Qualche suggerimento
Riccardo Tonelli
(NPG 2013-01-06)
Chi si interessa di pastorale giovanile con un poco di esperienza alle spalle, conosce certamente quello che è capitato, a livello mondiale, nell’ambito della educazione dei giovani alla fede.
Venivamo da stagioni sicure, ben strutturate, fortemente propositive. In fondo, il problema di cosa dire e di cosa fare... non c’era. Sapevamo bene quasi tutto e le difficoltà erano sempre scaricate sui destinatari. Era colpa dei giovani e della loro costitutiva fragilità o era colpa dei tempi, particolarmente difficili, o di qualche soggetto poco impegnato se le cose non andavano per il verso giusto. Noi «responsabili» avevamo fatto tutto il possibile. E ci sentivamo abbastanza apposto.
Poi tutto è entrato in crisi, come per una folata improvvisa di vento che scombussola i fogli depositati in bell’ordine sul tavolo di lavoro.
Ne abbiamo provate tante, sotto tutti i profili. Spesso avevamo la benedizione dei nostri responsabili ufficiali. Qualche volta erano più le preoccupazioni che i sostegni.
Un poco alla volta, molte scelte fondamentali si sono consolidate. Sono diventate una specie di riferimento obbligato per coloro che riconoscevano come irrinunciabili determinate linee di azione, teologica ed educativa,. Anche i piccoli gesti e le intuizioni di un momento felice trovano ancoraggio e sostegno in queste motivazioni di fondo.
Alle prime generazioni, che avevano maturato un quadro rinnovato, nella fatica di una specie di rigenerazione culturale e prassica, sono subentrate generazioni nuove. Esse ignoravano il cammino precedente. Restavano facilmente affascinate da modi di dire e di fare. Scavando un poco era facile rendersi conto quanto fosse fragile l’ancoraggio e la visione globale di certi modi di fare. Alla constatazione vanno aggiunte la diffusa soggettivizzazione anche culturale e il difficile riconoscimento del dono prezioso di altre esperienze, virtù tipiche di questa nostra stagione culturale.
Questa è una stagione fortunata. Ha però i suoi problemi, ci sono tensioni, ci sono modi assai diversi di affrontare la stessa questione. Ma innegabilmente l’attenzione attuale è alta e le realizzazioni preziose. Nessuno può guardare con nostalgia al passato, come se allora le cose andassero meglio di oggi. Siamo in una stagione felice e impegnativa per la pastorale giovanile. Tutto questo è bello e rende felice il compito di chi lavora nella pastorale giovanile.
Ci mettiamo a pensare e a progettare la pastorale giovanile in questo clima culturale. Lo dobbiamo conoscere e valutare per non restarne influenzati negativamente e soprattutto per progettare sapientemente. Sto raccontando l’esperienza dell’Italia, ma ho l’impressione che sia facilmente generalizzabile.
Una prospettiva
Il primo compito, secondo il mio modo di pensare, consiste nella scelta di una prospettiva. Ogni istituzione, ogni gruppo, ogni operatore è chiamato a decidere la prospettiva in cui collocarsi: per la ricerca dei problemi da affrontare e per decidere quali risorse utilizzare e come intervenire per risolvere i problemi.
Un esempio può aiutare a spiegare meglio l’affermazione. Chi vuole fotografare un panorama molto ampio, prima di scattare la sua fotografia storica, deve decidere il punto in cui piazzare la sua macchina. La scelta è decisiva: la prospettiva influenza non poco il risultato dell’operazione.
In una stagione di pluralismo è importante mettere le mani avanti dichiarando la propria collocazione.
Questo primo compito sembra più teorico che pratico. Con le tante cose da fare può lasciare l’impressione del tempo perso. Lo considero però indispensabile e urgente (tutt’altro che tempo perso) e decisamente pratico (anche se per il momento sono… sospese tutte le azioni).
Faccio una proposta, suggerendo la prospettiva in cui mi riconosco e che, in questi lunghi anni di servizio alla pastorale giovanile, ho posto come riferimento fondamentale.
Con una battuta la chiamo quella di Pietro che risponde alle attese dello zoppo, incontrato alla Porta Bella del Tempio, raccontandogli la storia di Gesù, specialista nella guarigione degli zoppi e… lo zoppo guarisce e riconosce Gesù.
Mi spiego.
Gli «Atti degli Apostoli» (cap. 3 e 4) raccontano quello che ha combinato Pietro quando ha incontrato la mano tesa di un povero paralitico alla Porta Bella del Tempio e la sua difesa davanti al Sinedrio, quando gli è stato contestato quello che ha fatto, soprattutto a causa del disturbo dell’ordine pubblico, causato dal suo intervento. Dichiara, senza incertezze, che lo zoppo cammina perché tutti sappiano che Gesù è l’unico nome in cui è possibile avere la vita. Lo proclama davanti a coloro che l’avevo ucciso nel nome di Dio, ricordando che Dio l’ha resuscitato, per mostrare con i fatti dove si colloca il suo progetto.
Allo zoppo che chiede elemosina, Pietro parla di Gesù. E lo zoppo guarisce. Pietro non gli dà i pochi spiccioli che lo zoppo si attendeva per arrivare a sera. Gli dà molto di più: l’incontro con Gesù e la guarigione. Lo zoppo è rimasto felicissimo… di non essere stato esaudito. Nell’incontro con Gesù, annunciato da Pietro, ha cambiato la sua vita. Né lui né Pietro sono rimasti prigionieri della rete stretta di domanda e risposta.
Meditando l’esperienza di Pietro, rilancio una convinzione, che giustifica passione e impegno: l’annuncio di Gesù è il grande gesto di amore che possiamo fare nei confronti dei nostri amici, per restituire ad essi vita, consolidare la speranza, sollecitare ad una responsabilità radicale per la causa del regno di Dio. Non può mai diventare un processo di proselitismo e nemmeno qualcosa che assomigli al bisogno di esternare i pregi della squadra per cui facciamo tifo. È sempre e solo un gesto di amore, totalmente gratuito e radicalmente decentrato verso gli altri.
Questo mi sembra oggi il punto di prospettiva, da riscoprire, approfondire, rilanciare.
Tre compiti urgenti
La storia di Pietro fornisce la prospettiva in cui collocarsi per costruire un buon progetto di pastorale giovanile.
Non risolve nessun problema e non ci esime dalla fatica di pensare, progettare, lavorare. Se è presa sul serio, diventa però uno stimolo inquietante per un lavoro serio da togliere il sonno e il respiro.
Da questa prospettiva io colgo tre compiti urgenti. Li consegno alla passione intelligente di chi mi ascolta.
Questi sono i tre compiti decisivi per un progetto di pastorale giovanile:
– individuare bene le sfide con cui siamo chiamati a misurarci. Con la battuta della prospettiva proposta: scoprire dove e come zoppicano i giovani, per non sbagliare terapia avendo sbagliato la diagnosi;
– selezionare le risorse di cui disponiamo (e sono ancora tante) per impegnarle in un preciso e concreto servizio educativo;
– riaffermare l’urgenza della evangelizzazione (nuova nell’ardore e nella qualità) per restituire al Vangelo il dono di essere ancora una «bella notizia» per la vita e la speranza di tutti, capace di far camminare gli zoppi.
Nello sviluppo di questi tre compiti urgenti nasce e si articola tutta la pastorale giovanile: il servizio della comunità ecclesiale verso i giovani per dare ad essi vita e speranza.
Li approfondisco suggerendo qualche interpretazione e qualche linea di azione, nel limite della mia sensibilità ed esperienza.
DOVE ZOPPICANO I GIOVANI: LE «SFIDE»
È indispensabile, prima di tutto, individuare i problemi «veri».
Spesso i problemi che ci premono addosso sono problemi veri e reali.
Qualche volta, purtroppo, sono problemi falsi.
Possono essere falsi per differenti ragioni: o perché ce li siamo proprio inventati, forse per eccesso di zelo; o perché rappresentano qualcosa che non ha radici solide; o perché sono solo di una fetta di gente, alle prese con i propri problemi per non accorgersi di quelli gravissimi che attraversano l’esistenza dei più.
Ho ricordato che Pietro ha parlato di Gesù allo zoppo, raccontando certamente dei tanti interventi attraverso cui Gesù ha restituito vita alle gambe rattrappite degli zoppi che ha incontrato. Altre indicazioni avrebbero lasciato indifferente lo zoppo e forse indispettito di questo bel tipo che invece di dargli l’elemosina richiesta, gli ruba i clienti con le sue chiacchiere, devote e inutili.
Partiamo quindi dalla identificazione, seria e motivata, di dove «zoppicano» i giovani: e cioè delle sfide con cui la nostra pastorale giovanile è chiamata a confrontarsi.
Invito a ripensarci proprio da questa prospettiva.
Partiamo dalle «sfide»
Per cogliere i problemi veri, la prima operazione da mettere in cantiere consiste nella decisione di individuare in modo riflesso e critico quali sono in concreto le preoccupazioni prioritarie e specifiche. Chiamo questa operazione la definizione delle «sfide».
Parlare di «sfida» è una precisa scelta di campo. Ci colloca nella realtà quotidiana con un atteggiamento che non è rassegnato ma neppure solo critico e reattivo.
Sfida significa, infatti, un’interpretazione riflessa del vissuto culturale attuale per cogliere i segni di novità presenti e quei dati di fatto che provocano il progetto di esistenza diffuso e generalmente consolidato. La «sfida» è, di conseguenza, un contributo e soprattutto una provocazione che regala contributi preziosi, proprio mentre sollecita ad intervenire coraggiosamente.
La scelta di individuare le sfide per selezionare e organizzare le risorse disponibili è una condizione fondamentale – teologica e antropologica nello stesso tempo – per assicurare un servizio qualificato.
Per individuare le sfide che urgono le comunità cristiane, suggerisco qualche indicazione generale, su cui misurare anche le indicazioni concrete: una mia interpretazione di sintesi dei problemi che attraversano l’essere giovane in questo tempo e che quindi investono violentemente la pastorale giovanile.
La domanda di senso e di speranza
Interpretando, con amore lucido, il vissuto giovanile attuale, affermo la presenza di una diffusa domanda di senso: quello che tutti i giovani cercano, anche nelle espressioni più disturbate, riguarda il senso e la speranza, ragioni di vita e di futuro e la rassicurazione che conforta ogni piccola quotidiana conquista. Constato però che questa ricerca di senso è affannosa e spesso disturbata. Significa che non corrisponde ai nostri parametri spontanei ed esige, almeno in molti casi, una coraggiosa scommessa educativa per definirla in questo modo.
Non mi convince l’affermazione che i giovani del nostro tempo sono in ricerca di esperienze religiose, di spiritualità, di proposte forti e coinvolgenti. Mi sembra una valutazione parziale, che privilegia alcune manifestazioni o tende a generalizzare su alcuni soggetti privilegiati. Forse pesa eccessivamente il mondo delle nostre attese o la nostalgia dei felici ritorni.
Certamente ci sono molti giovani impegnati coraggiosamente nella ricerca di una forte esperienza religiosa. Essi fanno parte di quei giovani fortunati che sono stati aiutati a superare le tensioni del tempo che stiamo vivendo. La constatazione rappresenta una preziosa indicazione di prospettiva pastorale. Spesso però è facile constatare che anche questi giovani sono segnati dalle logiche culturali del nostro tempo. Vivono la ricerca di esperienze religiose secondo le modalità tipiche dell’oggi: soggettivizzazione e disincanto, disponibilità e autonomia, separazione tra confessione di fede e scelte etiche.
La diffusa crisi attuale e la inquieta domanda giovanile interpellano noi adulti e soprattutto noi educatori della fede a quel livello di profondità competente ed esigente, in cui possiamo radicare veramente la riconquista di una relazione perduta.
Si tratta di un «grido», forte, verso noi adulti: un dono che non ci lascia tranquilli e che ci carica violentemente delle responsabilità che non possiamo certamente scaricare su altri e che, nello stesso tempo, ci fa scoprire che è tempo di camminare coraggiosamente assieme, condividendo gioie e inquietudini.
I vecchi modelli non funzionano più. Ripercorrono le strade superate e aumentano il disagio dell’orfanità. Qualcuno stenta a capirlo. I giovani ci chiedono invece di essere adulti nuovi, capaci di camminare con loro e di condividere la ricerca e l’esperienza del senso e della speranza. In fondo ci fanno un dono impensabile: ci chiamano a diventare sempre più padri e madri, sapendo generare al senso e alla speranza.
ORGANIZZARE LE RISORSE
Sotto la preziosa provocazione delle sfide in atto (e della loro interpretazione in un’esplicita prospettiva di fede) la comunità ecclesiale, impegnata nella pastorale giovanile, organizza le risorse di cui dispone.
Organizzazione delle risorse comporta tre operazioni, urgenti e complementari:
– l’inventario delle risorse di cui può disporre
– la selezione per definire quali sono utili rispetto al controllo delle sfide e alla loro risoluzione
– una nuova organizzazione, per procedere dentro un progetto serio e ben elaborato.
Questi tre compiti sono evidentemente affidati alla vostra competenza e responsabilità organizzativa.
Realizzo il servizio che mi è stato chiesto sottolineando due linee prioritarie di azione. Rappresentano, da una parte, la constatazione felice di risorse che le comunità ecclesiali possiedono in abbondanza. Indicano, dall’altra, una prospettiva prioritaria in cui giocare concretamente e quotidianamente queste risorse.
Sogno una pastorale giovanile rinnovata, capace di selezionare e organizzare le risorse di cui le comunità ecclesiali sono ancora ricche, attorno a questi due compiti, da riconoscere, assumere, realizzare in modo integrato e complementare:
– la riscoperta del servizio educativo, in una stagione di emergenza educativa, per restituire senso e ricerca di senso (dove essa fosse spenta), passione per la vita e attenzione ad una matura qualità di vita (dove la qualità della vita fosse troppo lontana da una «vita buona secondo il Vangelo»);
– un modello di evangelizzazione, in cui formulare la sollecitazione diffusa verso una «nuova evangelizzazione»: per restituire al Vangelo la forza di bella notizia per la vita e la speranza.
Il servizio educativo: per restituire senso e speranza
Abbiamo discusso molto, anche nell’ambito della pastorale giovanile, sul rapporto tra promozione umana e evangelizzazione. Ne siamo usciti innegabilmente arricchiti. Ma credo che sia tempo perso riprendere oggi la discussione.
Lo dico, ancora una volta, dalla prospettiva globale scelta: Pietro parla esplicitamente di Gesù allo zoppo. La sua proposta è sperimentata dallo zoppo come interessante e vera, quando si è accorto che la vita gli stava tornando nelle gambe rattrappite.
Come si vede, c’è un modo tutto originale di coniugare evangelizzazione e promozione umana: l’annuncio di Gesù, realizzato in un certo modo, rappresenta in concreto un fondamentale intervento di «promozione di vita», se procede in un movimento tutto originale:
– interpreta nel profondo la qualità della domanda. Non è di elemosina (come sembrava chiedere lo zoppo), ma ricerca di qualità di vita (come interpreta Pietro e come propone lui stesso);
– la risposta consiste prima di tutto nella riaffermazione e rilancio dell’educazione, interpretata come ricostruzione della relazione interpersonale;
– il servizio alla ricostruzione di una nuova e urgente qualità della vita: da cogliere e riaffermare in una stagione di pluralismo e di soggettivizzazione.
Faccio qualche cenno su ciascuno di questi tre temi.
La situazione di emergenza educativa
Da molte parti questo nostro tempo è indicato come caratterizzato da uno stato diffuso di «emergenza educativa».
Va compreso bene il problema.
Noi accogliamo abitualmente le ragioni di senso e di speranza, le prospettive di futuro e gli inviti alla responsabilità nel presente, attraverso quella relazione che mette in accoglienza reciproca le persone, soprattutto assicura il dialogo dei giovani con le generazioni che li hanno preceduti (genitori, anziani, educatori). Siamo in emergenza quando si rompe questa relazione e non sappiamo più dove andare a ritrovare le ragioni per vivere e per sperare.
Cito alcune annotazioni interessanti da un documento dei Vescovi proprio su questo tema:
«Considerando le trasformazioni avvenute nella società, alcuni aspetti, rilevanti dal punto di vista antropologico, influiscono in modo particolare sul processo educativo: l’eclissi del senso di Dio e l’offuscarsi della dimensione dell’interiorità, l’incerta formazione dell’identità personale in un contesto plurale e frammentato, le difficoltà di dialogo tra le generazioni, la separazione tra intelligenza e affettività. Si tratta di nodi critici che vanno compresi e affrontati senza paura, accettando la sfida di trasformarli in altrettante opportunità educative. Le persone fanno sempre più fatica a dare un senso profondo all’esistenza. Ne sono sintomi il disorientamento, il ripiegamento su se stessi e il narcisismo, il desiderio insaziabile di possesso e di consumo, la ricerca del sesso slegato dall’affettività e dall’impegno di vita, l’ansia e la paura, l’incapacità di sperare, il diffondersi dell’infelicità e della depressione. Ciò si riflette anche nello smarrimento del significato autentico dell’educare e della sua insopprimibile necessità. Il mito dell’uomo ‘che si fa da sé’ finisce con il separare la persona dalle proprie radici e dagli altri, rendendola alla fine poco amante anche di se stessa e della vita. […] Siamo così condotti alle radici dell’ ‘emer¬genza educativa’, il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove, invece, egli diventa io nella relazione con il tu e con il noi» (Educare alla vita buona del Vangelo, 9).
Questa situazione condiziona fortemente l’essere giovani. Esiste un atteggiamento comune che attraversa la giovinezza. Lo chiamo una profonda, diffusa situazione di «orfanità». È orfano chi è privo del padre o della madre. In molte nazioni, devastate dalla guerra, sono davvero molti i giovani senza genitori. Da noi, per fortuna, non è così. Molti giovani sono orfani, sperduti nel deserto della vita quotidiana, perché c’è un’orfanità per eccesso di genitori. Cambia persino il numero fisico dei padri e delle madri. Ma soprattutto siamo circondati da proposte che fanno di tutto per prendere il posto dei nostri genitori nella pretesa di darci ragioni di futuro e di speranza. Persino per vendere le cose più banali o solo funzionali, è chiamata in causa la qualità e il senso della vita: qualcuno entra con violenza nella nostra esistenza e pretende di dirci chi siamo e come dobbiamo vivere.
Non possiamo però vivere senza padri e madri autorevoli e significativi. In questa situazione il futuro si fa incerto e la speranza va in profonda crisi. E così dall’orfanità molti cercano di uscire nella disperazione o nel disimpegno. Le esperienze forti funzionano da nuova proposta di paternità.
La risposta: rilancio dell’educazione
All’emergenza educativa poniamo rimedio riscoprendo la via dell’educazione… ma, nello stesso tempo, reinventandola, per una cultura com’è l’attuale, e recuperando dalla cultura attuale tutti i contributi positivi di cui essa è portatrice.
Ecco allora la mia proposta: educare è istituire una relazione tra soggetti diversi (felici… di essere differenti), attraverso cui essi si scambiano frammenti riflessi e motivati di vissuto, per restituirsi reciprocamente quella gioia di vivere, quella libertà di sperare, quella capacità e responsabilità di essere protagonisti della propria e altrui storia, di cui purtroppo siamo continuamente deprivati.
Verso una nuova qualità di vita
Al centro della questione educativa sta una scommessa antropologica: verso quale qualità di vita orientare impegni e responsabilità?
In una stagione com’è la nostra e in dialogo con i giovani del nostro tempo, ho ripensato il centro di un progetto di pastorale giovanile attorno alla categoria della «invocazione». Essa aiuta ad aprire ogni possibile domanda verso il mistero e suggerisce l’urgenza di offrire proposte che sappiano spalancare ulteriormente la domanda stessa.
Prima di tutto, devo precisare il significato che attribuisco all’espressione «invocazione». Lo dico con un’immagine: gli esercizi al trapezio, che abbiamo visto, tante volte, sulla pista dei circhi.
In questo esercizio l’atleta si stacca dalla funicella di sicurezza e si slancia nel vuoto. Ad un certo punto protende le sue braccia verso quelle sicure e robuste dell’amico che volteggia a ritmo con lui, pronto ad afferrarlo.
Il trapezio assomiglia moltissimo alla nostra esistenza quotidiana. L’esperienza dell’invocazione è il momento solenne dell’attesa: dopo il «salto mortale» le due braccia si alzano verso qualcuno capace di accoglierle. Nell’esercizio al trapezio nulla avviene per caso. Tutto è risolto in un’esperienza di rischio calcolato e programmato.
Ma la sospensione tra morte e vita resta: la vita si protende alla ricerca, carica di speranza, di un sostegno capace di far uscire dalla morte. Questa è l’invocazione: un gesto di vita che cerca ragioni di vita, perché chi lo pone si sente immerso nella morte.
L’invocazione rappresenta, nella mia ipotesi antropologica, il livello più intenso di esperienza umana, quello in cui l’uomo si protende verso l’ulteriore da sé.
L’invocazione è un’esperienza di confine. Essa è esperienza personale, legata alla gioia e alla fatica di esistere, nella libertà e nella responsabilità, alla ricerca delle buone ragioni di ogni decisione e scelta importante. Nello stesso tempo essa è già esperienza di trascendenza, spinta verso il mistero dell’esistenza.
Lo è ai primi livelli di maturazione. L’uomo invocante si mostra disposto a consegnare le ragioni più profonde della sua fame di vita e di felicità, persino i diritti sull’esercizio della propria libertà, a qualcuno fuori di sé, che ancora non ha incontrato tematicamente, ma che implicitamente riconosce capace di sostenere questa sua domanda, di fondare le esigenze per una qualità autentica di vita.
Lo è soprattutto nell’espressione più matura, quando ormai la ricerca personale si perde nel l’accoglienza del mistero della vita. Ci fidiamo tanto dell’imprevedibile, da affidarci ad un amore assoluto che ci viene dal silenzio e dal futuro.
Il consolidamento e lo sviluppo della capacità di invocazione sono un tipico problema educativo. Riguardano, in altre parole, la qualità della vita e l’influsso dell’ambiente culturale e sociale in cui essa si svolge. Abbiamo bisogno di restituire all’uomo una qualità matura di vita; e lo facciamo entrando, con decisione e competenza, nel crogiolo dei molti progetti d’uomo sui quali si sta frantumando la nostra cultura.
Non tutto però può essere ridotto a interventi solo educativi. L’educatore credente sa che senza l’annuncio di Gesù Cristo e senza la celebrazione del suo incontro personale, l’uomo resta chiuso e intristito nella sua disperazione. Per restituirgli veramente felicità e speranza, siamo invitati ad assicurare l’incontro con il Signore Gesù, la ragione decisiva della nostra vita. Questo incontro è sempre espressione di un dialogo d’amore e di un confronto di libertà, misterioso e indecifrabile. Sfugge ad ogni tentativo di intervento dell’uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell’iniziativa di Dio.
Di qui la convinzione: l’invocazione è una esperienza di vita quotidiana, frutto di intelligenti processi educativi. Può essere educata. Viene educata però in due modalità che possono apparire all’opposto. Viene educata quando l’educatore opera sui germi iniziali di invocazione e attiva processi capaci di svilupparli, fino ad un esito soddisfacente. Viene però educata anche quando l’educatore che fa proposte, ponendo davanti alla persona il mistero in cui la nostra vita è avvolta e la sua personale esperienza di questo mistero, evangelizza, con decisione e coraggio, rispettando modalità comunicative capaci di suscitare libertà e responsabilità.
Sono consapevole che la vita quotidiana, nel suo ritmo normale, è carica di germi di invocazione. Per questo ogni domanda e ogni esperienza si porta dentro frammenti di invocazione. Va accolta, educata e restituita in autenticità al suo protagonista.
L’evangelizzazione, nello stesso tempo, quando risuona dentro la ricerca di senso che attraversa ogni esistenza, può scatenare questo processo di maturazione dell’invocazione; lo sa provocare in coloro che vivono ancora distratti e superficiali; lo satura in coloro che sanno ormai esprimere autenticamente la loro voglia di vita e di felicità.
Educhiamo all’invocazione per permettere alle persone di spalancarsi sul mistero annunciato. Evangelizziamo il Dio di Gesù per dare pane a chi lo cerca e sorgenti d’acqua fresca all’assetato; ma lo annunciamo con forza e coraggio per far crescere la fame e la sete di pienezza di vita.
UNA «NUOVA EVANGELIZZAZIONE»
Nell’attuale comunità ecclesiale oggi siamo molto attenti ai temi e all’urgenza dell’evangelizzazione. L’abbiamo riscoperta come il dono prezioso che i discepoli di Gesù possono offrire per sostenere la vita e fondare la speranza di tutti.
Per dire tutto questo, parliamo di «nuova evangelizzazione». Non possiamo dimenticare che la «novità»
«richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in Paesi di tradizione cristiana» (Benedetto XVI).
Nell’ambito della pastorale giovanile e con i giovani che ci lanciano la provocazione di una sfida di senso e di speranza (come ho appena ricordato), il servizio verso la «nuova evangelizzazione» può essere collocato su tre livelli:
– evangelizzare come gesto d’amore;
– evangelizzare in un corretto modello comunicativo;
– la proposta della narrazione.
Evangelizzare come gesto d’amore
Ho già ricordato una convinzione importante: l’annuncio di Gesù è il grande gesto di amore che possiamo fare nei confronti dei nostri amici, per restituire ad essi vita, consolidare la speranza, sollecitare ad una responsabilità radicale per la causa del regno di Dio.
Questo mi sembra oggi il punto di prospettiva, da riscoprire, approfondire, rilanciare.
L’annuncio di Gesù, come gesto d’amore, caldo e appassionato nei confronti delle persone, non nasce né dalla richiesta dell’interlocutore né dal nostro desiderio apostolico. Nasce dalle logiche del servizio pieno e totale, per ogni persona nel mistero della sua esistenza, e per la storia personale e collettiva di tutti, nella prospettiva di quel progetto che Gesù ha chiamato il «regno di Dio».
Da questa visione globale, cambiano ritmi e tempi. Non ci può essere più un prima, che prepara, e un «finalmente» che realizza. L’amore ha logiche totalmente diverse. È decentrato verso l’altro. Ma misura la qualità del suo servizio sul bene oggettivo della persona amata. Non si ferma perché è rifiutato. Né tanto meno si ridimensiona, per farsi più accettabile. Travolge chi ama, per permettergli di crescere in pienezza e autenticità: come una mamma che toglie dalle mani del figlio che ama, un gioco pericoloso, anche se egli piange e grida, perché glielo impone l’amore concreto che gli porta.
Voler bene ad una persona significa volere profondamente il suo bene, permettere ad una persona di scoprire che la profonda attesa di speranza e di senso che percorre la sua esistenza, ha bisogno di trovare risposte. Non possiamo continuare a spostare il tempo dell’incontro con queste risposte e non possiamo, per nessuna ragione, mandare deluse queste attese. Per questo, proprio a partire dall’amore che ognuno di noi porta ai fratelli che ha la gioia di incontrare, scopriamo che non possiamo rassegnarci a non parlare di Gesù. Il silenzio, in questo caso, diventerebbe una scelta che tradisce l’amore.
L’amore chiede di aiutare ogni persona a diventare sempre di più signore della propria vita. Ma siamo signori della nostra vita, solo quando riusciamo a sperimentarne il suo senso anche nel momento in cui eventi tragici sembrano consegnarci al nonsenso. Siamo signori della nostra vita se siamo capaci di collocarla dentro un progetto più grande che riguarda anche il futuro della nostra esistenza: riusciamo a ritrovare una ragione gioiosa anche di fronte al dolore e alla morte, scopriamo che siamo pienamente noi stessi solo quando riusciamo a morire, come il chicco di grano, perché tutti abbiano la gioia di raccogliere il pane cresciuto nel terreno del mio piccolo servizio.
Parliamo di Gesù non solo perché lo consideriamo un amico importante di cui sentiamo la gioia di regalare a tutti la stessa amicizia; parliamo di Gesù e vorremmo che tutti lo potessero incontrare nel cuore della loro esistenza, perché solo in lui possiamo scoprire che, nonostante tutto, siamo e restiamo signori della nostra vita. Davvero il nome di Gesù è il regalo più grande che possiamo fare a tutti, per restituire a tutti la gioia di vivere e la libertà di sperare.
La comunità ecclesiale non si rassegna se alle persone con cui condividiamo la vita quotidiana il nome di Gesù non interessa. Non si rassegna se davanti all’annuncio esse restano indifferenti, preoccupate di molte altre cose. Sta ad esse vicina, l’inquieta e li interpella, perché solo quando esse hanno incontrato Gesù, possono veramente restare in quella gioia e in quella speranza che vanno cercando, purtroppo tante volte come l’assetato che cerca un sorso d’acqua tra le pietre e il fango dei pozzi aridi.
Dalla prospettiva dell’amore che si fa annuncio, possiamo ripensare veramente a tutto il processo. Sono convinto che un grosso e impegnativo compito ci sia consegnato, sul piano dei contenuti teologici e dei modelli comunicativi.
Evangelizzare in un corretto modello comunicativo
Suggerisco una specie di criteriologia, sottolineando tre condizioni determinanti, anche sul piano operativo, per qualificare il modello comunicativo attraverso cui realizzare l’evangelizzazione.
Prima condizione: comunicazione di una esperienza
La prima condizione consiste in una comunicazione capace di assicurare la condivisione dell’esperienza di colui che narra e di coloro cui si rivolge il racconto.
Tante volte ci siamo impressionati fortemente dal tono delle grandi catechesi apostoliche, come sono documentate dagli Atti e dalle Lettere. Giovanni, per esempio, apre la sua Lettera con una testimonianza solenne: «La vita si è manifestata e noi l’abbiamo veduta. Noi l’abbiamo udita, l’abbiamo vista con i nostri occhi, l’abbiamo contemplata, l’abbiamo toccata con le nostre mani» (1Gv 1,1-2). Anche Paolo ricorda l’esperienza personale quando sottolinea i temi centrali della sua predicazione (si veda, per esempio, 1Cor 15 e 2Cor 12).
Questa è una dimensione qualificante dell’annuncio cristiano: quello che è comunicato proviene da una esperienza personale diretta e si protende verso gli altri con l’intenzione esplicita di suscitare nuove esperienze. Esso non è prima di tutto un messaggio, ma un’esperienza di vita che si fa messaggio, in una catena ininterrotta che riporta all’esperienza fondante che alcuni credenti hanno avuto in Gesù.
Chi evangelizza sa di essere competente solo perché è già stato salvato dalla storia che narra; e questo perché ha ascoltato questa stessa storia da altre persone. La sua parola è quindi un pezzo di vita vissuta, interpretata e trasformata in parole. La storia narrata non riguarda solo eventi o persone del passato, ma anche l’evangelizzatore e coloro cui si rivolge l’annuncio. Essa è in qualche modo la loro storia. Chi evangelizza, lo fa da uomo salvato, che racconta la sua storia per coinvolgere altri in questa stessa esperienza.
Seconda condizione: una comunicazione che spinge alla sequela
In secondo luogo, il modello di evangelizzazione che sto sottolineando si caratterizza per l’intenzione esplicita di coinvolgere anche gli interlocutori nell’esperienza narrata. L’evangelizzazione è, infatti, sempre il racconto di una storia che spinge alla sequela. La sua struttura linguistica non è finalizzata cioè a dare delle informazioni, ma sollecita ad una decisione di vita.
L’invito alla conversione non viene assicurato perché sono diffuse informazioni non ancora note, ma perché l’interlocutore viene chiamato in causa in prima persona. Non può restare indifferente di fronte alla provocazione: le due braccia spalancate del padre che aspetta con ansia il ritorno a casa del figlio perduto, costringono a decidere da che parte si vuole stare. Nasce formazione non sulla misura delle cose nuove apprese, ma nel riconoscimento dello stile di vita cui sono sollecitati coloro che desiderano far parte del movimento dei credenti.
Il significato di queste affermazioni e le ragioni che le giustificano si collegano all’esperienza dei discepoli di Gesù.
Un esempio importante è costituito dalle parabole. Esse non sono il resoconto di avvenimenti, consegnati all’analisi critica dello storico. Non sono preziosi e significativi perché riusciamo a ricostruire il tempo e il luogo in cui si svolge l’avvenimento narrato o perché possiamo verificare la congruenza dei particolari. Sono invece una chiamata personale a coinvolgersi nell’avvenimento per prendere posizione.
La scelta di privilegiare una prospettiva implicativa su quella descrittiva è importante anche per una ragione di competenza. Quando si è chiamati a trasmettere informazioni tecniche, il diritto alla parola è misurato sulla competenza posseduta: chi conosce le cose da dire, può parlare; chi non le conosce bene, deve tacere. Quando invece al centro della comunicazione c’è l’invito alla sequela e al coraggio della conversione, la scienza non basta più. Ci vuole la passione e il coinvolgimento personale. Il diritto alla parola non è riservato solo a coloro che sanno pronunciare enunciati che descrivono in modo corretto e preciso quello cui ci si riferisce. Chi ha vissuto una esperienza salvifica, la racconta agli altri; così facendo aiuta a vivere e precisa lo stile di vita da assumere per poter far parte gioiosamente del movimento di coloro che vogliono vivere nell’esperienza salvifica di Gesù di Nazareth.
Per questa ragione, l’evangelizzazione è sempre interpellante.
Terza condizione: una comunicazione che anticipa nel piccolo quello che si annuncia
In terzo luogo, l’evangelizzazione è una buona comunicazione quando possiede la capacità di produrre ciò che annuncia, per essere segno salvifico. Il racconto si snoda con un coinvolgimento interpersonale così intenso da vivere nell’oggi quello di cui si fa memoria. La storia diventa racconto di speranza.
Non si tratta di ricavare dalla memoria di un calcolatore delle informazioni fredde e impersonali, ma di liberare la forza critica racchiusa nel racconto.
I cristiani sono per vocazione gli annunciatori della speranza, perché testimoni della passione di Dio per la vita di tutti.
Per poter parlare in modo sensato della salvezza di Dio che è Gesù dobbiamo mostrare con i fatti che è possibile crescere come uomini e donne nella libertà e nella responsabilità, capaci di amare in modo oblativo, impegnati per la realizzazione della giustizia, testimoni del senso della sofferenza e della morte. Solo così, possiamo mostrare efficacemente «la forza dello Spirito, quella che può essere vista e udita» (At 2,33), quella che si traduce in gesti che non sono mai posti invano (Gal 3,4). Annunciare la fede significa dunque narrare di un Dio «che dona lo Spirito e opera meraviglie» (Gal 3,4), poggiando questa narrazione «non su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (1Cor 2,4).
La comunità ecclesiale condivide la storia e la vita di tutti, per gridare, a parole e con i fatti, dal suo interno la grande promessa di Dio, che la riguarda direttamente: «Fra poco farò qualcosa di nuovo.
Anzi ho già incominciato. Non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19). Così chi narra di Colui che ha dato la vista ai ciechi e ha fatto camminare gli storpi, fa i conti con la quotidiana fatica di sanare i ciechi e gli storpi di oggi.
Anche se annuncia una liberazione definitiva solo nella casa del Padre, tenta di anticiparne i segni nella provvisorietà dell’oggi.
Troppe volte le situazioni tragiche restano nella loro logica disperata e oppressiva. Sembrano un grido di rivolta contro il Vangelo della vita e della speranza.
Il racconto della storia di Gesù, a differenza dell’argomentazione che tutto spiega e su ogni caso ha la parola sicura, parla con concretezza e con realismo della sofferenza dell’uomo. Non possiede la chiave dialettica per risolvere tutte le situazioni e non ha la pretesa di districare in modo lucido i meandri oscuri della storia. Condivide il cammino faticoso dell’uomo; cerca di superare le contraddizioni in compagnia con tutti; parla, con parole buone, rispettose, riconcilianti, concrete.
La parola evangelizzata mostra con i fatti il Dio della vita: libera e risana, rimettendo a testa alta chi procede distrutto sotto il peso degli avvenimenti, personali e collettivi; restituisce dignità a coloro cui è stata sottratta; dà a tutti la libertà di guardare al futuro, in una speranza operosa, verso quei cieli nuovi e nuove terre dove finalmente ogni lacrima sarà asciugata (Apoc 21).
La proposta della narrazione
In questi anni ho immaginato un modello concreto di comunicazione, capace di rispettare le tre condizioni appena ricordate. Lo chiamo il modello narrativo.
Propongo di realizzare l’evangelizzazione dei giovani «narrando storie che aiutino a vivere».
E mi spiego con veloci battute, rimandando all’ampia letteratura sull’argomento.
Nello stesso evento evangelizzatore dovrebbero intrecciarsi sempre tre differenti storie: l’evento di Dio che si fa vicino a ciascuno di noi, per la nostra vita e la nostra speranza, le attese e le esperienze delle persone cui viene offerto il racconto, l’esperienza, vissuta e sofferta, di chi ritrova la gioia e il coraggio di condividere quello che ha sperimentato nell’incontro salvifico.
Questi tre dati, di peso e di significato tanto diverso, diventano una parola unica, perché l’autenticità e verità di ogni elemento richiede gli altri, in un gioco di rapporti reciproci.
Chi vuole servire la vita e consolidare la speranza non può ridurre la sua proposta a frammenti della propria esistenza. Nessuno può dare la vita piena: né a sé né agli altri. Dolore, incertezza e morte minacciano continuamente ogni pretesa di autosufficienza. Abbiamo bisogno di offrire un riferimento più alto e sicuro, quello dell’unico nome in cui possiamo avere tutti la vita.
L’evangelizzatore racconta quindi i testi della sua fede ecclesiale: le pagine della Scrittura, le storie dei grandi credenti, i documenti della vita della Chiesa, la coscienza attuale della comunità ecclesiale attorno ai problemi di fondo dell’esistenza quotidiana. In questo primo elemento, propone, con coraggio e fermezza, le esigenze oggettive della vita, ricompresa dalla parte della verità donata. Credere alla vita, servirla perché nasca contro ogni situazione di morte, non può certo significare stemperare le esigenze più radicali e nemmeno lasciare campo allo sbando della ricerca senza orizzonti e della pura soggettività.
L’evangelizzatore non riesce però a parlare come se lui non c’entrasse e fosse ormai al di sopra della mischia. La vita è avventura di solidarietà profonda e continua, che neppure la morte fisica riesce ormai a spezzare. Questo coinvolgimento personale gli assicura l’autorevolezza di cui ha bisogno per pronunciare parole esigenti, che giudicano e inquietano con la forza di una esistenza riconquistata in modo riflesso. Anche questa esigenza ricostruisce un frammento della verità della storia narrata. La sottrae dagli spazi del silenzio freddo dei principi per immergerla nella passione calda della salvezza.
I suoi interlocutori non sono i destinatari passivi della comunicazione. Essi diventano protagonisti del racconto stesso. La loro esistenza dà parola al racconto: fornisce la terza delle tre storie, su cui si intreccia l’unica storia. L’evangelizzatore parla di loro in prima persona, delle loro attese e dei loro progetti, anche quando racconta di uomini e donne sprofondati in tempi lontani o quando aiuta a decifrare il percorso della natura e della storia o quando ritesse la trama di una solidarietà che dà volto a gente mai vista.
Come nel testo evangelico, la narrazione coinvolge nella sua struttura l’evento narrato, la vita e la fede del narratore e della comunità narrante, i problemi, le attese e le speranze di coloro a cui il racconto si indirizza.
Questo coinvolgimento assicura la funzione performativa della narrazione. Se essa volesse prima di tutto dare informazioni corrette, si richiederebbe la ripetizione delle stesse parole e la riproduzione dei medesimi particolari. Se invece il racconto ci chiede una decisione di vita, è più importante suscitare una forte esperienza evocativa e collegare il racconto alla concreta esistenza. Parole e particolari possono variare, quando è assicurata la radicale fedeltà all’evento narrato, in cui sta la ragione costitutiva della forza salvifica della narrazione.
In forza del coinvolgimento personale del narratore, la narrazione non è mai una proposta rassegnata o distaccata. Chi narra la storia di Gesù vuole una scelta di vita: per Gesù, il Signore della vita o per la decisione, folle e suicida, di vivere senza di lui.
Per questo l’indifferenza tormenta sempre chi evangelizza narrando.
Egli anticipa nel piccolo le cose meravigliose di cui narra, per interpellare più radicalmente e per coinvolgere più intensamente.
TRA COMPETENZA E AFFIDAMENTO: LA SPIRITUALITÀ DELL’OPERATORE DI PG
Concludo la mia riflessione sulla proposta di un progetto di pastorale giovanile, sottolineando una esigenza che mi sta molto a cuore.
Non posso immaginare, infatti, linee di azione sulla pastorale giovanile senza collocare tutto questo all’interno di chiaro e forte progetto di spiritualità.
Questa indicazione riguarda, con la stessa intensità, gli operatori di pastorale giovanile e la qualità della loro proposta.
Il tema è impegnativo e richiederebbe uno sviluppo specifico. Non lo posso fare. Mi basta ricordare l’esigenza. Faccio riferimento ancora all’esperienza degli apostoli, per trovare prospettive significative anche per l’oggi. Ci aiutano, come sempre, gli «Atti degli Apostoli».
Gli apostoli sono sollecitati all’azione. E si organizzano per questa prospettiva. Dopo l’Ascensione di Gesù, scendono dal monte e fanno il punto della situazione. Non hanno messo fuori dalla loro vita l’incertezza e quel tanto di trepidazione che non guasta mai quando ci sono imprese solenni da realizzare. Ma ora sono abbastanza pronti. Pietro, per esempio, riorganizza il gruppo, cercando il successore di Giuda. E lo fa con la sicurezza che gli proviene dal mandato di Gesù, che nessuno gli contesta, nonostante la triste parentesi del tradimento.
Poi, secondo la promessa di Gesù, arriva lo Spirito a completare l’esperienza e a trasformare il cuore, e l’avventura della Chiesa incomincia.
Tra il ritorno dal monte e lo slancio missionario, gli apostoli inseriscono una specie di intermezzo, strano per gente come noi, legata alla fretta e alla efficienza. Si ritirino nel cenacolo per una sosta di preghiera e di contemplazione: «si riunivano regolarmente per la preghiera con le donne, con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (Atti 1, 14). Hanno il compito di testimoniare il Vangelo fino ai confini del mondo… e si bloccano al piano superiore della casa, dedicando tanto tempo ad una attività che assomiglia poco all’attivismo verso cui erano stati sollecitati.
Considero questa esperienza apostolica un dono preziosissimo per aiutarci a cogliere le condizioni di una fedeltà all’incontro e all’affidamento a Gesù, capace di superare paure, incertezze, ritorni e tradimenti. Sembrano dirci: d’accordo, c’è fretta, ma nessuna fretta può far dimenticare quanto sia irrinunciabile contemplare il mistero di Dio nella preghiera.
Forse c’è una innegabile componente di paura. Lo Spirito non li aveva ancora trasformati. Ma di sicuro li aveva segnati profondamente l’esperienza di Gesù, che aveva l’abitudine di passare le notti in preghiera prima delle grandi imprese.
Mi sembra una dimensione fondamentale: una condizione di fedeltà.
Pensandoci, riusciamo persino a decifrare la ragione di questa scelta.
I discepoli sono al servizio della vita e della speranza nel Regno di Dio. Ma tutto questo non può mai essere considerato il frutto dello sforzo umano, anche se lo richiede intensamente. Il Regno promesso è dono. L’aveva detto con forza Gesù: «La causa della vita sta a cuore prima di tutto a Dio: è la sua passione e il suo impegno. Lui la realizza. Lui però l’ha affidata a me; io la consegno a voi, perché siete miei amici». E subito aggiunge: «Quando abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, dobbiamo avere il coraggio di riconoscerci soltanto dei servi, senza eccessive pretese. Per la vita e la speranza solo Dio è padrone. Noi siamo soltanto servi: preziosissimi perché la causa della vita è data in consegna a noi, ma soltanto servi, perché il progetto appartiene a Dio».
È una questione impegnativa, su cui non pensiamo mai a sufficienza, premuti dalle mille cose da fare.
Il centro del progetto di pastorale giovanile può essere espresso come un progetto di spiritualità, capace di unificare tutta l’esistenza cristiana, riconciliando pienamente l’amore alla vita, la fedeltà alla Chiesa, la decisione di fare di Gesù il Signore della nostra esistenza.
Potrebbe sembrare inusuale raccogliere il progetto di pastorale giovanile attorno ad un progetto di spiritualità. Anch’io e gli amici con cui in quegli anni ho lavorato, avevamo all’inizio valutato cosa abbastanza strana concentrare le nostre attenzioni attorno ad una proposta di spiritualità. Di solito, quando si parla di spiritualità, si pensa a qualcosa che si aggiunge alla vita quotidiana, spesso riservato soltanto a coloro che hanno deciso di vivere la propria esistenza quotidiana in uno stile tutto speciale. Lo sapevamo e abbiamo fatto la scelta proprio per evitare che spiritualità si riducesse a questa visione parziale. Volevamo riconquistare il termine «spiritualità» come qualità di tutta l’esistenza cristiana.
Spiritualità vuol dire, infatti, vita quotidiana vissuta, in modo progressivamente consapevole, nello Spirito di Gesù. Mettendo al centro la spiritualità volevamo mettere veramente al centro la nostra vita, accolta con amore e con responsabilità, e il progetto di Gesù su questa nostra vita. È possibile, infatti, risolvere gli inquietanti interrogativi che attraversano l’esistenza quotidiana, solo nel coraggio di confrontarci con la proposta del Vangelo in un incontro personale con Gesù.