Morte
e maturità della fede
Carlo Molari
Qual è il criterio fondamentale per giudicare una spiritualità adulta?
La persona raggiunge la sua maturità quando è in grado di confrontarsi con la morte, quando cioè ha maturato quelle capacità che gli consentono di vivere tutte le situazioni in modo da saper morire.
Ci chiediamo quindi quali sono i criteri con cui valutare se possiamo vivere la morte in modo umano, da figli di Dio. Quali sono i criteri che consentono di attraversare le molte situazioni dell’esistenza che sono anticipazioni della morte. Ci sono situazioni disordinate, caotiche nel¬la storia, ingiuste. C’è il peccato. Dobbiamo imparare a vivere tutte le situazioni in modo positivo e salvifico. Non perché siano sempre positive o corrispondano ad un progetto divino. Perché ci sono molte situazioni insensate. Ma l’amore di Dio ci offre la possibilità di attra¬versare quelle situazioni sviluppando la nostra dimensione spirituale, in modo da rendere sensate anche le situazioni insensate, e salvifiche anche le situazioni ingiuste. Se uno è odiato è una situazione ingiusta. Ma se l’odio è un fatto dobbiamo chiederci come viverlo in modo da crescere. Come vivere la croce, che come tale è contraria al volere di Dio, ma che pure esiste. Gesù afferma esplicitamente di essere venuto (Mc. 1, o di essere stato mandato Lc. 4, 42) “per predicare il regno di Dio”. Ma gli uomini hanno rifiutato l’annuncio del regno e Gesù si è trovato ad annunciare il Regno di Dio in una situazione ingiusta, contraria, violenta, insensata. Anche a noi è chiesto di essere capaci di dare senso alle situazioni insensate, di attraversare la violenza e l’odio annunciando l’amore.
I criteri della maturità desunti dalla morte
Se morte è il traguardo della nostra avventura terrena, essa ci offre anche i criteri per l’orientamento del cammino. Ne possiamo esami¬nare cinque.
- il criterio dell’identità. Di fronte alla morte non sarà importante che cosa abbiamo realizzato nel mondo, quali opere abbiamo com¬piuto, bensì chi siamo diventati attraverso tutto quello che abbiamo vissuto. La morte ci chiederà: chi sei? chi sei diventato? Che nome stai abitando? Questo è il criterio fondamentale. Oggi perciò non ser¬ve chiedersi: cosa sto realizzando? Che risonanza ha quello che fac¬cio? Dobbiamo piuttosto chiederci: chi sto diventando vivendo questa esperienza? questo fallimento, questa calunnia, o questo successo?
- il criterio del distacco. La morte ci chiederà di abbandonare tutto, di aver imparato a distaccarci dalle cose, dalle persone, dalle situazio¬ni, perché dovremo abbandonare tutto. Più ci alleniamo al distacco e più acquistiamo l’identità filiale, cioè accogliamo il dono di Dio che ci rende figli.
- l’interiorizzazione nei rapporti. La morte ci chiederà di partire in solitudine, ma pieni di presenze. Ci chiede perciò di vivere i rapporti in modo tale da portarci gli altri dentro, senza condurli con noi per mano. Il bambino piccolo nei primi tempi non è capace di interioriz¬zare i suoi genitori, quando diventa capace è in grado di allontanarsi da loro, di andare a scuola perché porta dentro l’immagine dei suoi. Nelle difficoltà può pensare: “poi lo dico a mia mamma, poi viene mio papà” e trova la forza di andare avanti. A mano a mano che cresce la persona ha bisogno sempre più di interiorizzare presenze. Esse costi¬tuiscono la nostra risorsa, perché noi diventiamo attraverso i rapporti. La morte ci chiederà di partire senza condurci nessuno per mano, ma portando in noi tutti coloro che abbiamo amato o ci hanno amato.
- l’oblatività, cioè la capacità di donare vita. Tutti cominciamo l’esi¬stenza con atteggiamenti possessivi, succhiando vita dagli altri. Da adulti non possiamo più essere persone che succhiano la vita, ma per¬sone che la consegnano. La morte ci chiederà di consegnare tutto, persino il nostro corpo che ci è servito per diventare noi stessi. Tutto dobbiamo restituire, tutto dobbiamo diffondere intorno a noi. Lo po¬tremo fare solo se siamo diventati totalmente oblativi.
- l’abbandono fiducioso. La morte ci chiederà di essere così capaci di fidarci della vita da saperla perdere per ritrovarla. E’ l’atto supremo di fiducia. Tutte le situazioni che viviamo ci allenano a fidarci così dell’azione di Dio, da saper crescere anche nelle situazioni negative, perché come dice Paolo in Rom. 8,37 segg. “nessuno può separarci dall’amore di Dio”. Noi possiamo vivere tutte le situazioni in modo da crescere come figli. Nessuno ci può separare dall’amore. In tut¬to questo noi siamo più che vincitori… Nessuno potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù. In tale modo possiamo vivere tutte le situazioni dell’esistenza, favorevoli e sfavorevoli, accogliendo il dono di Dio e testimoniando l’amore del Padre.
In questo senso non ci sono spazi sacri cioè riservati a Dio: tutta l’esi¬stenza diventa una “offerta del proprio corpo” “un sacrificio gradito a Dio” “un culto spirituale” (Rom 12, 1). I momenti di preghiera sono palestra, allenamento per imparare a vivere tutte le situazioni come occasione di incontro con Dio, come ambito di vita teologale. Dob¬biamo ricordare che il dono di Dio ci previene sempre attraverso cre¬ature. È molto facile, soprattutto all’inizio del cammino identificare la creatura come il dono da accogliere, mentre il dono è un altro. Ci perviene attraverso la creatura ma la trascende.
Analogamente spesso ci illudiamo di essere noi ad offrire vita ai fra¬telli. Noi invece siamo un vuoto sempre riempito, siamo un nulla che viene attraverso dall’energia creatrice. Non siamo noi ad offrire, a donare, ad amare, ma è il bene che in noi diventa amore. E’ la verità che in noi diventa parola, nei limiti dei nostri modelli.
Così comprendiamo perché Gesù rimprovera il notabile che lo chiama buono. Nessuno è buono. Dio solo è buono. E’ l’espressione chia¬ra della profondità spirituale di Gesù: la consapevolezza del nulla, continuamente riempita dal tutto che è Dio. Io non faccio nulla da me stesso. Se noi vivessimo in questo modo, noi potremmo vivere la spiritualità cristiana ed essere testimoni efficaci dell’amore di Dio che si è rivelato in Gesù.