Una prospettiva antropologico-culturale
Intervista a Raffaele Mantegazza
a cura di Giancarlo De Nicolò
(NPG 2006-02-26)
Domanda. Il dossier che stiamo elaborando ha offerto finora dati di tipo sociologico (l’analisi della situazione) e teologico (ecclesiologico). Per procedere verso la prospettiva educativa e pastorale abbiamo bisogno di collocarci in un corretto orizzonte di riferimento, di indicare termini e concetti che di solito utilizziamo, e di giocare così a carte scoperte.
Vorremmo dunque chiarire con lei tali punti di riferimento.
Quali prospettive antropologiche e quali categorie sono state finora utilizzate, e che ora consideriamo inadeguate, per affrontare il tema dello straniero, migrante e immigrato?
Ci rendiamo conto che la nostra prospettiva occidentocentrica ci ha quasi sempre collocati in una prospettiva dall’alto in basso, e ci ha regalato atteggiamenti di diffidenza, di rifiuto, e nei confronti di questi «altri» di marginalizzazione, di esclusione...
Risposta. Mi sembra che il tema della migrazione venga affrontato con una attenzione insufficiente all’aspetto storico; questo, a mio parere, perché le nuove epistemologie così di moda non solamente a livello accademico, hanno buttato a mare la storia con tutto il suo peso, e trattano i concetti come se nascessero come i funghi sotto gli alberi dopo una notte di pioggia. La dimensione storica è stata ed è sempre più esclusa dall’analisi dei fenomeni sociali: basta guardare con attenzione l’indice di alcuni manuali di ricerca sociale o di alcune ricerche empiriche. Il tutto secondo me è frutto di una furibonda iconoclastia che vede marxisti dappertutto e non coglie invece che proprio il materialismo storico ha insegnato che ogni concetto è figlio della sua storia.
A mio parere non comprendiamo nulla dei fenomeni migratori se non li relazioniamo non solo (e sarebbe già qualcosa) agli accadimenti storici del XX secolo, ma anche e soprattutto alle complesse dinamiche storiche che presiedono alla relazione tra Occidente e culture cosiddette altre: dinamiche che sono sempre state sotto il segno dello sfruttamento e del carattere predatorio dell’Occidente. È ridicolo ad esempio parlare di invasione dell’Occidente, dopo secoli di invasione predatoria da parte dell’Occidente nei confronti dei popoli africani: si tratta di una inversione dei valori che rende perfettamente conto della malafede dell’Occidente. Oriana Fallaci mi sembra una di queste figure che provvedono a scorporare la storia dai concetti e a isolare alcuni avvenimenti (gonfiati ad arte dalla stampa) per dimostrare tesi razziste. Occorre allora non tanto abbandonare i concetti della ricerca sociale e pedagogica interculturale quanto restituire loro lo spessore che la dimensione storica provvede. E credo che comprendere che stiamo parlando di popolazioni che hanno sempre visto l’uomo occidentale come predatore e padrone, popolazioni che finalmente iniziano a rendersi conto che la loro povertà non è una maledizione divina ma è frutto di dinamiche storiche e politiche, popolazioni che iniziano a capire che per loro il viaggio verso l’Occidente o il Nord del mondo è un viaggio compiuto per recuperare ciò che era (anche) loro, comprendere tutto questo significhi gettare uno sguardo nuovo e onesto sulle problematiche legate alla migrazione.
Reti concettuali: l’identità flessibile
D. Le reti concettuali che oggi utilizziamo (e che leggiamo con abbondanza anche nei giornali, diventando così cultura comune) sono identità/appartenenza, integrazione, intercultura/multicultura, problema/risorsa...
Possiamo mettere sul tavolo le categorie (e una loro adeguata comprensione) per poter affrontare correttamente il tema che ci interessa?
O non sono già categorie segnate da un peso culturale di definizioni e di interpretazioni che le rendono impossibili o troppo ambigue da utilizzare?
Ci riferiamo soprattutto ai termini chiave di identità e integrazione. Se ci definiamo (e definiamo gli altri) in termini di identità (razziale, culturale, territoriale, religiosa, e quant’altro), non ci poniamo immediatamente su piani di differenza, di distinzione, di difficoltà all’incontro e al dialogo?
Eppure non ci sentiamo ancora di «negarle», sia sul piano del quotidiano che scientifico, dal momento che abbiamo quasi imparato ad identificarci, a definirci solamente attraverso di esse.
Insomma, che bilancio possiamo fare?
R. La questione dell’identità è molto complessa e lo è di per sé; viene ovviamente resa ancora più complessa nel confronto e nel dialogo interculturale. Mi sembra che coloro che affermano disinvoltamente di potere e volere fare a meno di questo concetto corrano il rischio di mettere in atto una alleanza oggettiva (anche se non consapevole) con le forze della barbarie che liquidano insieme all’identità anche gli esseri umani. L’assassinio dell’identità va di pari passo con lo sterminio dei soggetti; prima si nega l’identità e poi si distrugge il supporto corporeo di tale identità, che è rimasto come un involucro vuoto. Auschwitz dovrebbe avere insegnato questo ai teorici della disidentità. L’approccio che però rischia di essere ancora più pericoloso è quello che sostanzializza l’identità e ne fa una «res», una cosa oggettiva che è presente in qualche punto nascosto dell’essere umano. Così esisterebbe una «italianità» o una «europeità», intonsa e pura: sciocchezze assolute, tanto più per quello che riguarda l’identità italiana che è la più mista e meticcia d’Europa. Le nostre donne sono state fecondate dai normanni e dagli arabi, dai lanzichenecchi e dagli spagnoli: come si fa a proporre una idea di identità italiana monolitica? E chi sarebbe l’esempio vivente di tale identità: la donna altoatesina o la ragazza sarda? Il biondo di Merano o il morettone di Agrigento? Credo che con Sartre occorrerebbe definire l’identità come concetto «in situazione» e con Lévinas «in relazione»: ovvero, l’identità non è ciò che io mi porto dietro come fosse una sostanza immutabile, ma semmai è ciò che di me hanno fatto gli incontri innumerevoli che ho compiuto nella mia vita, sempre a partire ovviamente da situazioni esistenziali concrete e forse anche da un nucleo duro che è legato alla materialità della mia nascita (il posto in cui sono nato, la cultura dei miei genitori). Esiste allora ad esempio una identità musulmana che è all’incrocio tra religione e storia, ma in realtà esistono a partire da questa, innumeri identità al plurale che sono definite dagli incontri e dagli scontri che le comunità e i singoli hanno compiuto: il musulmano di Parigi ha una identità musulmana che è differente, pur nelle innegabili analogie, con quella del fedele islamico di Amman. Dunque, occorre un concetto di identità flessibile e aperto all’altro/a: anzi, di più: occorre che si comprenda come l’identità, individuale e collettiva, sia un concetto culturale che si definisce solamente nell’incontro con l’altro/a. A rigore io non so chi sono se non incontro l’altro/a, ed è l’altro/a che mi svela il mio essere e la mia identità. Il pensiero ebraico, fino a Lévinas, è pieno di suggestioni su questo punto, suggerendo che addirittura l’identità divina è intricata in questa rete di rapporti con l’altro (che per Dio è l’uomo) e non può mai essere sostanzializzata.
I «contatti» tra le culture
D. Quale è il peso della cultura (la diciamo in senso lato) in queste categorie? Se essa è ineradicabile (basti pensare al peso delle tradizioni, usi e costumi, delle norme religiose...), come si può entrare in dialogo non conflittuale ma reciprocamente arricchente con esse? Se è possibile incontrare persone capaci di «vivere» una duplice o triplice identità, è possibile invece pensare di poter gestire valori e culture anche opponentisi? Non ci sarà un perpetuo conflitto che porta o a schizofrenie o a eliminarne una?
E poi, andando oltre il livello individuale, come entrano tra loro in contatto le culture, come si contaminano, come si difendono? Si parla di prospettiva di multicultura e di intercultura, di convivenza... cosa si intende sottolineare? È ancora possibile uno «scontro di civiltà» o comunque ne resta la minaccia? E poi il difficile rapporto con il locale...
R. La teoria dello scontro di civiltà è risibile e sottilmente fascista: non tanto perché non sia in atto uno scontro tra civiltà (e allora diciamo che è in atto dal viaggio di Colombo, dallo sterminio degli indios, dalla schiavizzazione dell’Africa nera), ma perché Huntington e i suoi accoliti lo vedono a senso unico. Con una buona dose di ipocrisia, e come se il mondo fosse iniziato l’11 settembre. Esempio di una storiografia razzista e di parte che ignora milioni di morti per fame per poi indignarsi prendendo a prestito i morti delle Twin Towers (che ovviamente servono solamente per dimostrare una teoria preconcetta, non certo per essere oggetti di umana pietà). Ma la dimensione del conflitto non è da prendere sottogamba e soprattutto non è da intendere sempre come negativa. Ai teorici dello sterminio reciproco tra culture insomma non si risponde con l’irenismo di una intercultura basata sul «volemose bene»: anche a livello locale e individuale i conflitti non si negano, si gestiscono! il conflitto è il motore della crescita individuale e collettiva, semmai la scelta drammatica e urgente risiede nella modalità di risoluzione del conflitto. Ad esempio: sempre più musulmani vengono in Italia e chiedono di poter professare la loro fede negli spazi e nei tempi che essa prevede. Questo entra in conflitto con una organizzazione spazio-temporale che da secoli in Europa è pensata a partire dalla civiltà cristiana e cattolica. Che facciamo? Diciamo loro di convertirsi? Diciamo loro che apriremo una moschea a Roma quando loro apriranno una chiesa cattolica a Riad (posizione incivile e anticostitizionale)? Diciamo loro di professare la loro fede nelle cantine? O portiamo i porci a urinare sul terreno dove sorgerà una moschea, come le nuove camicie brune hanno fatto nel civilissimo Nord? Oppure approfittiamo degli elementi di conflitto per poter crescere, per poter modificare situazioni storiche che sembravano incrostate e definitive, e dunque apriamo i nostri spazi e i nostri tempi agli altri volti di Dio e della preghiera, della religione e della fede? E poi: che straccio di idea di fede possiede colui che pensa che la fede sia qualcosa da preservare dagli attacchi, da tenere in un cassetto, come se si trattasse di un gioiello da possedere privatamente? La fede non è forse confronto, anche aspro, con gli altri volti di Dio? E allora proprio il conflitto tra concezioni differenti della religione dovrebbe portare lo stato laico (e solo uno stato laico e una scuola laica possono fare ciò) a interrogarsi sul suo ruolo: che dovrebbe essere da un lato quello di garantire il «diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto» (art. 19 della Costituzione), dall’altro quello di riflettere laicamente sulle manifestazioni necessariamente plurali e plurime delle verità di fede.
Globalizzazione della speranza e dei diritti
D. Con la sempre crescente presenza (di diverso genere) di immigrati, una specie di globalizzazione della migrazione, mutano anche le nostre consolidate immagini di comunità, di società, di democrazia, forse anche di stato.
È possibile vedere in quali direzioni questi nuovi significati emergono e cosa implicano?
R. Anzitutto occorre dire che tutti i concetti che utilizziamo in campo di filosofia politica sono storici: io sono molto legato all’idea di laicità e ritengo la si debba difendere dagli attacchi di tutti gli integralismi, anche quello cattolico. Ma questo non significa che lo ritenga un concetto sacro (sarebbe una bella contraddizione), solo che in questo contesto storico lo ritengo ancora valido, anzi per ora irrinunciabile. Ma significa anche che non posso andare tout court a imporlo in Arabia Saudita laddove dinamiche storiche diverse hanno portato a una differente relazione tra stato e religione. Che poi io voglia e possa sostenere i gruppi laicisti dell’Arabia Saudita è un altro paio di maniche. Occorrerebbe fare questa considerazione su tutti gli altri concetti: ad esempio l’idea di Stato; che sia stata fondamentale e utile, non ho dubbi. Che la si debba difendere dai localismi desolidarizzanti, anche (o vogliamo farci un tour in Jugoslavia o nelle repubbliche baltiche per vedere a che cosa ha portato la frenesia dissolutoria delle tendenze «stataliste» e «centraliste»?). Ma non se ne deve fare un moloch: io penso che una prospettiva di dissoluzione dello stato in un lontanissimo futuro sia perseguibile e debba ad esempio iniziare oggi attraverso l’alienazione di alcuni diritti che lo stato si è sempre riservato, ma non solo e non tanto verso il locale ma verso l’universale. Tradotto: non credo che lo Stato debba cedere alcune sue competenze ai localismi, ma semmai ad organismi transazionali realmente funzionanti e paritari. L’esperienza delle Ong dovrebbe avere insegnato questo, il fallimento dell’Onu sotto il ricatto degli stati ricchi, anche. Per quanto riguarda la migrazione trovo una profonda debolezza anche nel concetto di ospitalità: l’ospitalità è una scelta privata, io decido liberamente di ospitare un amico a casa mia, ma la casa resta mia e l’amico non ha alcun diritto da far valere, può solamente contare sulla mia bontà d’animo. Gli stranieri non sono ospiti, sono cittadini con status giuridico da ripensare, ma comunque titolari di diritti e non oggetto di una pietosa ospitalità. Così ho qualche perplessità anche sull’enfatizzazione di concetti quali lo «Ius migrandi»: nel senso che è giusto e ovvio che al mondo ognuno dovrebbe essere libero di andare dove vuole, ma la migrazione ha alle spalle un vissuto di dolore e più che un diritto è una scelta obbligata. Occorre allora costruire un mondo dove nessuno debba più migrare e dove il viaggio sia restituito alla sua dimensione di diletto per tutti non solo per il ricco occidentale. In questo senso vedo il cosmopolitismo come unica via d’uscita, il che significa vedere il mondo globalizzato come globalizzazione della speranza e dei diritti e non delle merci sotto l’egida comunque castrante degli stati nazionali.
Le seconde generazioni
D. Alcune categorie sociologiche di migranti-immigrati sembrano essere portatrici di interessanti novità e opportunità. Pensiamo ai giovani e soprattutto alla cosiddetta seconda generazione, in cui i caratteri fondamentali della cultura e identità hanno per così dire due sorgenti differenziate, parentale e locale. Creando quasi, almeno nei casi migliori, una identità meticcia, una duplice appartenenza. Quali sono le risorse insite in ciò e quali i rischi?
R. Vorrei riportare qui, per rispondere a questa domanda per quanto riguarda le seconde generazioni, alcune riflessioni che ho potuto compiere in una mia ricerca (2000) sui figli di emigranti italiani in Germania (Stoccarda e Mannheim). Ho potuto constatare come sia soprattutto sul versante linguistico che questi giovani pagano il debito alla triplice appartenenza culturale (regione italiana di provenienza, Italia, Germania). Le competenze linguistiche sono il vero punto dolente per i ragazzi e le ragazze, e proprio sulla lingua si basa il principale motivo delle loro difficoltà scolastiche. A casa si parla molto spesso il dialetto della zona di provenienza, e occorre dire che la competenza dialettale è spesso la più sviluppata tra i giovani. Il dialetto viene utilizzato per comunicazioni informali, tendenti ad escludere i tedeschi, ma spesso con il risultato di escludere italiani di altra provenienza: si tratta di un dialetto molto stretto e spesso affiancato da espressioni non verbali. L’italiano è ovviamente considerato una lingua artificiale, e ciò si nota nella difficoltà di comprensione delle regole e di padronanza del vocabolario, e negli errori anche buffi e tipici di chi impara l’italiano come seconda lingua. L’italiano è allora una lingua non affettivizzata più di tanto anche perché non è realmente la lingua dei padri: nei corsi di lingua italiana ovviamente i ragazzi sono stimolati a parlare in italiano, ma quando esprimono un concetto che faticano a tradurre (perché probabilmente di una traduzione si tratta) chiedono «di poterlo dire in tedesco» e comunque ricadono nel tedesco quando durante le discussioni le emozioni prendono il sopravvento sulla razionalità. Il tedesco è allora la lingua che maggiormente viene impiegata, la lingua nella quale comunque si comunica nei tempi morti e nelle pause, ma questo non significa che vi sia una reale conoscenza della struttura della lingua e delle regole grammaticali. Anche per il tedesco sono presenti incertezze e difficoltà, ovviamente variabili a seconda dei ragazzi: alcuni sono sostanzialmente germanofoni e praticamente non parlano quasi per nulla l’italiano. Mi sembra che questa lunga considerazione sia importante per inquadrare il fenomeno e per una serie di riflessioni anche profonde sull’integrazione dei ragazzi e delle ragazze di seconda generazione, una integrazione che trova nella lingua uno strumento essenziale. Indico alcune questioni:
– le comunità di stranieri che insegnano ai propri figli unicamente l’italiano e fanno di tutto per sradicare la competenza linguistica del paese d’origine, anche se ciò è legato a progetti migratori a lungo termine o anche definitivi, rischiano di creare spaesamento e sradicamento nei ragazzi, oltre a favorire l’acquisizione meccanica e in fin dei conti non autentica di una identità italiana forzata;
– comunque anche nelle altre comunità c’è il rischio della mitizzazione dell’identità italiana o comunque occidentale come identità forte e vincente, a scapito degli elementi identitari della cultura di origine che spesso sono cancellati o tenuti nascosti, come se fossero fattori di cui vergognarsi;
– spesso il ragazzo parla italiano e il genitore no: situazione nella quale il minore si trova ad essere il mediatore culturale tra insegnanti e genitori, creando problemi gravi nella relazione intergenerazionale.
Come si vede la situazione è complessa e occorre stare molto attenti a mitizzare la questione delle seconde generazioniche pone problemi specifici che vanno affrontati con professionalità (ad esempio formando mediatori culturali che abbiano solidissime basi pedagogiche).
D. Nel tempo si sono coniate espressione colorite per definire (o illustrare) le nuove società alla presenza massiccia di questo fenomeno: melting pot, salad bowl. Sono espressioni vuote, miti per i giornali, concetti significativi?
R. Vorrei non rispondere a questa domanda: i nomi delle cose sono conseguenza del nostro modo di capire le cose stesse, questi citati sono ridicoli nomignoli (anche offensivi) che non colgono l’essenza fluida della nuova società da costruire. Si tratta della deriva del fenomeno del politically correct, che mi pare utilizzi il linguaggio più per nascondere che per svelare, più per celare che per definire.
La via della pedagogia interculturale
D. Lei è docente di pedagogia interculturale. All’interno di questa disciplina quale tipo di percorso viene offerto per un possibile arricchente non oppressivo incontro con l’altro, il diverso, lo straniero?
Quali gli elementi principali che potrebbero diventare vie ed esperienze educative percorribili per i giovani oggi, per le istituzioni educative, per la comunità ecclesiale?
R. La scuola, e in particolare la scuola elementare, sta affrontando una sfida che investe tutta la società: il confronto e la convivenza con altre culture, religioni, abitudini, ritualità, introdotte dalle popolazioni che emigrano dal sud del mondo verso il nostro paese. Assistiamo ad una proliferazione di discorsi, studi, programmi e progetti orientati all’attivazione di un approccio interculturale in campo educativo; la maggior parte di questi discorsi connette immediatamente i recenti fenomeni migratori con l’urgenza di attrezzare le istituzioni formative di un’adeguata attrezzatura interculturale. Accoglienza e dialogo, integrazione e confronto con altre culture: questi sono i principi che ispirano migliaia di progetti, a conferma della creatività pedagogica tipica della scuola italiana, che stanno attraversando, in questi anni, la programmazione e la sperimentazione didattica. Se da un lato la scuola, pur con notevoli difficoltà, dimostra la possibilità di tradurre un problema sociale come l’immigrazione in un’occasione educativa per praticare un approccio interculturale, dall’altro l’immediata declinazione didattica si espone ad un rischio che da sempre caratterizza i saperi e le pratiche educative: il rischio dello specialismo e della riduzione tecnicista di una questione che sollecita una riflessione radicale sui nostri modelli educativi, sull’identità culturale occidentale che ha ispirato fino ad oggi le pratiche di cura e di insegnamento. L’irruzione dell’altro, impersonificata dall’ingresso nelle scuole di bambini/e portatori/trici di altre culture, porta con sé problematiche che devono necessariamente essere affrontate sotto il segno della risposta organizzativa e didattica specifica, ma costituisce al tempo stesso un’occasione per dare piena cittadinanza ad alcune tematiche che sono costitutive dell’agire educativo. Ci riferiamo, per esempio ai temi dell’identità, dell’alterità e della differenza come occasioni per scrivere una nuova agenda pedagogica autenticamente interculturale.
Se possiamo intendere l’educazione come processo finalizzato all’acquisizione di nuove identità e alla perdita di precedenti identità, l’incontro con l’altro presuppone e stimola una domanda di rispecchiamento ed identificazione: perché possa sorgere la domanda «chi sei tu?» è necessario essere in grado di rispondere al «chi sono io?». Un approccio pedagogico interculturale richiede allora di concentrare l’attenzione sulle radici, sulla memoria, sui tratti distintivi dei soggetti, sulla loro identità: da una parte allora l’importanza di aprire spazi di riflessività per i docenti, perché possano rivolgersi queste stesse domande relative alla propria identità professionale, culturale e pedagogica, dall’altra il bisogno di tematizzare costantemente con i bambini i loro processi di identificazione, le loro esperienze e i loro ricordi, i loro cambiamenti psicologici e fisici, le loro paure e i loro desideri. In questo senso partire dall’identità significa fare i conti con l’altro che è innanzitutto dentro di noi: ciò che siamo e che siamo stati, ciò che vorremmo diventare e ciò che non saremo più.
D’altra parte chiedersi quale immagine hanno le/gli insegnanti dei propri alunni nell’istituzione in cui operano significa fare i conti con le dimensioni dell’alterità e della differenza che costituiscono e sorreggono la relazione educativa Si tratta per esempio di portare ad un livello di consapevolezza e visibilità le immagini di alunno che ogni insegnante alberga dentro di sé, tematizzando l’alterità radicale rappresentata dall’infanzia: l’infanzia come stagione del non ancora, età dell’innocenza, cifra del possibile, sulla quale si addensano gli sguardi, le aspettative, i progetti del mondo adulto e si confrontano e scontrano diversi modelli pedagogici. Se l’infanzia è la forma di alterità più immediata nel mondo scolastico, la natura, il femminile e la morte possono costituire le figure apicali di un’educazione all’alterità e alla differenza. Il legame e la distanza con il mondo della natura, così come la tematizzazione delle differenze di genere, costituiscono un terreno di confronto con l’alterità, a partire dal linguaggio e dalla percezione sensoriale, dai modi di dire e sentire le differenze, tra l’umano e l’animale, tra il culturale e il naturale, tra il maschile e il femminile. Il tema della morte, infine, nella sua scandalosità rappresenta il luogo più radicale d’incontro con l’alterità esistenziale dei soggetti: è un tema che rinvia alla questione dei lutti e dei congedi, al problema dell’irreversibilità, elementi cruciali per affrontare i propri compiti evolutivi.
Infanzia, natura, femminile e morte configurano allora i punti cardinali di una mappa in grado di orientare una pedagogia interculturale: su questi punti è possibile infatti rintracciare i pregiudizi, i tabù, i silenzi, gli stereotipi che caratterizzano le teorie e le pratiche educative occidentali. E forse fare i conti con queste zone d’ombra è condizione essenziale per incontrare, autenticamente, gli altri.