Tra essere e avere

Il coraggio dell’aurora /5

Un percorso di spiritualità per i giovani sulle tracce di Etty Hillesum

Fabiola Falappa

(NPG 2013-05-59)


Non dovremo più preoccuparci
di ottenere quello che possiamo,
ma rifiuteremo
di prendere quello che non tutti
possono avere.
(Mohandas Gandhi) [1]

La citazione di Gandhi qui sopra riportata può suonare troppo difficile o addirittura eccessiva se la consideriamo a partire dalla visione contemporanea che lega essere e avere. Questa celebre coppia s’incontra, anche se raramente appare in modo esplicito, lungo la strada che porta Etty Hillesum a riconoscere in modo lucidamente responsabile (come abbiamo avuto modo di rilevare nella precedente tappa) i valori, al fine di costruire un altro modo di essere al mondo, diventando, con coraggio e fiducia, se stessa.

Diventare se stessi nell’essere insieme agli altri

Di solito si afferma che in teoria conta l’essere e non l’avere, ma in pratica è l’inverso. Nel cumulo di pregiudizi che sorregge l’economia dominante questo schema persiste tenacemente. Ma ritengo giusto sottolineare quanto sia falso. Non solo per il suo cinismo, ma perché spezza la relazione tra essere e avere, finendo per dissolvere il primo nel secondo. Così avrebbe più valore la proprietà, non la dignità o già la sola esistenza delle persone; il conto in banca, non le vite, gli affetti, le relazioni. Va detto, inoltre, che l’errore complementare e diametralmente opposto a questo cinismo sta nel moralismo che condanna l’avere per esaltare il puro e nobile «essere». La persona ovviamente va considerata nel suo essere non disincarnata, sradicata da relazioni, bisogni, desideri, possessi.
Essere e avere sono dunque strettamente correlati. Il punto non è separarli o disprezzare uno dei due, ma, come ci insegna Etty a partire dalla sua vita, viverli nel giusto rapporto.
«Nessuna singola parte dovrebbe avere il predominio nella tua vita. La questione principale è il tutto. Non enfatizzare nessuna cosa, altrimenti la tua armonia interiore ne verrà scossa. Cerca di restare completamente distaccata da tutto ciò che ti interessa; non concentrare le tue forze interiori in un solo punto, non investirle in una cosa sola».[2]
Ognuno deve imparare allora a correlare in modo equilibrato l’essere e il ricevere, l’avere e il dare, il trattenere per sé e il condividere, il perdere e l’ottenere, il consumare e il creare. Si tratta, in sintesi, di alimentare la propria armonia interiore, non «contro» o «a prescindere» dagli altri, ma «insieme» a ciascuno.
La logica attuale della competizione, a partire dal singolo fino a giungere su scala mondiale, lacera di continuo, all’opposto, il tessuto del nostro essere in relazione che è, invece, la sostanza stessa delle nostre esistenze. Di conseguenza resta solo l’avere come un fine in sé. L’avere che nasce dalla lotta, dal sacrificio di se stessi e degli altri, dal rifiuto della condivisione e della cooperazione, dalla mancanza di riguardo e di scrupoli, dalla coazione ad accumulare e trattenere tutto in mano nostra. Etty, con il suo esempio, insegna che se ci consegniamo a questo stile di vita i beni che possediamo non basteranno a restituirci i valori che così perdiamo: gli altri, l’originalità del nostro essere, gli affetti, la dignità, la gratuità, la felicità possibile, la solidarietà, la compassione, la lucidità.

Non esitare a sprecarsi

Come si comprende che il porre l’avere come fine in sé non è altro che una trappola per la nostra vita? Dal fatto di accettare di fermarci in una sosta, che ci aiuta a stabilire una distanza critica da quello che siamo diventati. Serve un silenzio che ci permetta di ascoltare. Uno specchio che ci insegni a vedere la realtà quasi come per la prima volta. Se in questa sosta ascoltiamo ciò che di vero vive in noi, ci accorgiamo che esiste un altro avere, genuino ed essenziale. È l’avere che scaturisce dall’aver ricevuto, dall’essere stati accolti in una condivisione, per poter a nostra volta ricomunicare, inaugurare, ospitare.
Grazie alla ricchezza e profondità spirituale tipiche di Etty arriviamo a scoprire allora che, senza trascurare il nostro modo d’essere umano così fortemente attaccato alla dimensione materiale dell’avere, c’è un avere che permane in equilibrio con il nostro essere. La ricchezza del dono incarnato dall’altro e la possibilità di «aver ricevuto l’altro» come dono totalmente gratuito si evidenzia, ad esempio, in queste righe che esprimono il valore inestimabile che, nella sua esistenza, ebbe l’essere in relazione con Julius Spier (nominato nel Diario sempre e solo S.).
È curioso come una persona si ritrovi poi sempre con qualcosa di materiale: Tide mi ha dato il suo (= di S.) pettinino rosa rotto. In fondo non voglio neppure avere delle fotografie sue e forse non pronuncerò mai più il suo nome, ma quel brutto pettinino rosa, con cui l’ho visto pettinare i suoi radi capelli per un anno e mezzo, è ora nel mio portafoglio tra i miei documenti più importanti, e sarei disperata se dovessi mai perderlo. Una persona è proprio uno strano essere.[3]
L’attaccamento a quel brutto pettinino rotto testimonia tanto il nostro bisogno umano di concretezza quanto la nostra apertura: basta un semplice oggetto, apparentemente senza valore, a ricordarci i gesti e la presenza di una persona cara ormai scomparsa. L’annoverare tale oggetto tra i suoi documenti più importanti e il custodirlo gelosamente sono le tracce della immensa condivisione raggiunta tra i due, dell’unione del loro stesso essere. È pertanto giungere ad una profonda condivisione l’unico modo effettivo per ricevere veramente e che ci permette di riconoscere, con le parole di Etty, «non mi sento affatto impoverita, ma ricca e in pace. Siamo rimasti solo Dio e io».[4] Quando si riconosce tale condizione strutturale, si può giungere a vivere l’avere autentico. Un bene lo si ha effettivamente se, in un certo senso, lo si è. E se questo bene è donato ad altri. «Abbiamo» in realtà ciò che siamo diventati in positivo: i tratti di intelligenza, di gentilezza, di passione per la solidarietà che abbiamo interiorizzato sono indelebilmente nostri. Così è «nostra» la dignità di persone, senza che sia una proprietà acquistabile e vendibile. A chi le diceva che aveva una vita troppo intensa e che ciò nuoceva alla sua salute, Etty rispondeva che ogni giorno si rinnovava, rinnovava le sue energie, alla «sorgente originaria» presente in lei, si apriva cioè un varco fino a Dio.
«Credo che sia soprattutto la paura di sprecarsi a sottrarre alle persone le loro forze migliori».[5] Questa frase così essenziale ed incisiva rivela un significato inesauribile e sintetizza splendidamente il senso stesso dell’avere per donare e, quindi, per essere autenticamente noi stessi. Voglio dire che il non temere di sprecarsi non solo è un bene per altri, ma fin da subito, si manifesta come buono per chi si dona senza esitare a sprecarsi. «Sprecarsi» non è sinonimo di dissipare, ma piuttosto diviene un tutt’uno con l’acquistare rinnovate forze. Solo chi ha sperimentato la gioia dello sprecarsi per altri ha ben chiaro che è realmente «nostro» ciò che di buono siamo riusciti a dare ad altri: non è perduto o sacrificato, perché al contrario vive nell’esistenza di quanti ci sono compagni di felicità.
L’agire donando se stessi, senza indugiare di giungere fino allo spreco, riporta alla mente e al cuore la vicenda di Betània, narrata, tra gli altri, dall’evangelista Marco:
Gesù si trovava a Betània nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l’unguento sul suo capo. Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: «perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri!» Ed erano infuriati contro di lei (Mc 14, 3-5).
Il gesto di questa donna, a differenza degli altri evangelisti, non identificata, esprime in un’immagine il vivere autenticamente, impegnandosi a essere innanzitutto e a divenire se stessi, più che concentrarsi sull’avere fine a sé. Quello che abbiamo e che non esitiamo a donare, senza paura di sprecarlo, è davvero ciò che non perderemo mai. Perché nulla che doniamo con e per amore si spreca; è probabile che «alcuni» si sdegnino e si infurino perché preferiscono «calcolare», ma non è così per chi giunge a comprendere ciò (Chi) per cui (per il quale) ha senso, superando ogni logica di calcolo meramente umano, «sprecarsi» giorno dopo giorno. Ecco allora il valore dell’essere oltre l’avere: desiderare di trasformare, sull’esempio di Etty Hillesum, la nostra vita in quel vasetto di alabastro che, solo una volta frantumato, può inebriare del suo profumo l’intera casa, perché consumato ma non perduto.


NOTE

[1] M. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1996, p. 119.
[2] E. Hillesum, Diario 1941-1942. Edizione integrale, Adelphi, Milano 2013 (II ed.), p. 119..
[3] Ibidem, p. 776, la parentesi è stata da me aggiunta.
[4] Ibidem, p. 791.
[5] Ibidem, p, 777.