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    Il coraggio dell’aurora /2

    Un percorso di spiritualità per i giovani sulle tracce di Etty Hillesum

    Fabiola Falappa

    (NPG 2013-02-50)


    Capire il silenzio stesso,
    la sua vicinanza quotidiana,
    la sua attesa nei nostri confronti
    richiede una distanza,
    la distanza dal modo corrente
    di pensare.
    Ma una volta giunti a questa distanza
    ci si accorge
    che non si tratta tanto e solo di
    cambiare il modo di pensare il silenzio,
    quanto essenzialmente del fatto che il silenzio ci spinge a cambiare modo di pensare.
    (Roberto Mancini) [1]

    La solitudine comunitaria

    Cogliere il silenzio come un’assenza è di frequente l’esperienza umana che c’è data di vivere, il silenzio come vuoto desolato, che ci getta nella solitudine buia. Probabilmente è per questo che, nel desiderio di sfuggire al disagio e allo smarrimento legati allo stato di solitario silenzio, si cerca sempre di spiegare, moltiplicando le parole, e mai di rispondere con il silenzio. In esso l’essere umano si sente solo. Non si accetta volentieri e non si riesce facilmente a fare silenzio perché in esso sono la solitudine e il vuoto a fare paura.
    Enormemente più difficile è concepire, invece, un silenzio «abitato» da qualcosa o qualcuno.
    Lungo questa via, possiamo sostare in compagnia di Etty Hillesum imparando dalla sua esperienza e dalla sua testimonianza a sospendere ogni giudizio, ogni parola, per accogliere nel silenzio un mistero e una verità che non si lasciano contenere dai nostri concetti, dalle nostre immagini e neppure dal nostro linguaggio.
    La vita non può essere colta in poche formule. In fondo, è quel che stai cercando di fare tutto il tempo, e che ti porta a pensare troppo: stai cercando di rinchiudere la vita in poche formule ma non è possibile, la vita è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata. Ma semplice potresti essere tu…[2]
    In realtà, confrontandoci con i suoi scritti, comprendiamo appieno che per quanto la vita sia complessa, possiamo scegliere di essere e diventare «semplici». Si scopre così che solamente chi nella semplicità, tipica di un rinnovato modo di pensare e di agire, è sceso senza timore in profondità, nella propria solitudine, è davvero capace di comunione con gli esseri umani, con le creature, con il creato intero, senza discriminazioni.
    Questa è stata anche l’intuizione di Bonhoeffer, che sembra riassumere il sentire di Etty in poche parole, traboccanti di significato: «esclusivamente nella comunione riusciamo ad essere soli, ed esclusivamente chi è solo è in grado di vivere nella comunione. Sono due cose interdipendenti».[3]
    Soltanto chi è capace di solitudine è allora capace di comunione e dunque può contribuire davvero a costruire la comunità, e solo chi è capace di comunione può vivere una solitudine che non porta a sprofondare nella disperazione. Silenzio e parola sono intimamente legati, proprio come la solitudine e la comunione. Non c’è l’una senza l’altra. Così la parola giusta viene dal silenzio e il giusto silenzio dalla parola. Etty ci insegna a comprendere come la bontà e la semplicità di ogni parola pronunciata siano proporzionate alla maturazione avvenuta nel silenzio meditato; per questo motivo le parole in eccedenza, finendo per essere non sensate, la infastidiscono.
    Troppe parole mi danno fastidio. Vorrei scrivere parole che siano organicamente inserite in un gran silenzio, e non parole che esistono solo per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo, piuttosto. (…). Io detesto gli accumuli di parole. In fondo, ce ne vogliono poche per dire quelle quattro cose che veramente contano nella vita. Se mai scriverò – e chissà poi che cosa? –, mi piacerebbe dipingere poche parole su uno sfondo muto. E sarà più difficile rappresentare e dare un’anima a quella quiete e a quel silenzio che trovare le parole stesse, e la cosa più importante sarà stabilire il giusto rapporto tra parole e silenzio – il silenzio in cui succedono più cose che in tutte le parole affastellate insieme.[4]
    Nel cammino di questa giovane testimone si fa eloquente pian piano un silenzio sempre più profondo e capace di portare in sé, senza alcun peso contraddittorio, la complessità e la ricchezza dell’intera comunità umana. In lei il silenzio vissuto è toccato da tante parole che, diventando troppe, non riescono più ad esprimere nulla; questo è quindi il consiglio che scaturisce dal maturare della sua sensibilità semplice: «risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche che ci sono necessarie».[5]

    Ripartire dall’ascolto ospitale

    L’ambiente in cui viviamo è carico di rumore assordante, e non mi riferisco solo al frastuono esteriore, ma innanzitutto a quello interiore, i cui effetti ricadono su tutta l’esistenza, continuamente più vuota, superficiale, impermeabile a ciò che richiede un ascolto e un’attenzione vigile. Il modello attuale, e che è stato trasmesso alle giovani generazioni, è senza dubbio quello dell’uomo dedito e totalmente impegnato a raggiungere i suoi scopi, ad ogni costo, fino al punto da considerare, in antitesi netta con l’ideale kantiano, l’altro come mezzo per il raggiungimento del proprio fine personale. In questo sterile orizzonte il silenzio è una zona oscura e angosciosa da rigettare riempiendo di suoni la mente e di impegni e attività la giornata.
    La conferma di quanto sia diffusa questa tendenza che ci spinge a considerare il silenzio e la solitudine come stranieri del tutto indesiderati risiede nella difficoltà con cui si riesce a trovare tempo, disposizione e apertura necessari ad ascoltare, dal momento che l’ascolto è connaturato e anzi vive proprio di silenzio.
    In una disposizione diametralmente opposta ad un atteggiamento accogliente e ospitale nel senso dell’ascolto dell’altro, e prima ancora del proprio sé, va ravvisata, a mio parere, quella solitudine frequente che, seppure di fronte alla presenza tangibile dell’altro, finisce per farci sentire soli; quella che Albert Camus sinteticamente definisce «la solitudine in due».[6] Qui la presenza dell’altro, o la propria, può essere avvolta da un alone di banalità, tanto da farci trascurare la straordinarietà della presenza altrui, fino a renderci incapaci di ascoltare la novità che l’altro costantemente incarna. Non c’è quindi solitudine più grande di quando si avverte la presenza di colui o colei che si ama, che ci è di fronte, come estremamente lontana; o addirittura in relazione alla nostra vita spirituale, l’avvertire un abisso interiore, tra me e me, ci fa precipitare, in solitudine, dentro voragini d’incertezza e disperazione.
    Al contrario vi è uno spazio nel quale è possibile sperimentare il silenzio, che accompagna momenti di solitudine non più temuta, finalmente non come il contrario della comunicazione, non come un superficiale mutismo, ma innanzitutto come esperienza che, in comunione con l’incancellabile presenza di altri, può farci attingere alla fonte stessa del senso.

    Annuncio di futuro

    È in tale spazio che anche la solitudine diventa non solo sopportabile ma ricercata, perché espressione dell’annuncio di un’origine e di un futuro del senso stesso. Nella vita di Etty Hillesum pian piano quest’annuncio rinvia, nella sua esistenza e in quella di chi le è prossimo, oltre ogni silenzio, alla presenza di Dio stesso. Annuncio che nella semplicità si dona anche a noi più attraverso silenzi eloquenti che non per mezzo di parole altisonanti; annuncio che preferisce ricevere in risposta da ciascuno la crescita nel cammino spirituale verso la conoscenza e l’ascolto del proprio essere profondo, anziché un’adesione solo a parole, formale, a cui non corrisponde però il «coraggio di dir di sì ai propri sentimenti più profondi». Così scriveva Etty nel suo Diario, il giorno 31 dicembre 1941, tentando un bilancio dell’anno che volgeva al termine:
    Ora sono quasi le otto e mezzo di sera: l’ultima sera di un anno che è stato per me il più ricco e fruttuoso, e insieme il più felice di tutti. E se dovessi spiegare in una parola perché quest’anno è stato così buono – (…) – allora dovrei dire: per la mia grande presa di coscienza. Il che significa anche poter disporre delle mie forze più profonde. E pensare che una volta appartenevo anch’io a quella categoria di persone che di tanto in tanto pensano di se stesse: sì, in fondo io sono una persona religiosa. O qualcos’altro di positivo. E ora mi capita di dovermi inginocchiare di colpo davanti al mio letto, persino in una fredda notte d’inverno. Ascoltarsi dentro. Non lasciarsi più guidare da quello che si avvicina da fuori, ma da quello che s’innalza dentro. È solo un inizio, me ne rendo conto. Ma non è più un inizio vacillante, ha già le sue basi.[7]
    Ogni coscienza finalmente desta è in ricerca. Per Etty la ricerca non ha i tratti di una conquista né i contorni di un’abile costruzione, è semmai preparazione ad accogliere, è imparare ad ospitare, è trovare un equilibrio armonico tra i complessi eventi esterni e il personale e semplice vivere in profondità.
    La conclusione della mia riflessione riporta, attraverso un movimento circolare, alla premessa mancante a queste pagine: ho scelto di iniziare questo percorso di spiritualità soffermandomi sui temi dell’ascolto, del silenzio e dalla solitudine per ripartire da essi e delineare di conseguenza un accogliente spazio critico e valutativo, l’unico capace di gettare le basi di un possibile cammino spirituale non «vacillante», perché impara ad ascoltarsi, ancor prima di ascoltare ogni altro, iniziando ad ascoltare l’Altro nel silenzio delle proprie «forze più profonde».
    Pensiero critico e quindi non più influenzato, ma, all’opposto, liberato da ogni vincolo o contaminazione esterna, che potrebbero generare un contagio negativo.
    Piuttosto dall’ascolto autentico nascono certezze che con coraggio ci aiutano a rispondere all’annuncio che diventa appello, alla chiamata che in modo personale ci è rivolta.
    Ciò che non va trascurato, e che Etty Hillesum ci ricorda con la sua stessa esistenza, è il fatto che l’appello che il Tu eterno ci rivolge non è facilmente percepibile, dal momento che la «voce» non si presenta a noi con la forza di un vento violento, né nel fragore di un terremoto, né tantomeno nella potenza del fuoco, ma nella semplicità del «mormorio di un vento leggero».[8]


    NOTE

    [1] R. Mancini, Il silenzio, via verso la vita, Edizioni Qiqajon, Magnano 2002, p. 21.
    [2] E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi edizioni, Milano 2005, p. 69.
    [3] D. Bonhoeffer, Vita comune, Editrice Queriniana, Brescia 2004, p. 60.
    [4] E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit., p. 116.
    [5] Ibidem, p. 187.
    [6] A. Camus, L’Envers et l’Endroit, Charlot, Alger 1937; tr. it. di S. Morando, Il rovescio e il diritto, in Opere. Romanzi, racconti, saggi, cit., p. 29.
    [7] E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit., p. 93.
    [8] 1 Re 19, 12.


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