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    Due povertà

    Franco Cassano

    Ci sono due modi molto diversi di essere poveri. Il primo è quello di chi non ha denaro, non ha casa e non sa come fare per passare da un giorno all'altro. Questa povertà è la più evidente, la più insopportabile e forse proprio per questo la più facile da denunciare (non da sconfiggere). Se essa non scompare, ma addirittura si espande, è perché gli altri stanno seduti sul loro benessere grande o piccolo, circondandolo di reticolati, mitragliatrici e guardie di frontiera. È questo difendersi, questo chiudere la porta con il diritto, ma anche con il torto, che va preso di mira; ed è quello che è accaduto in questo secolo 11'rapie
    attraverso i grandi sommovimenti sociali, i conflitti di classe, una storia di rivoluzioni e di reazioni. Il comunismo è fallito, ma aveva costretto il capitalismo a corrergli davanti e a riformarsi. Il rischio oggi è che il capitalismo, dopo la caduta del suo nemico, desideri solo tornare all'antico, al trionfo dell'economia politica, alla libera concorrenza tra i lavoratori, all'usa e getta universale.
    Ci sono ovviamente anche altre forme di povertà: quella di chi è vecchio, solo o malato, di chi vive sepolto nel lavoro per mantenere gli altri, di chi è inabile sin dalla nascita e ciò nonostante esiste, di chi un giorno si è scontrato con la vita e da allora giace tramortito e impotente, di chi vive la vita solo a distanza perché gli altri sono emigrati, uccisi o scappati via, di chi rinnova ancora oggi l'antica schiera delle vedove e degli orfani, di chi vive tutta la vita da clandestino, di chi scava il suo lavoro nel fango senza neanche saperlo, di chi scende in miniera, di chi si vende la sera sui marciapiedi, di chi lava vetri, vende fazzoletti e deve sorridere anche a quelli che lo insultano e che vorrebbe prendere a pugni. Questa folla incessante di poveri ha la pelle di tutti i colori, parla in tutte le lingue e vive in un inferno terreno.
    Tuttavia queste povertà non vanno confuse con una cosa molto diversa, che noi chiamiamo però con lo stesso nome, solo perché siamo murati nei nostri pregiudizi anche se abbiamo viaggiato e crediamo di conoscere il mondo. Dietro la stessa parola noi nascondiamo ciò che rimane di un altro senso del mondo, di un'idea di ricchezza non ancora colonizzata dalla nostra. Sono i casi in cui il lavoro non ha ancora sterilizzato la vita, quelli in cui contrattare è conoscersi, sfidarsi e invitarsi a bere dopo la contesa, è quell'ingenuità che spinge i popoli «arretrati» a credere che ricco è chi ha molto tempo e non chi ne ha poco, è quella grande casa comune da cui i singoli escono ed entrano, dove c'è sempre qualcuno che sorveglia i bambini e i vecchi, che accoglie le visite e spia dalla finestra nel cortile di fronte. È dovunque c'è ancora tempo per stendere, come una coperta, la vita al sole e farle prendere aria, dove il mare è ancora di tutti e nelle strade si può ancora giocare, dovunque si cerca di far straripare le domeniche in tutta la settimana un po' per onorare il Signore e un po' per onorare se stessi.
    Noi popoli ricchi siamo convinti che i popoli con queste abitudini siano sottosviluppati e abbiano bisogno di soccorso, mentre siamo noi ad aver bisogno della loro saggezza, di quell'atteggiamento mentale che li porta a considerare chi è sempre indaffarato come un disgraziato. In un famoso film di Pietro Germi, Philippe Noiret è un giornalista che, non avendo perso, in età matura la voglia di scherzare con i suoi amici, osserva con tristezza la vita desolata del figlio «condannato a vita ai lavori forzati». Non è sempre necessario attraversare il mare per trovare scampoli di questa saggezza e basterebbe talvolta guardarsi intorno prima che sia troppo tardi, ma per trovarla occorre avere un'idea diversa della ricchezza, ammettere che la nostra malattia è nella convinzione che poveri siano solo gli altri. Quando avremo tematizzato la nostra povertà e avremo iniziato non solo a insegnare, ma anche ad imparare dagli altri, faremo meno male a noi e a loro.


    T e r z a
    p a g i n A


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