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    Transitare dalla nostalgia alla missione


    Ti racconto Gesù /5

    Riccardo Tonelli

    (NPG 2012-08-75)


    Un fatto che dà da pensare

    Una pagina del Vangelo di Marco racconta un evento che dà molto da pensare a quelli che non si accontentano delle prime impressioni.
    Questo è il fatto: la folla cerca disperatamente Gesù, gli corre dietro, è disposta a superare problemi e difficoltà anche non piccole pur di ascoltare Gesù.
    La stessa cosa l’hanno vissuta quel gruppo di coraggiosi che noi siamo abituati a chiamare gli apostoli. Gesù li vede al lavoro. Li chiama per nome e li invita a piantare tutto e a seguirlo. E loro lo fanno, con una determinatezza coraggiosa e un’imprudenza quasi adolescenziale. Poi ci pensano, avanzano qualche difficoltà. Chiedono l’autorizzazione per una breve pausa seria: salutare il padre e gli amici, riassettare le reti e mettere al coperto le barche, partecipare ad un funerale. Gesù nega il permesso. Non stanno a discutere né rilanciano la richiesta. Abbandonano davvero tutto e lo seguono con il coraggio della radicalità.
    Sarebbe bello se tutto restasse a questo livello felice. Ma i vangeli ci raccontano anche il risvolto della medaglia. Ed è proprio questo che dà da pensare e mette in crisi.
    La stessa folla, invitata a scegliere, preferisce Barabba a Gesù e decide di toglierselo dalla presenza scomoda, invitando l’autorità a crocifiggere un innocente e a liberare un malfattore.
    I discepoli, nell’ora della prova, passano dal sonno tranquillo nell’orto degli ulivi alla fuga disperata. Lo abbandonano. Qualcuno persino lo tradisce: per denaro o per paura. È davvero un modo triste di risolvere la decisione vocazionale. Si salva solo Giovanni e qualche donna.
    Perché?
    L’invito ad annunciare Gesù come l’unico nome in cui avere la vita, fa i conti con questa terribile inquietante situazione. Chi la dimentica e progetta le soluzioni più raffinate, senza tener conto di questo rischio, si condanna da solo alla retorica e al fallimento.
    Il tema è drammatico. L’esito di tirare i remi in barca alle prime difficoltà lo sperimentiamo quotidianamente: in prima persona e nella storia di tanti nostri fratelli. Non basta davvero far risuonare l’invito ad evangelizzare, se non ci aiutiamo a comprendere questa provocazione, non la decifriamo in un gioco in cui la libertà personale si confronta con esigenze di qualità e di scelta.
    Convinto di questo, mi sono fatto aiutare dai primi discepoli di Gesù, dalle loro storie di vita, dal racconto della comunità apostolica offerta nel libro degli «Atti degli Apostoli». Ho riletto il primo capitolo di questo grande racconto di vita vissuta. Ho scoperto un dono che mi ha aiutato a ricomprendere le condizioni di vita che ci aiutano a trasformare l’incontro con Gesù in un affidamento pieno e totale.

    La passione per la missione

    Ripenso al cammino vocazionale dei primi discepoli: dalla chiamata, alla decisione, al tradimento, all’impegno per la missione fino alla morte.
    Nel giro di qualche giornata hanno concentrato tutta la loro esperienza di incontro con Gesù. Avevano giocato la loro vita nel suo nome. «Non possiamo andare da nessun’altra parte… perché tu solo hai parole di vita e di speranza», gli avevano gridato con profonda sincerità nel momento in cui troppi lo stavano abbandonando.
    Gli eventi tragici dell’arresto, della condanna e della crocifissione li hanno costretti a rivedere la loro scelta vocazionale. Quello che avevano deciso, sostenuti dal fascino della presenza continua di Gesù e dalla sua travolgente capacità di coinvolgere le folle, nelle parole e nei fatti, adesso va in crisi violenta. La morte di Gesù li riconsegna all’incertezza della loro scelta di vita. Si organizzano per tornare ai ritmi di prima, disposti a sopportare la derisione di chi aveva guardato storto la loro partenza.
    La morte di Gesù sembrava fatta apposta per chiudere ogni prospettiva di futuro. Qualcuno persino aveva tirato i remi in barca e se n’era tornato ai suoi campi e al mestiere di prima, con il cuore pieno di tristezza e con un volto che esprimeva tutta l’angoscia della delusione. Gli altri… di paura ne avevano tanta: troppa per giocare allo scoperto. Se ne stanno rintanati in un angolo di Gerusalemme. Avevano ricevuto l’ordine di riempirla delle belle notizie che loro Gesù aveva consegnato. Preferiscono il silenzio.
    Poi Gesù era riapparso, vivo e trionfatore. Ma era un poco strano: veniva e spariva; parlava poco e non si lasciava più divorare dalle folle. Era risorto certamente… ma quasi non sembrava più quello di prima. Non è ancora tutto chiaro. Meglio… aspettare e verificare. Qualche avvenimento speciale, come quello capitato ai due colleghi di Emmaus, li spinge a non prendere decisioni affrettate, a pensarci ancora un poco per vedere come si sarebbero evoluti gli avvenimenti.
    Poi capita l’imprevisto, sognato e atteso ma troppo grande per programmarlo nel ripensamento della loro vocazione. Gesù si rifà vivo. Sta con loro. Sembra quasi invitarli a rivivere i bei tempi. Parla delle ultime consegne. Poi li convoca, fuori città, in una zona isolata.
    Ci vanno tutti. Con trepidazione. Sarà la volta buona che ricostruirà il Regno promesso?
    Dentro, a tutti, sono in subbuglio attese, nostalgie, speranze, progetti. Hanno l’impressione, anche se non se lo dicono, di essere arrivati finalmente al dunque.
    Gli apostoli… come noi. Quello che essi hanno vissuto, quel pomeriggio sul monte dell’Ascensione ci riguarda davvero.
    La nostalgia di Gesù è fortissima. Ed è logico che sia così. Ma chi ha imprese alte da compiere… non si può permettere il lusso della nostalgia.
    Il rimprovero dei due personaggi, vestiti di bianco, dà da pensare: Perché state a guardare il cielo con il naso all’insù… come se tutto fosse lì? C’è un’opera grande da compiere. Gesù ve l’ha consegnata ed è ormai tempo di darsi da fare per realizzarla.
    Ora è il tempo della fatica, del lavoro, dei progetti e delle realizzazioni. Poi torneranno i tempi felici in cui si potrà gustare ancora la dolce compagnia di Gesù.
    Tornerà… quando? Non lo sappiamo e non dobbiamo arrovellarci il cervello per immaginarlo. L’unica cosa certa è che tornerà e che ora però siamo impegnati a portare avanti il compito che ci è stato affidato: essere testimoni del Vangelo di Gesù fino ai confini più remoti del mondo.
    Davvero, la nostalgia lascia il posto alla fatica di realizzare il progetto che ci è stato affidato. Con gli apostoli scendiamo dal monte per riempire Gerusalemme del fragore della nostra passione per la vita e la speranza.

    La contemplazione: non c’è urgenza che tenga

    Gli apostoli sono sollecitati all’azione. E si organizzano per questa prospettiva. Scendono dal monte e fanno il punto della situazione. Non hanno messo fuori dalla loro vita l’incertezza e quel tanto di trepidazione che non guasta mai quando ci sono imprese solenni da realizzare. Ma ora sono abbastanza pronti.
    Pietro, per esempio, riorganizza il gruppo, cercando il successore di Giuda. E lo fa con la sicurezza che gli proviene dal mandato di Gesù, che nessuno gli contesta, nonostante la triste parentesi del tradimento.
    Poi, secondo la promessa di Gesù, a completare l’esperienza e a trasformare il cuore, arriva lo Spirito e l’avventura della Chiesa incomincia.
    Tra il ritorno dal monte e lo slancio missionario, gli apostoli inseriscono una specie di intermezzo, strano per gente come noi, legata alla fretta e alla efficienza. Si ritirino nel cenacolo per una sosta di preghiera e di contemplazione: «si riunivano regolarmente per la preghiera con le donne, con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (Atti 1, 14). Hanno il compito di testimoniare il Vangelo fino ai confini del mondo… e si bloccano al piano superiore della casa, dedicando tanto tempo ad una attività che assomiglia poco all’attivismo verso cui erano stati sollecitati.
    Considero questa esperienza apostolica un dono preziosissimo per aiutarci a cogliere le condizioni di una fedeltà all’incontro e all’affidamento a Gesù, capace di superare paure, incertezze, ritorni e tradimenti. Sembrano dirci: d’accordo… c’è fretta… ma nessuna fretta può far dimenticare quanto sia irrinunciabile contemplare il mistero di Dio nella preghiera.
    Forse c’è una innegabile componente di paura. Lo Spirito non li aveva ancora trasformati. Ma di sicuro li aveva segnati profondamente l’esperienza di Gesù, che aveva l’abitudine di passare le notti in preghiera prima delle grandi imprese.
    Mi sembra una dimensione fondamentale: una condizione di fedeltà.
    Pensandoci, riusciamo persino a decifrare la ragione di questa scelta.
    I discepoli sono al servizio della vita e della speranza nel Regno di Dio. Ma tutto questo non può mai essere considerato il frutto dello sforzo umano… anche se lo richiede intensamente. Il Regno promesso è dono. L’aveva detto con forza Gesù: «La causa della vita sta a cuore prima di tutto a Dio: è la sua passione e il suo impegno. Lui la realizza. Lui però l’ha affidata a me; io la consegno a voi, perché siete miei amici». E subito aggiunge: «Quando abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, dobbiamo avere il coraggio di riconoscerci soltanto dei servi… senza eccessive pretese. Per la vita e la speranza… solo Dio è padrone. Noi siamo soltanto servi… preziosissimi perché la causa della vita è data in consegna a noi, ma soltanto servi, perché il progetto appartiene a Dio».

    Una fedeltà misurata dalla croce

    La storia non finisce qui e soprattutto non si conclude a questo livello di verifica il tentativo doveroso di scoprire come mai all’entusiasmo del primo sì, dopo l’incontro, può far seguito l’abbandono. Di modalità di abbandono, purtroppo, ce ne sono tante: la nostra storia personale può aiutare a completare quella dei discepoli che ci stiamo raccontando.
    Le persone serie cercano di criteri per verificare se l’incontro con una persona e la decisione di fare di questa persona il determinante della propria esistenza, sono una dimensione autentica di vita o solo il gioco momentaneo del fascino o dell’avventura.
    Quante volte ci siamo chiesti se il nostro sì è autentico. Ce lo siamo chiesti con forte trepidazione, consapevoli che l’incontro con Gesù è tutto speciale, intessuto di mille sfumature, che attraversano ogni esistenza. Non lo possiamo misurare con il gioco normale di domanda e risposta. In lui, nell’accoglienza incondizionata della sua persona, ci immergiamo in un mistero di libertà e di responsabilità, che sfugge alle strumentazioni di cui disponiamo.
    Ci piace l’entusiasmo. Cerchiamo l’osservanza attenta e puntuale. Misuriamo reazioni e parole per qualità da adulti. Ma non sappiamo mai, fino in fondo, cosa ci sta sotto.
    Certamente: è un bene, un segno di maturità. Ci costringe a guardare nella direzione del futuro e a recuperare quotidianamente un presente di responsabilità operativa. Ma di un criterio di verifica abbiamo urgente e inquietante necessità: per noi e per condividerlo con i fratelli.
    I primi discepoli di Gesù ce lo consegnano, nel loro vissuto.
    Ancora i racconti degli «Atti degli Apostoli» sono un dono prezioso.
    Mi ha molto impressionato l’atteggiamento di Paolo di fronte a quella ragazza che, piena di uno spirito profetico, faceva un tifo indiavolato per lui, invitando tutti ad ascoltarlo con attenzione (si veda Atti 16). Paolo avrebbe potuto godere di una propaganda a titolo gratuito e di un credito assicurato dal prestigio di cui la ragazza godeva. E invece si fa dei nemici accaniti, prima fra tutti il proprietario della ragazza che ha perso una fonte notevole di entrata, e libera la ragazza dallo spirito, costringendola al silenzio.
    Perché Paolo si è comportato così?
    Sono convinto che la risposta sia una sola, impegnativa ed esigente. L’incontro personale con Gesù non si misura sull’entusiasmo ma sulla fedeltà.
    Il criterio di verifica è dunque la fedeltà. Ma la fedeltà non è ripetizione di quanto è già stato sperimentato, ma costruzione di quel progetto di futuro che la missione ci ha affidato.
    In quest’operazione la croce diventa la dimensione determinante.
    Mi ha orientato verso questa conclusione una testimonianza autobiografica di Paolo. Riporto prima il testo di Paolo e aggiungo poi una rapida sottolineatura.

    «Non è bello vantarsi, eppure devo farlo. Perciò vi parlerò delle visioni e delle rivelazioni che il Signore mi ha concesse. Conosco un credente che quattordici anni or sono fu portato fino al terzo cielo. (Io non so se egli vi fu portato fisicamente o solamente in ispirito: Dio solo lo sa). So che quell’uomo fu portato sino al paradiso. (Se lo fu fisicamente o solamente in ispirito – lo ripeto – io non lo so: Dio solo lo sa). Lassù udì parole sublimi che per un uomo è impossibile ripetere. Di quel tale sono disposto a vantarmi, ma per quanto riguarda me, mi vanterò soltanto delle mie debolezze. Se avessi voglia di vantarmi non sarei un pazzo perché direi la pura verità. Tuttavia non lo faccio: voglio che la gente mi giudichi in base a ciò che faccio e dico, e che non abbia di me un’opinione più alta. Io ho avuto grandi rivelazioni. Ma proprio per questo, perché non diventassi orgoglioso, mi è stata inflitta una sofferenza che mi tormenta come una scheggia nel corpo come un messaggero di Satana che mi colpisce per impedirmi di diventare orgoglioso.
    Tre volte ho supplicato il Signore di liberarmi da questa sofferenza. Ma egli mi ha risposto: Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta in tutta la sua forza proprio quando uno è debole. È per questo che io mi vanto volentieri della mia debolezza, perché la potenza di Cristo agisca in me» (2 Cor 12, 1-10).

    Paolo riconosce con gioia le cose grandi che Dio ha compiuto in lui, per un gesto imprevedibile della sua bontà. Ha diritto di avere un’alta immagine di sé. Non si è fatto così lui, con la forza e l’astuzia. È stato costruito così da Dio per il servizio cui è stato chiamato. Lo sa, lo riconosce, ne va fiero. Questo è Paolo: uno che ha diritto di vantarsi davanti a tutti.
    Scopre però che gli è rimasto qualcosa che non funziona nella sua vita. Una cosa, piccola o grande non importa, un piccolo neo tra gli splendori di un volto rinnovato.
    Ci crede tanto al suo diritto di vantarsi, che vorrebbe sistemare anche questa incertezza. E lo chiede con forza a chi l’ha trasformato. La risposta che ha udito, dal silenzio del suo Dio, e che regala a tutti noi, è perentoria: Tieni il tuo problema, perché lì scopri meglio chi sono io per te. La potenza di Dio si manifesta non nel volto splendente che ti è stato regalato, ma nella debolezza che ti costringe ad alzare le mani quotidianamente nell’invocazione.
    Il ritornello è lo stesso: sei qualcuno, esisti, hai diritto di essere riconosciuto... quando diventi capace di affidarti. Dio fa così sempre.
    È proprio strano: chi si affida è debole, sembra un perdente, dipende tutto dall’altro... così diventa forte, il vincitore. Povera logica del nostro buon senso: è proprio condannata al fallimento. Ma è quella del Vangelo: chi ama la sua vita, la perde per amore, perché la consegna, con la fiducia cieca di un bambino.Questa è la croce, nella sua dimensione più autentica, di vittoria della vita proprio nel momento tragico della morte e della sconfitta. Gesù vince i suoi nemici non quando calma il mare in tempesta o sfama una folla immensa con pochi pani. È il vincitore quando, inchiodato sulla croce, spalanca le sue braccia nell’accoglienza incondizionata di tutti.
    Lo so che è duro. È più facile scriverlo che viverlo.
    Ma non posso tacere, proprio quando medito sulle condizioni che rendono autentico l’affidamento a Gesù e consolidano la mia decisione di vivere alla sua sequela.
    Mi consola e mi rassicura la solidarietà con i tanti amici di Gesù che l’hanno proclamato e soprattutto l’hanno vissuto.


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