Gino Mazzoli
(NPG 1993-01-17)
La realtà del mondo giovanile è persino troppo nota; costantemente alla ribalta, ma spesso in modo distorto; descritta dai mass media come la «fiera delle stranezze» e alluvionata di statistiche.
Dagli esiti più devastanti (skinheads, ultrà) a quelli più ricchi di potenzialità (volontariato), il pianeta giovani è ipercensito e sovracatalogato, purtroppo però solo sul piano quantitativo: come se per capire i fenomeni bastasse fotografare le varie forme che assume la crosta superficiale. Salvo poi stupirsi di come mai il magma sottostante produca improvvisamente nuove orografie. Ecco allora la consueta corsa a descrivere curiose creste di capelli multicolori o tetri giubbotti borchiati e a studiare nuovi slang; e la solita conclusione sull'incapacità di pensare il futuro da parte delle nuove generazioni.
Forse per questa sorta di saturazione da «descrizioni di crosta» vorrei sottrarmi, nell'affrontare il tema dell'educazione dei giovani alla legalità, al rischio di ammassare nuovi dati, poiché mi sembra decisamente urgente (e trascurato) il tentativo di individuare chiavi interpretative adeguate all'entità delle trasformazioni in atto. Si tratta insomma di lavorare là dove il magma si forma.
Una crisi che mette a dura prova la nostra «tenuta emotiva»
Certo, da che mondo è mondo i giovani hanno sempre cercato di trasgredire le regole dell'ordine costituito; è una legge fisiologica il contrapporsi per crescere. Ma questa rabbia triste, questa trasgressività implosiva così diffusa tra i giovani, indica una preoccupante caduta di speranza peculiare del nostro tempo.
Bisogna però cercare di capire perché pensare il futuro è diventato così difficile. Si dice spesso che attraversiamo una crisi epocale, ma assai di rado si traggono le conseguenze di questa affermazione.
Trovare rimedi alla crisi del diritto, delle istituzioni che lo producono, dell'autorità politica che costituisce quelle stesse istituzioni, non è possibile se la crisi epocale non viene assunta in tutta la sua portata.
Ciò che è andato in crisi è il paradigma moderno, vale a dire una certa modalità di rapporto tra l'uomo e il mondo che ha valorizzato la libertà individuale, ma al prezzo di rimanere imprigionata nell'illusione onnipotente del dominio/sfruttamento totale del mondo. Aumento di conoscenze, problemi planetari che riguardano la sopravvivenza stessa della specie umana, uniti alla grande rapidità di questi mutamenti, hanno sbriciolato un'epoca senza che siano ancora diffusi nella coscienza collettiva processi di adattamento psicologico adeguati all'entità di queste trasformazioni.
La crescita di nuove categorie culturali nell'umanità è un processo molto lungo: è come la crescita di una nuova specie.
Le categorie di «comune natura umana», «comune destino dell'umanità», «comune patria planetaria», si sono affacciate, ma stentano a farsi largo; sono infatti costantemente minacciate da tentazioni regressive, poiché la crescente complessità della vita sociale e il tumultuoso mutamento non possono più essere ricondotti dentro «abitazioni sicure» come il cosmo ordinato degli antichi o il mito moderno del progresso inarrestabile.
Dati di realtà inconfutabili spezzano l'illusione che la politica possa controllare e dirigere i processi sociali fin nei minimi dettagli; nel contempo le istituzioni (intese in senso largo come insiemi di mentalità e di pratiche diffuse') non sono più contenitori in grado di consentire la collocazione dell'azione del singolo individuo nello spazio e nel tempo (ad esempio in quel determinato stadio della missione salvifica del proletariato o in quel preciso momento dell'avanzata inarrestabile del progresso scientifico e tecnologico verso l'immortalità); così le norme giuridiche prodotte da una politica e da istituzioni che l'uomo scopre deboli (o meglio non onnipotenti), non possono che apparire poco autorevoli, precarie, suscettibili di continua ricontrattazione.
Questa crisi epocale sembra dunque mettere a dura prova la «tenuta emotiva» delle persone. Una prova mai sostenuta prima d'ora dall'umanità: è in gioco la sopravvivenza della specie e sono caduti i ripari ideologici.
Il mondo giovanile è il sensore più acuto della durezza di questa sfida e credo che come tale vada preso in considerazione; tra tutti gli «specifici giovanili» che quotidianamente vengono segnalati, questo mi sembra essere il più rilevante.
RIPENSARE LE REGOLE DALLE FONDAMENTA
In una siffatta situazione al pensiero pedagogico si impone (e nel contempo si apre l'occasione) di ripensare dalle fondamenta la prassi sociale nelle sue varie dimensioni (politica, giuridica, economica).
Ciò che mi sforzerò di fare nella prima parte di questo contributo è di proporre alcune linee di comprensione del fenomeno giuridico a mio avviso determinanti per impostare un'azione educativa nei confronti delle giovani generazioni.
Le due funzioni delle istituzioni
Mi sembra più utile partire in questo ragionamento non direttamente dalle regole, ma dai loro luoghi di produzione, e in particolare dalle istituzioni (intese nel senso ampio prima indicato).[1]
Le istituzioni nella storia dell'umanità hanno da sempre svolto silenziosamente due funzioni in ambivalente sostegno reciproco: da un lato costruire la parte gruppale (o sociale) della nostra identità individuale, dall'altro lato difenderci dall'angoscia che deriva da questo fatto.
La costruzione della nostra identità individuale è infatti un processo assai «strano» e complicato.
Un bambino appena nato non sa di esistere: ha bisogno di considerare sua madre un prolungamento di sé, di sentirsi identico a lei, di identificarsi. È curioso constatare come la parola che più esprime la nostra irripetibile individualità abbia una connotazione così «ripetitiva»: identità. (Del resto, prendendo un esempio dal linguaggio militare, la divisa è anche... uniforme).
Eppure sembra proprio che per poterci differenziare dobbiamo prima prendere dentro di noi l'altro. Questo «altro» non è tuttavia una persona singola, bensì qualcosa di collettivo, un «noi»: famiglia, clan, razza (le istituzioni come mentalità e prassi collettive sono il veicolo di questo imprinting storico-ambientale). Insomma portiamo l'altro inscritto nel nostro codice genetico, nei nostri circuiti neurali... «ama il prossimo tuo perché è te stesso» si potrebbe dire.[2]
Una parte del nostro Sé è insomma costituita dai pezzi di «altri» che mettiamo dentro di noi. C'è dunque un pezzo di noi che entra in funzione solo quando siamo in situazioni gruppali (e che solo lì possiamo conoscere, modificare, governare).
È indubbiamente una grossa ferita al nostro narcisistico bisogno di sentirci assolutamente unici; ed è molto naturale che il singolo senta il gruppo, la collettività e le istituzioni (anche) come una minaccia.
In realtà non c'è niente di male in questo processo apparentemente così strano: dentro me c'è un pezzo di Noi, ma questo non mi rende necessariamente un automa. Semplicemente il confine fra il «dentro di me» e il «fuori di me» non è netto. Così come le istituzioni sono fuori, ma anche dentro di me.
Angoscia e contenimento
Il fatto è che dietro e oltre questa paura se ne annida un'altra ben più radicale: il pensiero che qualcosa di esterno a noi contribuisce a costituire la nostra interiorità ci pone inevitabilmente di fronte al problema della nostra origine, al «perché» radicale, al terrore di provenire da una realtà muta ed immutabile, da un inorganico che ci plasma, di ricadere in un caos indifferenziato che ci ha preceduto e di cui portiamo nella mente quasi le stratificazioni geologiche: è in sostanza l'angoscia di fronte a un mondo pensato al di fuori di una prospettiva di Creazione da parte di un Dio personale; il linguaggio in cui cresciamo, la tradizione che ci forma diventano inevitabilmente un Noi impersonale e le istituzioni appaiono come il veicolo di una realtà «altra» che ci rende anonimi.
Poche cose possono essere più violente di questo rapporto che le istituzioni intrattengono con noi:[3] e credo che questa sia la ragione per cui a tutte le latitudini e sotto ogni regime le persone conservano la sensazione che le istituzioni, per quanto buone possano essere, sono comunque anche oppressive.
Ma le istituzioni sono anche il luogo del contenimento dell'angoscia che producono.
Mentalità e pratiche diffuse sono spazi di identificazione collettiva che consentono (come si diceva prima a proposito delle ideologie) di collocare le nostre azioni nello spazio e nel tempo. Le istituzioni rappresentano (nel senso che «danno rappresentanza»): sono cioè uno spazio (innanzitutto mentale) che permette a una pluralità di singoli individui irriducibilmente diversi di sentire la possibilità di una convivenza.
Quello stesso Noi che percepiamo come opprimente poiché plasma una parte della nostra interiorità, allo stesso tempo ci rassicura, ci fa sentire «parte di», consente un legame con l'altro.
Quando poi la mentalità collettiva è un'ideologia che pretende di inglobale (negando o rimuovendo) la dimensione trascendente, l'istituzione ci rassicura (falsamente) anche nei confronti dell'angoscia più radicale, vale a dire quella che deriva dall'interrogativo sulla nostra origine.
Il crollo della funzione di contenimento: angoscia in libertà
Oggi però questa funzione di strutturazione e contenimento che le istituzioni hanno silenziosamente svolto per millenni si è irrimediabilmente incrinata.
Con la seconda guerra mondiale si è come sedimentata nella memoria collettiva dell'umanità la consapevolezza delle nostre potenzialità autodistruttive; successivamente problemi ambientali, demografici, energetici (e oggi persino igienico-sanitari) ci hanno resi edotti che non può esistere un'onnipotente (e odiata, ma rassicurante) stanza dei bottoni in grado di garantirci, comunque vadano le cose, la sopravvivenza.
Dunque non sono più pensabili ideologie e istituzioni onnicomprensive; cambia il nostro rapporto pratico con le istituzioni: queste si sacralizzano e desacralizzano in continuazione senza costituire più un baluardo contro l'irruzione dell'angoscia.
La novità di questa crisi epocale rispetto alle precedenti sta proprio qui: non si tratta più di cambiare nome al contenitore strutturale (illuminismo, marxismo, ecc...), ma di prendere atto che è la stessa funzione di contenimento ad essere entrata in crisi.
Resta attiva l'altra funzione delle istituzioni, quella di costruzione del «pezzo» sociale della nostra identità. Ma senza il riparo di una «spiegazione» ideologica, l'ingresso del Noi nel nostro Sé non può che essere sentito come invasione brutale di una realtà impersonale. All'umanità sembra rimanere solo la «sofferenza istituzionale» senza che possa nemmeno sapere per quale Causa deve soffrire.
Si può allora meglio comprendere la radice degli attacchi, spesso violenti, di cui sono oggetto le istituzioni (e le regole che esse producono) in questo tempo: apparentemente è una richiesta di maggior libertà rispetto a qualcosa che sentiamo come opprimente; in realtà attacchiamo le istituzioni perché ci sentiamo traditi, consegnati al caos; le vorremmo più forti, ma non riescono più a contenere le nostre paure, non riescono più a darci una collocazione nello spazio e nel tempo; ed è per questo che diventa così difficile pensare il futuro.
La storia accelera e ripropone l'interrogativo radicale
Il Concilio ci aveva avvertito che la storia stava subendo una brusca accelerazione. È l'umanità che sta crescendo; ma la crescita non è un processo lineare, né ha esiti assicurati. Si cresce attraverso violente discontinuità, rapidità inattese, ricadute impreviste. Si è sempre esposti al rischio di rimanere eterni adolescenti o di impazzire. La crescita è un percorso ambivalente, come la storia: progredisce simultaneamente sia nel senso del bene che in quello del male.[4] Le crisi sono i momenti topici di questo percorso: l'ordine precedente si frantuma e si libera una grandissima quantità di energia, incanalabile verso esiti creativi o distruttivi.
Da un lato infatti questa crisi epocale offre ad ogni uomo la possibilità di assumersi maggiormente sulle spalle il compito della costruzione della propria identità (di aumentare cioè il peso dell'Io rispetto a quello del Noi). Segnali positivi e importanti vengono dalla diffusione, soprattutto nel mondo giovanile, del volontariato, di nuove spinte all'imprenditività, di gruppi impegnati nella difesa dell'ambiente, della pace, nello sviluppo della cooperazione fra i popoli: si tratta insomma di persone consapevoli della crescente interdipendenza dei nostri destini e disposte a scommettere sul futuro.
Dall'altro lato constatiamo invece quotidianamente esiti distruttivi e autodistruttivi: recrudescenze razziste di fronte all'inarrestabile tendenza alla mescolanza delle culture, proliferazione di nazionalismi e localismi in presenza di problemi politici affrontabili solo su scala planetaria; e, per stare allo specifico del mondo giovanile, stordimento tramite droga o musica a decibel incontenibili, aumento impressionante della frequentazione dei servizi psichiatrici, trasgressività disperata degli ultrà o degli automobilisti del sabato sera.
Certo, ogni cambiamento comporta un attacco nei confronti dell'ordine precedente, ma in genere tende a distruggere in nome di un nuovo da edificare. La peculiarità di questa crisi epocale consiste nel mettere in circolazione un'aggressività spaesata, una distruttività pura: chi a vent'anni brucia un somalo per gioco o dichiara alla televisione con candida violenza che i lager nazisti non sono mai esistiti, avrà certamente avuto un'infanzia travagliata, ma risente anche di un clima più generale.
È il clima creato dal crollo di quella protezione istituzionale dall'angoscia, di cui ho parlato in precedenza; un clima che impone con radicalità la questione della nostra origine. Il problema teologico, rimosso all'inizio dell'epoca moderna, si ripropone oggi dopo la caduta dei suoi succedanei ideologici, all'interno di una sfida i cui termini mai come ora sono stati netti:[5] da un lato un mondo impersonale, di necessità sempre più mortifero ed inorganico; dall'altro un mondo creato da un Dio personale.
Ciò non autorizza la riproposizione di nuovi fondamentalismi. Siamo però costretti a stare in ascolto di questa provocazione radicale; ed è ben comprensibile che ci sgomenti: non si tratta infatti di un problema, ma del problema, da sempre con ogni mezzo rimosso.
Ricapitolando: questo lungo ragionamento ci è servito per dimostrare l'affermazione fatta inizialmente: se le istituzioni perdono le loro funzioni di contenimento, perdono legittimazione e con esse l'autorità politica che le costituisce e le norme che esse producono. La crisi della legalità si colloca dunque prima ancora del problema della moralità dei pubblici amministratori (senza ovviamente che con ciò si debbano giustificare le ruberie). Il problema del rapporto fra i giovani e le regole non è che un aspetto di questa situazione più generale.
Il diritto è una pratica sociale che consiste nella costante costruzione (de- costruzione e modifica) di contenitori sociali: le regole. Una pedagogia giuridica che prenda sul serio la sfida posta dalla crisi epocale deve ripartire dalla ragion d'essere stessa delle norme, rifondarle, ri-nominarle. Una sfida, ma anche una rilevante occasione.
ORDINE STABILITO E ORDINE POTENZIALE
Come le istituzioni le norme giuridiche svolgono una pluralità di funzioni apparentemente contraddittorie: dare spazio, contenere, sostenere, ordinare (nel duplice senso di fare ordine e di comandare), limitare, imbrigliare, mortificare.
Da sempre il dibattito sull'origine delle norme divide chi vede il diritto come prodotto della società e chi invece lo considera un effetto delle statuizioni dell'autorità politica. In realtà le due tesi colgono le due inevitabili polarità entro le quali si svolge l'esperienza giuridica, polarità che esprimono i due diversi sensi in cui può essere intesa la parola «ordine».
Da un lato infatti c'è l'idea di ordine come ordito, come «intreccio che tiene», e dunque con-tiene, mette in relazione, dà certezza e imprevedibilità nel tempo alle azioni umane; anche se nel contempo l'ordito evoca qualcosa di macchinico, di impersonale, di architettato senza il nostro consenso (una trama). In sostanza nell'idea di ordine come insieme di cose ordinate, sono presenti le due funzioni che prima abbiamo visto essere tipiche delle istituzioni, contenere e plasmare; anzi si può dire che le norme che incontriamo quotidianamente nella nostra esperienza siano la scomoda memoria della presenza del Noi nell'identità individuale.
Dall'altro c'è la possibilità di pensare l'ordine come processo ordinante, come continuo lavoro di adattamento, armonizzazione, aggiustamento rispetto alle esigenze del caso concreto.[6] Siamo insomma di fronte a qualcosa che, pur avendo a che fare con le regole, ci richiama a dimensioni di generatività, invenzione, creatività, come se l'essenza più profonda dell'idea di ordine sia quella di inesauribile potenzialità di ordine (un surplus di razionalità - o ridondanza d'ordine - rispetto alle nostre capacità di comprensione, che fa apparire come disordine ciò che in realtà è ordine in costruzione) rispetto al quale l'ordine stabilito (il corpo di leggi che regolano qui ed ora la società in cui siamo inseriti) non è che una concretizzazione storica.[7]
Di solito pensiamo che il diritto sia solo l'insieme delle norme scritte nei codici, cioè solo ciò che possiamo vedere e toccare. Gran parte dell'ostilità che incontrano oggi le norme riguarda proprio questo aspetto statico dell'ordine; è infatti solo nei confronti dell'ordine stabilito (la polarità certezza) che ha senso parlare di disordine. E ciò sembra dovuto alla sottovalutazione dell'aspetto potenziale e dinamico dell'idea di ordine (la polarità aggiustamento continuo), tanto più in un'epoca di tumultuosi mutamenti come l'attuale.
Il diritto come prodotto non finito
Ma rivalutare l'aspetto potenziale e dinamico dell'idea di ordine, significa per la pedagogia giuridica aiutare a vedere il diritto non come un blocco granitico rispetto al quale si può solo prendere o lasciare, bensì come un prodotto non finito: le norme dei codici e delle leggi (l'ordine stabilito) non possono essere pensate prescindendo da quel vasto insieme di norme non scritte, tendenze culturali, comportamenti collettivi in via di consolidamento (l'ordine potenziale), che ognuno di noi con le proprie azioni quotidiane contribuisce a creare.
Se dunque è vero che per un verso il diritto si impone a noi, è d'altra parte vero che la costruzione delle regole rappresenta un'occasione in cui ognuno di noi è chiamato a ridefinire i termini della convivenza con gli altri e dunque ad esercitare un ruolo creativo. Il diritto non si forma solo tramite decisioni dell'autorità politica, ma è innanzitutto stratificazione storica di consuetudini. Per educare alla legalità occorre mostrare come nel nostro atteggiamento verso le regole si possa uscire dall'alternativa tra ossequio formale e contrapposizione frontale, assumendo una posizione inventiva e generativa. Del resto questa sembra la situazione quotidiana più rilevante a disposizione dei singoli perché non si limitino a subire il ruolo plasmante delle istituzioni: le mentalità in cui cresciamo ci formano, ma anche noi contribuiamo a crearle.
Le inevitabili zone di incertezza, contrattazione, conflitto
Una simile concezione (e pratica) del diritto è certamente liberante, ma comporta alcuni «prezzi» da pagare.
Cade infatti il mito della regola onnipotente che definisce in modo certo le cose una volta per tutte.
Se la costruzione dell'ordine è un processo, un aggiustamento continuo, anche la norma che tentasse di prevedere nel modo più dettagliato una eventuale situazione-tipo, non ci eviterebbe, quando questa situazione si verificasse concretamente nella nostra vita di relazione, un lavoro ulteriore di negoziazione e dunque di potenziale conflitto con l'altro. Il conflitto generalmente è fonte di sofferenza (oltre che di crescita); ma proprio il timore di questa sofferenza conduce spesso a costruirci intorno delle camicie di forza (leggi che ci illudono di prevedere tutto, di contenerci infinitamente) che finiscono per farci soffrire ancora di più.
Non si tratta di vagheggiare un ritorno a situazioni pregiuridiche: la regolazione dei comportamenti tramite il diritto è una delle più importanti conquiste dell'umanità. Il punto è che se vogliamo seguire il forte richiamo del Santo Padre circa l'urgenza di un recupero di legalità (10.1.90 Capodimonte-Napoli; richiamo che ha dato spunto all'importante Nota pastorale della CEI Educare alla legalità), dobbiamo prendere atto che il forte tasso di conflittualità che caratterizza, com'è inevitabile, quest'epoca di grandi trasformazioni, richiede di rivisitare dalle radici il problema dell'osservanza delle norme giuridiche.
Un atteggiamento creativo verso le regole
La questione centrale al riguardo mi sembra questa: com'è possibile essere creativi all'interno di un gesto ripetitivo come l'osservanza delle norme?
La metafora della differenza tra la madre e la nurse può servire per spiegarci meglio.
Nel rapporto col bambino (nel ripetersi dei gesti che hanno cura di lui) la madre esercita una funzione strutturante e delimitante, ma lascia anche largo spazio all'espressione e all'incontro fra le due diverse soggettività. Si tratta di uno spazio fatto di incertezze e di impacci, aperto alla possibilità dell'errore: è il tempo della conoscenza, dove la specificità e l'intimità del bambino vengono riconosciute e rispettate (pensiamo a quella naturale «imbranataggine» e attenzione che hanno mamme e papà «novizi» nel prodigarsi in cure nei confronti del loro bambino piccolo).
La nurse in un ospedale è invece tutta sbilanciata sulla funzione di delimitazione e contenimento; si deve occupare di molti bambini e il suo stesso mandato istituzionale la costringe a rispettare i ritmi dell'istituzione e i modi di un mestiere imparato a scuola; tutto ciò le impone di non mettere in gioco la propria soggettività, di trattare tutti i neonati alla stessa maniera, di essere efficiente; fattori questi che non lasciano spazio all'incertezza e all'errore.
Cosa vuol dire tutto questo? Da un lato che c'è ripetizione e ripetizione, e cioè che all'interno del gesto quotidiano di rispetto delle regole non c'è solo spazio per lo sguardo indifferenziato, ma anche per l'approfondimento dei rapporti, l'espressione della soggettività, dunque per la creazione di nuovi contenitori comuni, di nuove regole, o comunque di modi diversi di utilizzarle.
È importante quindi il come si ripete. Dall'altro lato va detto che il modello nurse è il più diffuso non solo perché è meno ansiogeno, in quanto ci espone meno al conflitto e all'errore, ma anche per una necessità inscritta nei rapporti sociali. Ognuno di noi infatti intrattiene una tale quantità di relazioni con persone, gruppi, istituzioni, da non potersi permettere di instaurare esclusivamente rapporti del tipo madre-bambino; non solo, è anche necessario che il mio comportamento sia prevedibile, in modo che gli altri si possano «regolare». Insomma, ognuno di noi, in quanto membro di una società ha, come la nurse, una sorta di mandato istituzionale da rispettare.
Un'educazione alla legalità all'altezza della sfida che questo tempo ci impone deve far crescere la consapevolezza che nella nostra esperienza del rapporto con le regole c'è un'oscillazione costitutiva fra questi due atteggiamenti («madre» e «nurse»), e che dunque non si tratta di negare l'uno a favore dell'altro, ma di curare la qualità dell'interazione fra i due.
LA DIFFICILE ELABORAZIONE DELLA DIPENDENZA
Nella prima parte di questo intervento ho cercato di mostrare le radici Nella prima parte di questo intervento ho cercato di mostrare le radici delle difficoltà presenti nel nostro odierno rapporto con le regole, tentando di individuare alcune piste di riflessione utili a favorire la crescita di uno «sguardo» creativo e costruttivo nei confronti del fenomeno giuridico.
Se focalizziamo la nostra attenzione in particolare sul mondo giovanile, da un lato vediamo che le cose si complicano ulteriormente, dall'altro possiamo trovare chiavi di lettura più profonde della crisi epocale che stiamo attraversando.
Un mondo di adolescenti?
Nei diluvi di riflessioni sul «pianeta-giovani» che quotidianamente ci sommergono, una delle affermazioni più frequenti è la sottolineatura dell'adolescenza prolungata che caratterizza la vita delle giovani generazioni oggi; a ciò si aggiunge di solito la paradossale constatazione che l'adolescenza è un'età negata, cioè non presa in carico, col fardello dei suoi problemi, dagli adulti.
A mio avviso occorrerebbe aggiungere un ulteriore paradosso: l'adolescenza, età negata, costituisce tuttavia il luogo di identificazione collettiva della nostra epoca.
Vediamo di spiegare per gradi questa affermazione.
Un pensatore come Maritain, autore di poche ma intense pagine di pedagogia, ha affermato che con l'epoca moderna l'umanità è entrata nella sua fase adolescenziale: vale a dire ricerca della libertà attraverso la contrapposizione e la negazione di qualsiasi forma di di pendenza (dalla tradizione, da Dio, dai limiti posti alla condizione umana); la storia da quel momento è stata un susseguirsi di «cominciamenti assoluti e radicali», salvo poi ritrovarsi sgomenti di fronte a un mondo che cambia secondo «schemi non previsti». Con l'attuale crisi epocale l'umanità sembrerebbe dunque dover fare i conti con la crisi delle proprie illusioni adolescenziali (le ideologie onnipotenti) e scegliere fra diventare adulta o regredire.
Secondo alcuni studiosi [8] lo specifico dell'adolescente è il continuo cambiamento della «comunità» con cui si identifica: ora si sente parte della comunità degli adolescenti, che disprezza i bambini ed è in lotta contro gli adulti; altre volte si vede proiettato già nel mondo dei «grandi»; altre ancora, accortosi di non riuscire a reggere il peso di un ruolo adulto, si sente impotente e dunque bambino piccolo protetto dalla famiglia.
L'epoca attuale, come si è detto, è caratterizzata da un'impressionante accelerazione della storia; assistiamo in cinquant'anni a evoluzioni che solo duecento anni fa avrebbero richiesto il passaggio di numerose generazioni. Ma questo ci impone di adattarci continuamente a situazioni mentali differenti, di passare con grande rapidità da un clima culturale a un altro, proprio come l'adolescente che oscilla costantemente da una comunità a un'altra. Da tutto ciò viene l'ipotesi che l'adolescenza rappresenti il modello identificatorio per gli adulti della nostra epoca.
Se cambiano le regole del gioco...
Infatti, essendo per la società degli adulti oggi difficile pensare il futuro, viene compiuta una sorta di «investimento al buio» sul nuovo che verrà (i giovani) o, meglio, si proietta su di essi quel desiderio di futuro che in queste condizioni per gli adulti è così difficile da immaginare; e si finisce per imporre ai giovani di essere pieni di speranza.
Così si finisce per diffondere implicitamente una filosofia della vita secondo cui si può essere carichi di speranza solo all'inizio del cammino, ma non si può fare a meno di procedere inesorabilmente verso la disperazione.
In questo modo gli adulti abdicano al loro mestiere: chi altri infatti dovrebbe essere portatore di speranza se non le persone che hanno capitalizzato una lunga esperienza della vita?
Accade invece che gli adolescenti vengano considerati già adulti. Ciò indubbiamente collude col desiderio di onnipotenza dell'adolescente e nel contempo sgrava l'adulto dalla difficoltà di accompagnare faticosi percorsi di crescita all'interno di una società complessa e in rapida evoluzione.
Il risultato è che sovraccarichiamo i giovani di aspettative nel momento stesso in cui neghiamo i loro bisogni, e li neghiamo perché il loro bisogno di futuro è anche il nostro.
Dentro questo illusorio guscio di onnipotenza i giovani sono messi a dura prova: è davvero difficile essere all'altezza di questi grandi investimenti compiuti su di loro dai «grandi». Anche perché non esistono autorità credibili con le quali arrabbiarsi, ma anche cui chiedere di essere accompagnati nei tratti più duri del percorso.
In questo gioco di falsi rispecchiamenti diventa assai arduo affrontare il nodo pedagogico centrale per gli adolescenti, e cioè la rielaborazione della dipendenza, da intendersi non solo come scacco e mortificazione, ma anche come condizione necessaria per crescere. Le regole in particolare rappresentano la continua rievocazione della dipendenza e del limite; ma se gli adulti cambiano le regole del gioco, imponendo ai giovani di essere adulti, come sarà possibile chiedere ai giovani di rispettare le regole prodotte dagli adulti?
I giovani sono un ottimo sensore del nuovo che sta crescendo. Ma ciò che sta crescendo non necessariamente matura; e matura solo se è coltivato. Ma nessuna pedagogia è possibile se è paralizzato il pensiero del futuro.
In questa situazione è molto difficile diventare adulti, poiché ogni incontro con regole, rischi o bisogni, viene stemperato in un alone iperprotettivo.
Il bisogno dell'altro
In primo luogo la nostra società evoluta mette raramente un adolescente nella condizione di fare l'esperienza di avere bisogno dell'altro. A parte l'aumento dei figli senza fratelli (che impedisce al giovane di sperimentare la vicinanza di una persona più piccola che ha più bisogno di lui), ogni bambino viene progressivamente equipaggiato con un'efficacissima attrezzatura per farsi da sé: un certo utilizzo del computer consente di simulare il mondo in una stanza, col rischio poi di vivere una vita simulata. Sempre più di rado si ha necessità dell'altro per bisogni materiali; cercare l'altro è dunque sempre più una scelta.
Così la vita di relazione autentica, che comporta la fatica del confronto quotidiano, il rischio di non essere accettati e di entrare in conflitto con gli altri (ma che è anche l'unico luogo dove possiamo essere davvero creativi), è sempre meno un'abitudine e sempre più un optional. Il bisogno di comunicare però non può essere represso oltre una certa misura: i grandi raduni del sabato sera, e soprattutto il disperato bisogno di prolungarli fino alla mattina successiva, sembrano attestare l'esigenza di un contatto, almeno fisico, in assenza di quello creativo.
Rischio e opportunità
L'ideogramma cinese che significa «adolescenza» è composto da due segni: il primo significa «rischio»; il secondo «opportunità» (opportunità di evoluzione e rischio di caduta).
Rischiare vuol dire giocarsi nel futuro; per farlo occorre avere speranza. E la speranza è autentica solo se è accompagnata costantemente dalla consapevolezza del possibile fallimento dei nostri progetti. Speranza e disperazione sono dunque due sentimenti contigui.
Ma oggi per i giovani le opportunità per affrontare un rischio autentico (quindi per crescere) sono sempre più rare. E questo non solo perché la società è iperprotettiva, ma soprattutto perché non esistono più prove riconosciute come «iniziazioni» alla vita adulta. Quando un giovane supera l'esame di maturità o quello di laurea, o prende la patente, sente tutto il peso di una prova decisiva da superare (se non ce la fa è un «tagliato fuori»), ma in realtà affronta micro-prove che decidono solo di una piccola parte di sé; infatti la società degli adulti da un lato esige la buona riuscita, dall'altro non conferisce lo status adulto a chi riesce. Non apprezza il rischio, dunque non offre opportunità.
I giovani così finiscono per crearsi dei rischi artificiali (free climb, deltaplano, sfide motociclistiche o automobilistiche ad alta velocità). Rischi mortiferi: se ti va bene non hai premi, se ti va male muori.
Regole senza sanzioni
Ma questo rischio artificiale è più in profondità l'espressione di un bisogno (frustrato) di trasgredire. In una situazione indifferenziata dove gli adulti «fanno i giovani» e i giovani non diventano mai adulti, l'adolescente non sa più con tro chi sta trasgredendo; si batte come in una mischia in cui si picchia a caso.
Nessuno si arrabbia più di lui; nessuno tiene duro sulla sua posizione. Ma perché sia possibile la trasgressione non è sufficiente che le regole esistano; devono anche essere sanzionate, dev'esserci una reazione alla violazione della regola.
«Se tu non mi imponi dei limiti» sembra dire l'adolescente «io tento di infrangere i miei limiti vitali. Cos'altro mi resta da fare per farmi ascoltare da te, per farti capire che ho bisogno, che mi sento abitato da forze cattive e violente che mi fanno paura e che vorrei tu contenessi e aiutassi a crescere?».
L'atteggiamento richiesto a questo proposito all'educatore è particolarmente difficile. Infatti mentre deve essere «buono» con le parti buone dell'adolescente (cioè deve incoraggiarle ed aiutarle a crescere), allo stesso tempo deve essere «cattivo» (un polo di confronto dialettico e fermo, anche repressivo) con le parti cattive (cioè distruttive e autodistruttive). La cosa è complicata perché tutte queste parti appartengono alla stessa persona: come può sentirsi accettata se ne rifiutiamo un pezzo?
Tolleranza levatrice di guerra
Tocchiamo qui un postulato ideologico particolarmente caro alla cultura contemporanea: il mito della tolleranza ad omnia, figlio dell'idea liberale di democrazia, fondata sul presupposto illuminista dell'onnipotenza delle regole e della razionalità dei cittadini. Le regole fissano le modalità con cui risolvere i conflitti, e ai cittadini (stimati tutti maturi e portati a cercare, nella peggiore delle ipotesi, il loro utile particolare) è lasciato il compito di adattarle alle singole situazioni.[9] Passioni, sentimenti distruttivi e irrazionali non vengono assolutamente presi in carico. Questa sorta di «fondamentalismo della tolleranza» finisce per disconoscere radicalmente la persona. Infatti, mentre i regimi totalitari sono come dei genitori persecutori che opprimono i figli con un'esigenza di controllo assoluto, le nostre democrazie sembrano genitori assenti che depositano i figli nel box di giocattoli e se ne dimenticano.
In sostanza, la democrazia liberale (quella dei cosiddetti Paesi a capitalismo maturo) non educa ad assumere il conflitto, a riconoscere e a «gestire» le nostre parti «cattive». Ma l'aggressività non riconosciuta da qualche parte inevitabilmente esplode: i movimenti più reazionari presenti oggi nel mondo sono tutti a prevalenza giovanile La tolleranza rischia così di diventare levatrice di guerra.
Certo, è molto difficile gestire le situazioni conflittuali in un tempo come il nostro in cui la caduta delle tettoie ideologiche ci fa sentire come deflagrante di ogni conflitto.
D'altra parte il modello pedagogico-politico liberale, mentre sembra in grado di governare le fasi di tranquillità sociale e di espansione economica, non pare attrezzato a contenere le spinte distruttive che emergono nei periodi di grande trasformazione. In questi momenti infatti si liberano impressionanti quantità di energia e il campo non può essere occupato che da grandi passioni che si fronteggiano. In assenza di una grande passione democratica, le attuali energie ancora disponibili finiranno per incanalarsi dentro piste regressive.
Il neofascismo francese, il leghismo italiano, certe frange del fondamentalismo islamico non possono infatti essere affrontati solo col pur necessario richiamo al rispetto delle norme, alla dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (decisiva e travagliata conquista dell'umanità); limitarsi a ciò significherebbe intendere la democrazia solo come un insieme di regole o di meccanismi istituzionali,[10] quando in realtà essa è innanzitutto una mentalità: atteggiamento attivo e creativo della persona rispetto al contesto sociale in cui si trova; attitudine alla mediazine matura fra realtà esterna e impulsi interni; capacità di rispettare la diversità dell'altro riconoscendo i valori di cui è portatore.[11]
Quando parlo di «passione democratica» mi riferisco al prendere partito esplicitamente a favore della crescita (faticosa e sempre esposta a ricadute) di questa mentalità. Dire che solo una simile passione può contrapporsi alle passioni distruttive non significa necessariamente evocare scenari repressivi. Lavorare per allargare gli spazi di democrazia [12] (intesa innanzitutto nel senso prima descritto) è la forma più efficace di «lotta alla distruttività».
Ciò richiede un atteggiamento premuroso, ma non ingenuamente disarmato (dunque, se occorre, anche repressivo); in ogni caso molto costoso sul piano psicologico.
Maritain giustamente sottolineava [13] che alla democrazia è necessaria l'ispirazione evangelica, non per proporre una politica integralista, ma perché la fatica che l'atteggiamento democratico richiede non è sostenibile senza una motivazione religiosa.
Perché una civiltà diventa non sanzionatoria?
Ma come mai per la nostra civiltà è diventato così difficile sanzionare le regole, assumere i conflitti, far crescere i giovani?
Perché gli adulti si identificano con gli adolescenti? Perché le madri frequentano le stesse discoteche delle figlie (a orari, o in giorni, diversi) creando nuovi tipi di separazione tra le generazioni, cioè compartimenti stagni rappresentati da scansioni temporali?
Perché in questo modo si rimuove il passare del tempo. Risposta, si dirà, alquanto banale; ma vediamo se è proprio vero. L'umanità, si diceva all'inizio, sembra sempre più incapace di pensare il futuro. Ma questo significa che l'idea stessa di crescita è paralizzata. Così si diffonde inconsapevolmente la sensazione di essere tutti nella stessa barca, adulti e giovani, senza più differenze, accomunati in questo stato «fusionale» dalla paura; paura per la sopravvivenza della specie che diventa paura di riconoscere le diversità, paura della libertà e via di seguito.
Il fatto è che quest'epoca, come si è detto, impone un ritmo velocissimo alla storia. Per governare questo cambiamento l'uomo dovrebbe togliere la rimozione che la nostra epoca ha operato sul problema della morte e della nostra origine (cioè intorno a quella domanda radicale suscitatrice di angosce che le istituzioni non riescono più a contenere).
Per questo l'uomo rimuove il passare del tempo, tenta di inseguire il cambiamento cercando di correre più in fretta («stare al passo coi tempi»); accumulando abilità non necessarie, facendo tantissime cose e producendo tantissime norme.
Abbiamo detto in precedenza che il Concilio Vaticano II ci ha avvertito che la storia ha accelerato; questo però non significa che bisogna andare più forte, bensì più a fondo, per «fiutare la storia», per capire e orientare il cambiamento.
PER RICAPITOLARE CON QUALCHE SPUNTO OPERATIVO
Il senso del ragionamento svolto nella seconda parte del mio intervento Il Il senso del ragionamento svolto nella seconda parte del mio intervento può essere riassunto in uno slogan: riappropriamoci delle età. Se gli adulti ricominceranno a fare gli adulti, i giovani avranno più possibilità di essere giovani, di confrontarsi, di trasgredire, di chiedere di essere contenuti, dunque di crescere.
Solo se un individuo può sperimentare di essere giovane può diventare adulto.
Negare le età significa impedire di mettere a tema il problema della dipendenza; ma senza un'elaborazione della dipendenza non può esserci un rapporto maturo verso le regole.
Abbiamo visto come la negazione della specificità delle età dipenda dall'incapacità di pensare il futuro, e come questa a sua volta derivi dalla caduta della funzione di contenimento da sempre svolta dalle istituzioni.
Sul piano operativo non è possibile affrontare in modo globale problemi di questa portata. Perciò occorre ipotizzare percorsi parziali, aggiustamenti piccoli, ma guidati da una logica «eversiva» delle attuali rimozioni collettive.
Contenere la distruttività e generare anticorpi
Che fare allora? Le indicazioni utili per la pedagogia sono le stesse da raccomandare alla politica.[14]
Tenterò di offrire alcuni spunti operativi che rappresentano in pratica la ricapitolazione del discorso fatto in queste pagine. È importante a mio avviso lavorare su due livelli.
Sul piano dell'ordine stabilito occorre:
- pedagogicamente: favorire l'elaborazione di un senso maturo della dipendenza e l'accettazione del limite;
- politicamente: produrre norme con funzioni di contenimento e repressione delle parti distruttive (regole e istituzioni non reprimono solo desideri e creatività, ma anche violenza e tendenze mortifere).
Sul piano invece dell'ordine potenziale è necessario:
- pedagogicamente: sviluppare la consapevolezza che il diritto non è qualcosa rispetto a cui ci troviamo «di fronte», ma è una delle dimensioni essenziali e inevitabili della nostra esperienza, qualcosa che «funziona» dentro di noi a una pluralità di livelli, più o meno complessi, della nostra vita di relazione (coppia, famiglia, gruppo, associazione, ecc.): «pratichiamo», costruiamo e modifichiamo quotidianamente regole, poiché esse rappresentano il patto che continuamente ilnostro Io ridefinisce con l'ambiente esterno; sono uno spazio di contrattazione, di invenzione, e quindi di incertezza e di conflitto.
Sarebbe interessante realizzare sperimentazioni pedagogiche in grado di accompagnare gli adolescenti a cogliere le connessioni tra l'organizzazione giuridico-istituzionale dei vari luoghi in cui fanno esperienza e le idee che vengono proposte in quei luoghi; ad esempio, si potrebbe immaginare un percorso per gli studenti delle scuole medie - superiori, ma eventualmente anche inferiori - che metta a confronto l'esperienza della gestione dell'incontro con norme e istituzioni compiuta dall'umanità nel corso della sua storia e incontrata dai giovani sui libri di testo, con l'esperienza dell'incontro con le regole dell'istituzione scolastica in cui sono inseriti. Ciò renderebbe tra l'altro la scuola stessa maggiormente consapevole dei valori che comunica implicitamente attraverso la nuova struttura organizzativa.
- politicamente: generare «anticorpi sociali» rispetto alle tendenze regressive, favorendo la crescita di abiti mentali, comportamenti e regole in grado di rappresentare «nuovi contenitori», meno onnipotenti delle ideologie crollate, e dunque più sintonizzati sul concreto procedere quotidiano dell'uomo; un uomo certamente meno «prometeico» rispetto all'immagine proposta dall'epoca moderna, ma non per questo meno carico di dignità.
A questo scopo risulta preziosa l'indicazione contenuta sia nella Centesimus Annus (cap. V), sia nella Nota pastorale Educare alla legalità (n. 177), circa la necessità di rafforzare la valenza politica della società civile.
Se in quest'epoca la politica si è allargata, se si è incrinata l'assolutezza del livello intermedio (stato, partiti, ideologie) e la politica è sempre più una dialettica tra problemi planetari e situazioni locali, occorre dare dignità e volume politico ai nostri contesti quotidiani di impegno sociale, perché la consapevolezza che una società complessa non può avere un'unica onnipotente stanza dei bottoni ci restituisce la scomoda ma affascinante responsabilità di presidiare la funzione di governo in modo diffuso, dalla base.
L'esperienza, ormai così diffusa del volontariato (non a caso in netta prevalenza cattolico [15]) nel nostro Paese costituisce un importante segnale dell'avvenuta generazione di anticorpi in grado di fronteggiare le spinte disgreganti.
I gruppi di volontariato (arcipelago variegato che qui non si intende assolutamente mitizzare) sono infatti spesso luoghi autenticamente intergenerazionali, dove la comunicazione fra le persone non è drogata, perché avviene intorno a un operare concreto che cerca di tenere insieme idealità e progetto.
Quelle che qui ho indicato non sono che piccole tracce per il lavoro degli educatori. Risulta evidente dal peso che in queste pagine hanno le considerazioni generali, come a mio avviso il nodo centrale per la costruzione di un rapporto maturo tra giovani e regole risieda nello sforzo di «conversione culturale» (guardare le solite cose da un nuovo punto di vista) da parte degli adulti e dunque degli educatori. I ragionamenti che qui ho svolto tendono appunto a favorire questo sguardo nuovo sul nostro fare quotidiano: così difficile da decodificare sotto il velo della sua apparente «naturalità», della sua «accecante» chiarezza.
NOTE
[1] Se si definisce l'istituzione come «complesso di valori e di consuetudini che regolano durevolmente i rapporti sociali, indipendentemente dall'identità delle singole persone», allora anche le ideologie possono rientrare in questa definizione. Cfr. L. Gallino, Dizionario di sociologia, Torino, 1978.
[2] Cf G. Prodi, La biologia e il diritto alla vita, Rivista di filosofia, n. 25-27, 1987, pp. 594-600.
[3] R. Kaes, «Realtà psichica e sofferenza nelle istituzioni», AA.VV., L'Istituzione e le istituzioni, Roma, 1991, p. 14.
[4] È la cosiddetta «legge del doppio progresso contrastante» che Maritain enuncia in Per una filosofia della storia, Brescia, 1967, pp. 40-46.
[5] Cf J. Maritain, Umanismo integrale, 4 ed., Roma, 1968, p. 86.
[6] Per i greci il Logos era il principio ordinatore dell'universo; per gli ebrei la parola del Signore è l'attività di Dio nel mondo; la radice linguistica indoeuropea ar che esprime l'idea di ordine fornisce la base sia per parole che indicano legame o rito, sia per altre che significano articolare, apparecchiare, equipaggiare, adattare, aggiustare, armonizzare. Cf E. Benveniste, Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, 1976, p. 358. La parola arte, di certo più evocatrice di creatività che non di serialità, deriva anch'essa da questa radice.
[7] E Viola, Autorità e ordine del diritto, Torino, 1897, p. 70
[8] D. Meltzer, Teoria psicoanalitica dell'adolescenza, «Quaderni di psicoterapia infantile», n. 1, 1991, pp. 15-32.
[9] Si spiega così il ruolo demiurgico, certamente sproporzionato alle loro concrete possibilità, di cui i giudici vengono investiti nella soluzione dei conflitti sociali.
[10] Lo stesso dibattito che si sta svolgendo nel nostro Paese intorno al tema delle riforme istituzionali sembra essere viziato da quest'ottica riduttiva (ancora figlia del mito dell'onnipotenza delle regole)
[11] Si tratta di una mentalità che si concretizza in modelli storici (mai esaustivi rispetto all'ideale ispiratore) il cui grado di democraticità non è dato da un'impossibile perfezione del modello, ma dalla capacità del modello stesso di consentire la compresenza di una pluralità di modi di intendere la democrazia. Si potrebbe dire che nell'inconscio dell'umanità la parola «democrazia» indichi il processo storico attraverso il quale l'uomo ha maturato la sua capacità di vivere in comunità rispettando la diversità, riconoscendone il valore e creando le condizioni per una solidarietà autentica. Sembra dunque che questo termine racchiuda e ricapitoli in sé un patrimonio di acquisizioni, avvenute in diverse epoche della storia dell'umanità, rispetto alle quali le molteplici definizioni («democrazia formale», «democrazia sostanziale») non fanno che accentuare ora l'una ora l'altra
[12] Contrariamente a quanto in genere si pensa, la democrazia è un esperimento ancora largamente minoritario nel mondo; non solo anche all'interno di quei Paesi che comunemente definiamo democratici solo alcuni strati dell'organizzazione sociale sono permeati dalla mentalità democratica. Vi sono organizzazioni come l'esercito, la burocrazia e le imprese che sembrano impermeabili alla democrazia; si tratta di strutture che permangono al di là delle ideologie e dei regimi politici che si succedono nel governo di una nazione, tanto che il senso comune finisce per fornire giustificazioni alla loro non democraticità, in genere invocando l'esigenza di efficienza (quasi che efficienza ed equità non possano nel modo più assoluto viaggiare in coppia). La scommessa principale della democrazia contemporanea è appunto quella di permeare, come mentalità e come prassi, anche queste zone più refrattarie.
[13] Cristianesimo e democrazia, Milano, 1953.
[14] È stato detto che la politica è una forma complessa di pedagogia (G. Prodi, Homo Hypoteticus, Micromega, n. 2. 1989, pp. 106-107). Verissimo, ma si potrebbe dire anche il contrario tanto le due dimensioni sono intrecciate fra loro.
[15] La Chiesa italiana (non ci riferiamo con questa espressione solo alla gerarchia ecclesiale) non possiede una tradizione di teologia sistematica come quella tedesca, ma ha prodotto una teologia pratica. una pastorale del quotidiano, assai vicina ai bisogni della gente. La Chiesa ha una presenza molto ramificata e variegata all'interno del sistema sociale italiano e sembra avere una sorta di capacità plastica di adattamento alle ondulazioni della società, che le ha consentito nel corso della storia del nostro Paese di essere più in grado, rispetto ad altri settori sociali, di interpretarne le esigenze e di rappresentarle sul piano politico. Il Partito Popolare nel primo dopoguerra, la Democrazia Cristiana nel secondo dopoguerra, il volontariato e le scuole di formazione all'impegno socio-politico negli anni Ottanta: il mondo cattolico sembra essere un importante produttore di anticorpi per i mali del sistema politico italiano.