Il paradosso cristiano
Salvatore Natoli
Sola fides: proclamare la fede nel risorto a fronte della più grande disperazione. E la disperazione più grande sta nella delusione della promessa: il Signore non è tornato. Il mondo è ancora stretto nella morsa del dolore. Frattanto quel che gli uomini hanno ritenuto un rimedio - emancipazione, scienza, tecnica - è divenuto motivo di terrore. La libertà è arbitrio, la scienza è pericolo. Del crocifisso, evidente è solo la sconfitta. "Verso le tre Gesù gridò a gran voce: 'Eh, Elì lemà sabactàni': che significa: `Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mt. 27, 46). La domanda del crocifisso rimase senza risposta. Gesù è morto, ma il risorto non ritorna. Ma è risorto davvero o è rimasto appeso sulla croce, abbandonato per sempre dal suo Dio?
In questi venti secoli non abbiamo visto la gloria del risorto. Al contrario, abbiamo sentito riecheggiare implacabilmente il grido del crocifisso. Lo abbiamo sentito in tutte le sofferenze, le perdite, le stragi degli uomini: nel dolore innocente, nella giustizia tradita e derisa. Ma c'è qualcosa di peggio: l'umanità contemporanea non percepisce più nemmeno quel grido. Del dolore non si sente più lo scandalo. Lo si tacita rendendolo spiegabile o improbabile. Per aggirare il tremendo della sofferenza la "sociologizziamo", la "psicologizziamo", oppure - al peggio non c'è mai fine - la allontaniamo da noi "spettacolarizzandola".
Et expecto resurrectionem mortuorum: la definitiva eliminazione del dolore, la resurrezione dei morti, questo è il cuore della fede cristiana, e la resurrezione di Cristo ne è la primizia. Il regno di Dio non è altro che questo: i malati vengono guariti, gli storpi camminano, i morti risorgono, i peccati vengono perdonati. Questo ha fatto Gesù. Ma Gesù non è più tornato e il mondo ha camminato come prima, se non peggio. A fronte di questo la chiesa non ha testimoniato con la dovuta nettezza lo scandalo del non ritorno. Al contrario lo ha razionalizzato. La chiesa ha spiritualizzato il significato del regno adattandolo: lo ha fatto valere come trasformazione interiore, mutamento della volontà e della disposizione. Per tal via pur non tradendo il messaggio ha tuttavia rimosso il suo significato intero e radicale: il ribaltamento di questo mondo, la resurrezione e il giudizio. Di qui la fede sepolta di cui parla Quinzio e non tanto perché negata, ma perché privata del suo realismo. Salvezza non significa un diverso modo di interpretare il dolore, ma la fine effettiva, materiale della sofferenza. La fede non è, né può essere un'ermeneutica: essa corrisponde alla certezza/attesa della fine di questo mondo ove il presente di dolore è portato a completa dissoluzione. La chiesa deve continuare a testimoniare questo e non più di questo e se non lo fa, si trasforma in un'istituzione, magari buona e utile, ma cessa d'essere chiesa. Si tramuta in agenzia etica, difende i valori, eroga buoni consigli. Nel far questo, oltre le sue intenzioni finisce per accordarsi con il mondo. Di qui una fede che coincide sempre di più con le buone maniere, un addomesticamento del suo paradosso. Il peggio non viene dal dilagare dell'orrore, ma dall'idea che il nostro buon agire sia sufficiente a estinguere il male. È in questo bonario ottimismo che si nasconde il vero pericolo, quel mvsterium iniquitatis su cui ha tanto insistito Sergio Quinzio: "L'iniquità - scriveva - il cui mistero è annunciato nel mondo non ha carattere morale. Anzi vi sono stati pensatori che hanno avvertito la presenza dell'anticristo in atti che, almeno nelle intenzioni, sono moralmente buoni: tipicamente anticristica è, infatti, innanzi tutto la cancellazione del peccato, la riduzione dell'iniquità a colpa, a responsabilità morale, e infine a errore o addirittura a semplice condizionamento biologico e sociale. La scomparsa della coscienza del peccato è il fulcro dell'anticristicità".1 L'anticristo è la cancellazione del bisogno di salvezza, intesa come salvezza incondizionata totale, "assoluta". Quinzio voleva disseppellire la fede con una coloritura per molti versi ereticale e comunque tipica di coloro che nella storia del cristianesimo hanno preteso di riportarlo alla radica! i tà del suo inizio: la teologia del vero uomo-vero Dio, soprattutto Io scandalo della croce, ove Dio abbandona l'uomo a se stesso nella solitudine del crocifisso. A fronte di quest'abbandono non resta nulla di meglio che credere, lasciarsi abbracciare dal crocifisso, abbandonarsi al nulla di Dio. Dostoevskij scrive: "Quali terribili sofferenze mi è costata - e mi costa tuttora - questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forti mi appaiono gli argomenti contrari... Ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità".2
Mi sembra naturale che si possa essere lì sedotti dall'idea di una salvezza incondizionata - la speranza è l'ultima dea; ritengo, però, poco plausibile prenderla per vera. Bisogna tuttavia riconoscere che la promessa cristiana viene incontro a un bisogno innato negli uomini, incontra il loro desiderio di sconfiggere il male, di vincere la morte. Il cristianesimo ha soffiato su questo fuoco e lo ha fatto divampare, inestinguibile. E almeno per un po' di tempo c'è riuscito.
Una salvezza siffatta la ritengo poco persuasiva e, per quanto mi riguarda, non necessaria per vivere bene e in generale ai fini di una buona vita. E tuttavia, proprio per questo sono incuriosito da coloro che credono: da alcuni di loro sono perfino attratto e inquietato. D'altra parte sarei volgarmente riduzionista se risolvessi la fede nella sua base antropologica e sociale, sarei presuntuoso se ritenessi che i credenti appartengono a un'umanità residuale rispetto a quella evoluta, critica, disincantata della modernità. Ma chi può, oggi, argomentare in modo razionalmente convincente che i credenti - o gli uomini religiosi in genere - siano ingenui o in ritardo, quando non addirittura poco dotati? A loro modo, idioti sicuramente lo sono. Non a caso Dostoevskij - che non era affatto ingenuo e come pochi ha scandagliato il cuore dell'uomo, ha esplorato i meandri della sua mente - ha scelto proprio l'idiota per significare quell'eccedenza che sfugge al metro comune di giudizio, al modo abituale di comprendere e che, perciò, è spesso fraintesa, trascurata o semplicemente non rilevata. L'idiota" è una figura assolutamente cristica, una delle simbolizzazioni più riuscite del paradosso cristiano: l'inanità che getta nel dubbio la superbia dell'intelligenza, la mitezza che disarma la violenza, il fallimento che è indice di una strana speranza, quella che non sboccia dai desideri, spesso vani, degli uomini, ma è loro solo donata.
Il cristianesimo perde molto del suo significato se cerca di normalizzarsi. Spesso, nell'intento di rendersi ovvio, diviene banale, soprattutto sempre meno necessario "in sé" perché facilmente commutabile con altro, rimpiazzabile da una condotta morale ineccepibile o più morbidamente dalle buone opere. Quale ricco, infatti, non fa oggi beneficenza? E talvolta, contraddicendo il consiglio evangelico, l'annuncia pubblicamente anzi la trasforma in sottoscrizione, in iniziativa pubblica con la giustificazione che così facendo si può raccogliere di più per aiutare i bambini d'Africa o quant'altri. E anche chi non è ricco vi aderisce, quanto meno per non perdere l'occasione di sentirsi buono. Grande questo, bello anzi bellissimo, anche se si deve riconoscere che il mondo non lo è affatto. Tra male e beneficenza non c'è proporzione.
I cristiani non dovrebbero attenuare l'incredibile del credere, quello che nella loro fede è scandaloso - e il rischio che la sottende - per renderla più persuasiva e convincente presso quelli che la ignorano o poco la considerano. Sono invece dell'idea - magari del tutto peregrina - che un cristianesimo meno conformista potrebbe rivelarsi più attraente perfino per gli stessi non credenti o almeno per alcuni di essi: potrebbe lasciar loro intuire la serietà e l'estrema drammaticità del credere. Altro che ingenuità.
(da Stare dal mondo. Escursione nel tempo presente, Feltrinelli 2002, pp. 152-155)
1 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano 1995, p. 66 (corsivo nostro).
2 In Mysterium iniquitatis, Quinzio non esita a fare proprie queste parole di Dostoevskij, ivi, p. 92.