano proibisce il furto, l’appropriazione indebita di ciò che è di un altro e che, per questo, non può essere trasferito all’io.
È nota la tesi di Marx per la quale alla radice dell’alienazione umana c’è la divisione del mondo in classi contrapposte che da sempre avrebbero lacerato la storia umana, come scrive nel celebre Manifesto del partito comunista del 1848 che infiammò e mobilitò le masse operaie europee: “La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente, ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta”.
Alla base di questo antagonismo tra le due classi, rappresentate nell’epoca di Marx dalla borghesia e dal proletariato, l’una ricca di tutti i mezzi di produzione l’altra solo della propria prole, il filosofo tedesco vede all’opera la volontà di appropriazione e di dominio da parte dei primi che, trasformata in “ragione” come ragione universale e in “diritti” come diritti naturali, si vive come innocenza e si occulta come violenza, producendo all’infinito ingiustizia e sofferenza, se non fosse smascherata e contrastata con l’atto rivoluzionario. Nell’individuare nella volontà di appropriazione la radice dell’alienazione, Marx coglie un aspetto che è il testo biblico ad evidenziare e che alle sue orecchie di ebreo suonava probabilmente familiare.
Ma a differenza del pensatore tedesco per il quale la volontà di appropriazione infetta solo la classe sociale dei “liberi”, dei “patrizi”, dei “baroni”, cioè dei “borghesi” oppressori degli “schiavi”, dei “plebei”, dei “servi della gleba”, cioè dei “proletari”, per il racconto biblico essa colpisce e devasta, come un cancro, tutte le classi sociali, dalle più abbienti alle meno abbienti fino ai nullatenenti. E – differenza ancora più radicale che rispetto a Marx costituisce la vera differenza – prima che le classi sociali come organismi collettivi, la volontà di appropriazione inficia e inquina la soggettività umana in quanto tale, prima e indipendentemente dall’essere appartenenti ad una classe: “Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo” (Mc 7, 21-23).
Prima ancora che sul palcoscenico della storia divisa in generi (“maschi” e “femmine”), categorie (oratores, bellatores, laboratores) e classi sociali (“borghesi” e “proletari”), per Gesù è nel “cuore” di ogni singolo uomo e di ogni singola donna che si gioca il senso dell’esistenza come decisione tra il bene e il male, per cui l’alienazione umana come volontà di appropriazione causa di tutti i mali (“furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza”) non è caratteristica solo di alcune classi ma di ogni classe, anche se in particolari classi può trovare e di fatto trova storicamente – e questa è la lezione perenne del marxismo – una sua configurazione ideologicamente strutturata e legittimata da apparire acriticamente astorica e naturale. Ma per quanto la struttura alienata possa alienare la coscienza del soggetto (nessuno dopo Marx e dopo Freud può essere così ingenuo da negarlo), per il testo evangelico resta comunque sempre la trascendenza del soggettivo sull’oggettivo; e la struttura – sia questa borghese, capitalistica, tecnologica. massmediatica o consumistica – prima che causa di alienazione delle coscienze umane, ne è l’oggettivazione in cui si concretizza e si visibilizza. Per questo, per la bibbia, l’alienazione inerisce in primo luogo al “cuore”, alla soggettività dell’io, alla sua singolarità irriducibile alla cui decisione è affidata la sua vita e la sua morte, la sua stessa alienazione o la sua stessa liberazione: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” (Dt 30,15).
L’alienazione come volontà di appropriazione consiste, per la bibbia, nella costituzione dell’io come io “proprietario”, l’io che si appropria dell’inappropriabile e così nega il suo statuto di creatura alla quale è dato tutto gratis. Il racconto del peccato di Adam, che segue subito all’evento creatore, è il racconto dell’impossibile appropriazione di ciò che non proviene dall’io ma è per l’io e che l’io può solo assumere rinunciando alla logica del possesso e aprendosi a quella della riconoscenza: “Chi è Adamo? È colui che si fa sedurre dalla pretesa di essere come Dio (Gn 3,4), è colui che si fa ingannare da un immaginario discorso che, in nome della propria dignità e autonomia, nega la differenza radicale tra il Creatore e la creatura. Adamo è l’essere che non vuole essere originato, è il figlio che rifiuta il padre che lo ha fatto; Adamo è colui che commette l’ingiustizia originaria che consiste nel rifiutare l’Origine della vita, e si condanna così alla polvere della morte (Gn 3,19). E chi è il figlio di Adamo? ‘E Adamo conobbe Eva – dice Gn 4,1 – ed essa concepì e partorì Caino’. Il figlio di Adamo è colui che è mosso dall’invidia nei confronti del fratello, ai suoi indebitamente privilegiato, e per gelosia e risentimento si erge contro di lui e lo uccide (Gn 4,8). Il figlio di Adamo è il violento, che, per difendere la sua vita (così come egli la immagina) instaura il regime del terrore, imponendo agli altri il rispetto (non quello che scaturisce dal volto umano ma quello) che promana dalla minaccia: il segno di Caino dice che ‘chi colpirà Caino sarà ripagato sette volte’ (Gn 4,15). Il figlio di Adamo semina la violenza, ed essa produce ulteriore violenza, in un crescendo storico spaventoso” (P. Bovati, Rendere giustizia: istituzioni e modelli giudiziari nell’Israele biblico, in “Quaderni di Bibbia aperta”, a cura dell’Associzione biblica “Bibbia aperta”, 2000-2001, pp. 47-48).
L’ingiustizia originaria, che in ogni ingiustizia storica si riproduce e si annuncia, è nel rifiuto dell’origine, come vuole Bovati; e, configurandosi, per la bibbia, l’origine non come forza principio o energia da cui tutto proviene naturalisticamente e necessariamente come l’effetto dalla causa, ma come libertà personale che crea gratuitamente e dona il mondo gratuitamente, l’ingiustizia suprema è negazione di questa gratuità che si dona all’io e l’interpella.
Motivando il senso profondo della pratica giubilare secondo cui, ogni cinquant’anni, le terre dovevano essere riconsegnate ai proprietari che, per ragioni di miseria, erano stati costretti a venderle o a vendersi, Dio stabilisce: “La terra è mia e voi siete presso di me stranieri e inquilini” (Lv 25,23). Ma cosa vuol dire essere nel mondo “stranieri e inquilini”, secondo questo ossimoro straordinario?
C’è una interpretazione di questo versetto che lo fraintende completamente, ed è quella secondo cui l’uomo è “straniero” sulla terra perché la sua vera patria è “altrove” (“cielo”, “aldilà” o “paradiso”: questi i nomi più comuni per indicare questo “altrove”); e se “altrove”, egli può abitare sulla terra solo con la consapevolezza di trascenderla, andando oltre, con il cuore fisso a quell’“altrove” dal quale proviene e al quale è destinato. In questo tipo di lettura viene affermata l’estraneità dell’uomo sulla terra – il suo rimanervi fuori o extra –, e la ragione di questa estraneità è colta nel dissidio o dissociazione tra l’uomo e il mondo, non essendo quest’ultimo adeguato alle attese del primo, essendo la sua vera patria appunto altrove. L’estraneità dell’uomo sulla terra sarebbe nella impossibile conciliazione tra l’uomo e il mondo, impossibile conciliazione dovuta al fatto che l’uomo, per la filosofia greca, nella sua dimensione più profonda, è spirito, intelligenza o anima, e che la materia in cui si incarna, sia il corpo o il mondo, non può essere una casa da abitare ma un involucro da cui evadere o una tappa da cui partire per trasferirsi altrove.
Altro però è il significato dell’espressione nella bibbia. Per essa Israele – cioè l’uomo – è “straniero” sulla terra, non perché questa non gli basta, ma perché non può rivendicarne il diritto di possesso e in essa può abitarvi solo con la coscienza di chi vi è ospitato, come precisa il secondo termine “inquilini” (toshavim), che esprime l’abitare in una terra che non è propria e che, non essendo propria, esclude il possesso. Tenendo conto di queste precisazioni, il versetto del Levitico andrebbe tradotto più propriamente: “Poiché la terra è mia, voi in essa potete starvi solo come ospiti, ospitati da me che sono l’Ospitante”. Il significato profondo dell’affermazione biblica, secondo la quale l’uomo è “straniero” nel mondo, è quindi da individuare nell’apertura e nell’istituzione dello spazio ospitale: lo spazio dove ciò che si ha lo si ha nella modalità della donazione e non dell’appropriazione, dove l’io ha tutto senza possedere nulla, secondo la bellissima autodefinizione che Paolo dà di sé in quanto apostolo (cf 2 Cor 6,10) e dove vige il divieto di dire: “è mio”. C’è infatti una contraddizione ontologica e logica tra l’essere ospiti – per esempio ad un banchetto – e dire “è mio”. L’ospitalità è lo spazio dove si annulla la logica dell’appropriazione e del possesso e, al di là dell’appropriazione e del possesso, riluce lo splendore del dono, della gratuità e del disinteressamento. Straniero, per la bibbia, è chi abita la terra dell’identità – di cui l’Egitto è la grande metafora –, e passare dalla schiavitù alla libertà non vuol dire passare dal mondo materiale al mondo spirituale, bensì da un modo di essere nel mondo autocentrato sull’io ad un modo di essere nel mondo centrato sull’altro. Si tratta sempre di un passaggio: non però spaziale o temporale ma esistenziale che riguarda l’io e consiste nell’uscire dalla logica dell’identità e accedere a quella dell’alterità.
Il senso del versetto del Levitico è quindi l’istituzione dell’uomo come ospite nel mondo, secondo la duplice valenza semantica del termine “ospite”: l’ospite in quanto ospitato e l’ospite in quanto ospitante. Mirabile bisenso, perché i due momenti, passivo e attivo, si intrecciano e così profondamente che, linguisticamente, non è possibile separarli, anche se concettualmente è necessario farlo per capire l’originalità del discorso biblico sull’ospitalità: l’uomo come quell’essere nel mondo che, ospitato da Dio gratuitamente, è chiamato a fare altrettanto. Venire al mondo è nascere in un mondo dove si è ospitati, anteriore all’io e non posto dall’io, dove la parola prima e originale non è il prendere ma il ricevere, non il comprendere ma il riconoscere, non il denken (il pensare), ma il danken (il rigraziare); ma è soprattutto stare nel mondo con la stessa logica divina, diventando soggettività ospitale che, come Dio, “fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi” e come Gesù sulla croce, ospita in sé lo stesso nemico che, mentre gli sottrae la vita, si sente dire: “anche se tu mi uccidi, per me tu resti sempre un amico”.
È alla luce dello statuto antropologico dell’ospitalità che si comprende adeguatamente, per la bibbia, il divieto di rubare. Prima che all’uomo si tratta di non rubare a Dio, sottraendogli ciò che per principio è suo. Non che il Dio biblico sia geloso di ciò che è suo – essendo egli un Dio che non si interessa di sé ma dell’altro -, ma perché solo restando sue le cose conservano il loro statuto di dono: la loro destinazione per tutti. Proprio perché lo statuto antropologico dell’io è di essere ospite, per la bibbia è proibito “rubare” anche al prossimo sottraendogli il suo: dove questo “suo” non ha valore proprietario – ciò che l’io possiede in proprio – ma donativo – ciò che all’io è stato dato gratis.
Da questo punto di vista il divieto di non rubare, piuttosto che fondare e legittimare la proprietà privata come un diritto sacrosanto, ne è la messa in crisi e la relativizzazione, essendo Dio – e solo Dio – l’unico proprietario legittimo del mondo. Se del mondo unico proprietario è Dio, ogni altro – re, imperatore, erede o imprenditore – può esserlo solo secondariamente e rappresentativamente: non in quanto può dire suo ciò che è di Dio, bensì in quanto ciò che ha gli è dato non per sé ma per l’altro. Per la bibbia l’unica possibile proprietà è quella dell’amministratore, come vogliono i padri della chiesa per i quali, nell’avvento di Gesù, accade la reinstaurazione del mondo secondo il piano originario della creazione: “Per i Padri – a partire da Clemente di Alessandria – l’alternativa è lampante: creazione non è la situazione fattuale delle cose, ma il loro senso, la loro destinazione. Se Dio ha dato ad alcuni le ricchezze, non è per loro esclusiva soddisfazione, ma per il servizio dei fratelli. La proprietà non è più allora l’ultima parola; è soltanto la modalità strumentale di un rapporto più profondo con i beni: la responsabilità verso gli altri. Il ricco non è padrone delle sue cose; ne è l’amministratore. L’intenzionalità creatrice che sottende i beni è la loro realtà di dono per tutti attraverso la mano di alcuni” (A. Rizzi, Messianismo nella vita quotidiana, Marietti, Torino 1981, p. 114).
Se destinata a chi non ha, la proprietà, più che al “diritto” di proprietà, dovrebbe portare al “dovere” di proprietà: il dovere di chi ha di dare a chi non ha. Se la proprietà è per chi non ha, essa non può essere mai ritenuta un assoluto, e per questo, come ricorda la Gaudium et Spes, in casi particolari, quando ne va di mezzo la sopravvivenza dell’altro, in quanto diritto essa è sospesa: “qui autem in extrema necessitate degit, ius habet ut ex aliorum divitiis necessaria sibi procuret” (“chi si trova in estrema necessità ha il diritto di procurarsi i beni necessari dalle ricchezze altrui”). Lungi dall’essere invito al non rispetto della proprietà privata, la massima conciliare (“qui autem in extrema necessitate degit, ius habet ut ex aliorum divitiis necessaria sibi procuret”), che si radica sulla tradizione per la quale “in estrema necessitate omnia sunt communia, id est communicanda” (nel caso di estrema necessità viene sospeso il dovere di non rubare) ribadisce il senso autentico della proprietà e denuncia come ingiustizia e violenza ogni accumulo di ricchezza che non sia intenzionata dalla responsabilità e dalla solidarietà con gli ultimi della società. Conficcata nel cuore della storia, il divieto di rubare ricorda che possedere il gratuito è assurdo, sul piano logico e ontologico, e che di fronte ad esso il solo possibile atteggiamento sono la riconoscenza e la responsabilità.