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    Ti racconto Gesù. Qualche riflessione introduttiva alla rubrica



    Ti racconto Gesù /1

    Riccardo Tonelli

    (NPG 2012-01-38)


    Qualche mese fa ho raccontato il mio cammino, di studio e di confronto, sui temi che riguardano l’educazione dei giovani alla fede. [1] In quell’occasione ho ricordato ripetutamente progetti, difficoltà, realizzazioni in merito all’annuncio esplicito di Gesù il Signore, senza però affrontare il tema in termini diretti. In questo studio concentro la mia attenzione sull’argomento, cercando di verificare come sono andate le cose in questi anni e soprattutto suggerendo una modalità esplicita per la sua realizzazione.
    Come capita spesso nei processi in cui sono in gioco tanti fattori, esistono punti abbastanza fissi e consolidati. Rappresentano gli elementi di continuità, quelli che fanno sistema e danno un orientamento fondamentale a tutte le differenti proposte. E ci sono, per fortuna, cambi profondi, gioiosi o sofferti, improvvisi o ponderati. Tutte e due le prospettive sono preziose. Le prime aiutano a comprendere e ad interpretare un pensiero che si evolve in una certa radicale stabilità. Le altre assicurano la necessaria attenzione alla vita concreta e l’accoglienza dei diversi stimoli che il vissuto consegna, a chi sa ascoltare i fatti quotidiani. Tutto questo vale anche a proposito della centralità e della qualità dell’annuncio di Gesù.
    Sono convinto che ogni proposta nuova fiorisce sulla lettura critica del passato; per questo prima di suggerire una mia proposta, racconto e interpreto il cammino percorso.

    GUARDANDO IL CAMMINO PERCORSO

    La centralità dell’annuncio di Gesù è davvero il cuore e il fondamento di ogni progetto di pastorale giovanile. Lo dico con gioia e con senso di responsabilità: per me e per i tanti amici con cui ho avuto la gioia di lavorare in questi anni. Ed è chiaro che non può essere che così. La pastorale giovanile non è una brutta copia della metodologia pedagogica. Se si rassegna a ridursi ad una raccolta di suggerimenti educativi, raffinati e collocati ideologicamente, è davvero priva di senso e scatena un gioco di concorrenze in cui sarà sempre perdente per inefficienza... almeno di strumentazioni e competenze. Al contrario, se la pastorale giovanile si colloca come precisa e impegnata azione ecclesiale, la proclamazione, forte e decisa, del nome di Gesù è dimensione irrinunciabile e qualificante. [2]
    La variabile è un’altra, correlativa proprio a questa fondamentale.
    La ricordo, per arrivare al dunque di questa mia riflessione.
    L’annuncio di Gesù, nell’esperienza ecclesiale che connota, per diventare efficace e salvifico, deve corrispondere alle esigenze di ogni «parola d’uomo», perché la Parola di Dio si è fatta parola d’uomo per diventare parola per l’uomo, «come già il Verbo dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo». Ce lo ha insegnato il Concilio (DV 13).
    Questo è un dato fondamentale. Rappresenta ormai un punto di non ritorno per ogni progetto di pastorale.
    Le conseguenze sono enormi.
    Questo dato di fatto, per esempio, spalanca l’attenzione di ogni evento ecclesiale verso la cultura. Giustifica quindi un certo pluralismo di modelli, proprio per la pluralità di parole umane in cui si dice sempre la Parola di Dio.
    Ancora, esige dall’evangelizzatore l’attenzione verso le modalità comunicative, che caratterizzano lo scambio di ogni parola umana, proprio per rispettare meglio la potenza della Parola di Dio.
    Alla radice, come afferma la citazione del Concilio, fonda l’attenzione, amorevole e devota, all’umanità di ogni uomo, in cui la Parola di Dio si fa parola per noi, nell’evento dell’Incarnazione.
    Nello stesso tempo sollecita continuamente alla fedeltà e alla conversione, per assicurare quella trasparenza di umanità che permette l’incontro con il mistero.
    Questa convinzione ha sollecitato alla radice la ricerca di pastorale giovanile di questi anni. Sono entrate in gioco preoccupazioni differenti, spesso tanto esigenti che qualcuno ha avuto l’impressione che nascondessero persino la sostanza.
    Ci siamo preoccupati, per esempio, della qualità del linguaggio, per non correre il rischio di parlare un’altra lingua, rispetto a quella normale dei giovani della vita quotidiana. E così la sicurezza di un certo linguaggio teologico è stata ridimensionata nella ricerca di modalità espressive maggiormente attuali.
    A guardare il processo con il distacco oggi doveroso, non si fa nessuna fatica a scoprire i limiti e i rischi dell’operazione. Basta pensare a quelle trasfigurazione del volto di Gesù, che hanno occupato il terreno pastorale alla fine degli anni Settanta, sotto l’onda della contestazione giovanile. Penso, per esempio, ai poster che proponevano Gesù come un «ricercato», perché sommava in sé le caratteristiche di un giovane contestatore, o a quelle celebrazioni eucaristiche che assomigliavano soprattutto ad assemblee politiche programmatiche...
    Anche la preoccupazione relativa al rapporto tra attese e proposte ha catturato tempo e risorse.
    Venivamo da un’esperienza, pastorale e pedagogica, che consegnava il diritto alla parola a chi poteva pretendere di dichiarare ciò che andava detto, senza compromessi e rassegnati silenzi. In questi modelli, l’annuncio di Gesù era il punto di partenza, forte e obbligato. L’interesse verso l’ascoltatore restava sul piano metodologico... e tutto lo sforzo mirava all’invenzione di stratagemmi adeguati. E se gli esiti erano deludenti, nessuno metteva sotto pregiudicato il processo, ma ci si accontentava di colpevolizzare il distratto.
    I profondi cambi culturali in atto qualche decennio fa hanno spinto a cambiare prospettiva. La preoccupazione di far crescere le attese, di maturare le domande, di spalancare l’attenzione... come primo irrinunciabile passo metodologico, ha dettato un calendario operativo diverso da quello classico. Dalla proposta siamo passati al grosso lavoro di educazione della vita quotidiana, per farla diventare luogo di domande, transitando dal coraggio di proporre senza mezzi termini alla fatica di rendere i giovani attenti e interessati alla proposta.
    Questo modo di fare ha prodotto notevoli vantaggi. Non sono però mancati né rischi né limiti: i tempi lunghi... che sembrano incapaci di far approdare alla conclusione, e lo spostamento di attenzione dal contenuto al metodo, dall’oggettività alla soggettività. Per giustificare queste e simili difficoltà... ne abbiamo inventate di tutti i colori, scatenando talvolta gli atteggiamenti di eccessiva difesa da parte di coloro che vedevano con chiarezza i rischi della scelta.
    Non mi preoccupa costatare da quale parte stava la ragione. Mi spiace annotare quante energie sono andate sprecate per costruire palizzate a difesa delle proprie posizioni.
    Tra i fatti da elencare per fare la cronaca di come la pastorale giovanile nel dopoconcilio abbia affrontato le esigenze dell’annuncio di Gesù, non posso dimenticare lo sguardo, tra il perplesso e il critico, con cui molti hanno guardato gli... annunciatori ad oltranza, quelli che, convinti dell’efficacia della parola, producevano esperienze e comunicazioni sicure, seducenti, destinate più a creare dipendenza che consapevolezza. Avevamo l’impressione che il nome di Gesù servisse troppo a coprire la persona dell’annunciatore, invece di decentrare veramente verso lui, l’unico Signore, che cerca discepoli consapevoli e coraggiosi. Qualche volta ci è venuto spontaneo paragonare il ritmo, lento e ponderato, che preferivamo, a questo fanatismo di altre stagioni.
    In questi ultimi anni, come esito prezioso di una crescita teologica di sensibilità, si è consolidata un’altra interessante preoccupazione.
    L’annuncio di Gesù non può essere ridotto a parole, più o meno elaborate e sapienti. La logica evangelica appare decisamente un’altra, quella del «vieni e vedi», la condivisione cioè di esperienze capaci di anticipare nel piccolo e nel quotidiano gli eventi di futuro verso cui siamo in trepida operosa attesa.
    La parola più eloquente su Gesù è costituita da fatti di novità di vita, vissuti e prodotti nel suo nome. Le parole, sempre necessarie, risuonano autentiche solo quando sono interpretazione di vissuti. Consapevoli di questa esigenza, è affiorato il timore di scadere nel gioco delle parole, contrapponendo eventualmente parole di un certo stile ad altre... dimenticando che le parole non possono mai determinare una decisione di vita. Ma i fatti che come discepoli di Gesù riuscivamo a produrre... erano pochi, scarsi, poco profetici davvero. E così si è spalancata la strada verso il silenzio e una certa rassegnazione che trovava buone giustificazioni, in alcuni raffinati e seducenti modelli teologici.
    Ma possiamo scegliere la via del silenzio in una stagione in cui gridano tutti?
    Ripensando al cammino percorso, è facile constatare quanto, nella comunità ecclesiale, abbiamo guadagnato da queste tensioni. Siamo diventati più maturi e consapevoli. Ci siamo resi conto che l’annuncio del Vangelo deve sempre risuonare come «una bella notizia» per la vita concreta delle persone. Non può essere quindi immaginato come qualcosa che va riversato a tutti i costi sulla libertà e sulla responsabilità delle persone. Il tempo perduto è stato però pagato a caro prezzo: il nostro silenzio ha permesso a tante persone di suggerire progetti e ragioni di senso, che non nascevano dall’amore concreto e gratuito verso i nostri fratelli. E, in tutti i casi, la disperazione si è consolidata sul nostro silenzio. Anche il gioco, troppo facile, di nuovi aggettivi con cui riqualificare il tema dell’evangelizzazione, non è servito a restituire coraggio e fantasia ai discepoli di Gesù e, di conseguenza, non ha arrestato l’onda travolgente della crisi di senso e della morte per mancanza di speranza.
    Oggi dovremmo essere tutti consapevoli che non possiamo più continuare a dividerci su questa questione teorica. Siamo sollecitati a riaffermare l’urgenza di essere testimoni coraggiosi del nome di Gesù, per permettere a tutti di essere pieni di vita e di speranza.

    PER INTERPRETARE I FATTI

    Ho raccontato qualche tappa di un cammino percorso, con gioia e a fatica da molti di noi, per una ragione che mi sta a cuore evidenziare. Se ben compresa e condivisa può davvero aiutarci a procedere in avanti, anche in modo nuovo.
    So di dire cose note a chi è del mestiere. Ma vanno ricordate per intenderci bene e motivare adeguatamente le scelte successive.
    All’interno delle linee di tendenza che ho appena annotato, è facile scoprire una costante, preziosa.
    Da una parte è fuori discussione l’urgenza di annunciare il nome di Gesù, senza incertezze e senza mezzi termini, per assicurare l’incontro e l’esperienza personale con Lui. Questo è quello che conta. L’annuncio del suo nome è la condizione per poter assicurare l’incontro.
    Di questo sono di sicuro convinti tutti... anche coloro che hanno tentato le esperienze più strane e innovative. Ricordare la necessità di centrare ogni pastorale giovanile nell’annuncio di Gesù è dichiarare l’urgenza più inquietante e condivisa. Siamo tutti grati a chi lo ricorda... se accetta di partire dall’ipotesi che non si tratta di fare un gesto che era trascurato... ma eventualmente di realizzarlo meglio, con maggiore autenticità e coraggio.
    A questo livello si colloca la seconda indicazione che la lettura del vissuto pastorale di questi anni del dopoconcilio ci può consegnare.
    L’annuncio di Gesù è stato realizzato in questi anni con modalità decisamente molto diverse. Lo conferma la veloce rassegna delle righe precedenti. La diversità non era, in fondo, di metodo. Pesava tanto l’attenzione ad esigenze metodologiche e comunicative, da mostrare spesso una diversità persino di contenuti. E questo, evidentemente, scatenava i problemi e i conflitti.
    Se ripensiamo con distacco pensoso a questi differenti prospettive, scopriamo che la diversità non nasceva sul merito dell’evento evangelizzato. Sarebbe stato scorretto e deleterio. Non abbiamo bisogno di predicare un uomo più intelligente di altri o un rivoluzionario più raffinato. Chi l’ha fatto, ha tradito la sua missione e ha derubato i suoi interlocutori del fondamento di una speranza che sa andare oltre ogni speranza.
    La diversità nasceva dall’attenzione ai problemi del contesto, culturale e sociale, e dal modo di interpretare le attese più profonde dei destinatari dell’evangelizzazione.
    Faccio un esempio, citando il modo cui è stato compreso l’esito a livello personale e sociale dell’incontro con Gesù. Qui i modi di dire sono davvero diversi. Esprimono sicuramente la stessa realtà ma con connotazioni linguistiche tanto speciali da mettere in sospetto tante persone, nelle diverse frontiere dell’esperienza ecclesiale, scatenando frequentemente reazioni accalorate.
    L’espressione classica è quella tradizionale: la salvezza. L’incontro con Gesù assicura la salvezza e, di conseguenza, la «vita eterna». È fuori discussione. Tutti sanno però come il termine salvezza sia ormai ambiguo. Ciascuno lo riveste di connotazioni così specifiche da rendere persino difficile trovare punti di contatto. Nella prima edizione del mio libro sulla pastorale giovanile ho dedicato un capitolo proprio a studiare l’uso di questa espressione.
    Una formula più ampia, carica di risonanze anche collettive e sociali, è il «regno di Dio»: il dono che Gesù ci offre e l’impegno a cui ci sollecita.
    Io preferisco parlare di «vita piena» e di «speranza». Facendo eco – senza pretese esaustive – a Gv 10, ho scelto questa formula per esprimere più efficacemente il dono e la responsabilità dell’incontro personale con Gesù all’interno delle sensibilità e delle attese più intense della cultura attuale. Si tratta, in ultima analisi, di un processo ermeneutico di inculturazione, relativo ma – mi auguro – funzionale in un certo contesto.
    Una lettura attenta non si lascia distrarre dalle espressioni, ma cerca di trovare, nella ricchezza della differenza, ragioni di confronto e di compagnia. La guerra sulle parole, anche con le migliori intenzioni di questo mondo, è sempre... preoccupante.
    Non si tratta di piccola cosa. Al contrario, su questo riferimento si misura la qualità dell’atto pastorale. In questa fedeltà dinamica ai destinatari e al contesto, la pastorale svolge la sua missione specifica.
    La teologia ci consegna l’evento da servire e ci sollecita a renderlo a tutti come una bella notizia che salva e dà speranza. L’impresa di realizzare questo compito, nel qui e ora concreto, compete a chi vive la prassi pastorale quotidiana. La teologia aiuta a verificare la fedeltà... ma non può di certo realizzare il suo compito, confrontando un dato «oggettivo», collocato al sicuro, lontano dalla mischia delle interpretazioni, con quello che viene offerto, sperimentato, vissuto dentro la quotidiana esperienza ecclesiale. La teologia non è la maestra che corregge i compiti dello scolaretto «pastorale»... E quando è stato fatto, le tensioni si sono moltiplicate per mille, a scapito dell’esperienza ecclesiale stessa.
    La diversità nei modelli concreti di evangelizzazione nasce sul modo di assicurare la qualità e l’efficacia di «parola d’uomo» alla parola di Dio per essere sempre parola per l’uomo.
    I criteri di questa operazione rimbalzavano sulla pastorale giovanile dalla cultura dominante e dalla ricerca di alternative efficaci per una sua trasformazione.
    Chi rilegge il cammino percorso in questi anni dal dopoconcilio – da quando cioè questa sensibilità è diventata patrimonio irrinunciabile della pastorale – si accorge facilmente di che cosa è cambiato e delle ragioni che giustificano i cambi.
    In fondo, la sicurezza di un certo modo di fare oggettivistico e ripetitivo, anche nei processi di evangelizzazione, denuncia il limite più grosso e preoccupante.
    Non sono i più bravi... quelli che sono rimasti nel sicuro di ciò che andava detto e fatto perché così deve funzionare, ma sono coloro che hanno faticato a cogliere la distinzione e la responsabilità reciproca tra teologia e pastorale.
    Non sono riusciti a proclamare proposte sicure e rassicuranti, come qualcuno avrebbe desiderato, perché non hanno accettato di produrre modelli di pastorale soltanto deduttivi né si sono rassegnati a risolvere i compiti della pastorale in qualche strategia metodologica o in qualche gioco comunicativo.

    E OGGI?

    Da molte parti giungono inviti a ritrovare la gioia e la responsabilità di una evangelizzazione esplicita e decisa.
    Sono certamente un dono prezioso e stimolante per tutti, a conforto e a incoraggiamento.
    Ci aiutano a rilanciare un compito irrinunciabile per ogni progetto serio di pastorale giovanile. Come realizzare oggi questo annuncio a confronto con l’attuale sensibilità culturale?
    La domanda, compresa bene, è quella di sempre: come far risuonare oggi il vangelo di Gesù, per restituirgli la forza di bella notizia per la speranza? Lo è sempre e di fatto.
    Ma siamo sollecitati a pensare e a sperimentare qualcosa di nuovo, continuamente, perché lo possa diventare in concreto e con le persone concrete con cui dialoghiamo. [3]
    Formulo la mia proposta in tre passaggi successivi, da realizzare in modo integrato.

    Come gesto d’amore: concreto e trasformante

    Gli Atti degli Apostoli (cap. 3 e 4) raccontano quello che ha combinato Pietro quando ha incontrato la mano tesa di un povero paralitico alla Porta Bella del Tempio e la sua difesa davanti al Sinedrio, quando gli è stato contestato quello che ha fatto, soprattutto a causa dell’esito (disturbo dell’ordine pubblico). Dichiara, senza incertezze, che lo zoppo cammina perché tutti sappiano che Gesù è l’unico nome in cui è possibile avere la vita. Lo proclama davanti a coloro che l’avevo ucciso nel nome di Dio, ricordando che Dio l’ha resuscitato, per mostrare con i fatti dove si colloca il suo progetto.
    Allo zoppo che chiede elemosina, Pietro parla di Gesù. E lo zoppo guarisce. Pietro non gli dà i pochi spiccioli che lo zoppo si attendeva per arrivare a sera. Gli dà molto di più: l’incontro con Gesù e la guarigione. Lo zoppo è rimasto felicissimo... di non essere stato esaudito. Nell’incontro con Gesù, annunciato da Pietro, ha cambiato la sua vita. Né lui né Pietro sono rimasti prigionieri della rete stretta di domanda e risposta.
    Meditando l’esperienza di Pietro, rilancio una convinzione, che giustifica passione e impegno: l’annuncio di Gesù è il grande gesto di amore che possiamo fare nei confronti dei nostri amici, per restituire ad essi vita, consolidare la speranza, sollecitare ad una responsabilità radicale per la causa del regno di Dio.
    Non può mai diventare un processo di proselitismo e nemmeno qualcosa che assomigli al bisogno di esternare i pregi della squadra per cui facciamo tifo. È sempre e solo un gesto di amore, totalmente gratuito e radicalmente decentrato verso gli altri.
    Questo mi sembra oggi il punto di prospettiva, da riscoprire, approfondire, rilanciare.
    L’annuncio di Gesù, come gesto d’amore, caldo e appassionato nei confronti delle persone, non nasce né dalla richiesta dell’interlocutore né dal nostro desiderio apostolico. Nasce dalle logiche del servizio pieno e totale, per ogni persona nel mistero della sua esistenza, e per la storia personale e collettiva di tutti, nella prospettiva di quel progetto che Gesù ha chiamato il «regno di Dio».
    Da questa visione globale, cambiano ritmi e tempi. Non ci può essere più un prima, che prepara, e un «finalmente» che realizza. L’amore ha logiche totalmente diverse. È decentrato verso l’altro. Ma misura la qualità del suo servizio sul bene oggettivo della persona amata. Non si ferma perché viene rifiutato. Né tanto meno si ridimensiona, per farsi più accettabile. Travolge chi ama, per permettergli di crescere in pienezza e autenticità: come una mamma che toglie dalle mani del figlio che ama, un gioco pericoloso... anche se egli piange e grida, perché glielo impone l’amore concreto che gli porta.
    Voler bene ad una persona significa volere profondamente il suo bene, permettere ad una persona di scoprire che la profonda attesa di speranza e di senso che percorre la sua esistenza, ha bisogno di trovare risposte. Non possiamo continuare a spostare il tempo dell’incontro con queste risposte e non possiamo, per nessuna ragione, mandare deluse queste attese. Per questo, proprio a partire dall’amore che ognuno di noi porta ai fratelli che ha la gioia di incontrare, scopriamo che non possiamo rassegnarci a non parlare di Gesù. Il silenzio, in questo caso, diventerebbe una scelta che tradisce l’amore.
    L’amore chiede di aiutare ogni persona a diventare sempre di più signore della propria vita. Ma siamo signori della nostra vita solo quando riusciamo a sperimentarne il suo senso anche nel momento in cui eventi tragici sembrano consegnarci al nonsenso. Siamo signori della nostra vita se siamo capaci di collocarla dentro un progetto più grande che riguarda anche il futuro della nostra esistenza: riusciamo a ritrovare una ragione gioiosa anche di fronte al dolore e alla morte, scopriamo che siamo pienamente noi stessi solo quando riusciamo a morire, come il chicco di grano, perché tutti abbiano la gioia di raccogliere il pane cresciuto nel terreno del mio piccolo servizio.
    Parliamo di Gesù non solo perché lo consideriamo un amico importante di cui sentiamo la gioia di regalare a tutti la stessa amicizia... parliamo di Gesù, e vorremmo che tutti lo potessero incontrare nel cuore della loro esistenza, perché solo in lui possiamo scoprire che, nonostante tutto, siamo e restiamo signori della nostra vita. Davvero il nome di Gesù è il regalo più grande che possiamo fare a tutti, per restituire a tutti la gioia di vivere e la libertà di sperare.
    La comunità ecclesiale non si rassegna se alle persone con cui condividiamo la vita quotidiana il nome di Gesù non interessa. Non si rassegna se davanti all’annuncio esse restano indifferenti, preoccupate di molte altre cose. Sta ad esse vicina, l’inquieta e li interpella, perché solo quando esse hanno incontrato Gesù, possono veramente restare in quella gioia e in quella speranza che vanno cercando, purtroppo tante volte come l’assetato che cerca un sorso d’acqua tra le pietre e il fango dei pozzi aridi.
    Dalla prospettiva dell’amore che si fa annuncio, possiamo ripensare veramente a tutto il processo. Sono convinto che un grosso e impegnativo compito ci sia consegnato, sul piano dei contenuti teologici e dei modelli comunicativi.
    Faccio solo due accenni. Spesso purtroppo molti problemi nascono proprio da una strutturale mentale di cui facciamo fatica a liberarci.

    Ti racconto l’esperienza che ho fatto di Gesù

    Colui che è chiamato a commentare un episodio della storia o chi insegna ad altri un teorema di geometria, deve attenersi ai fatti e li deve presentare con chiarezza e oggettività. Compie il suo dovere comunicativo quando dice correttamente le cose che deve dire. L’entusiasmo e il coinvolgimento appassionato non gli sono richiesti; possono persino risultare negativi, quando rischiano di travolgere lo spessore dei dati di fatto.
    Questo non basta a chi racconta la storia di Gesù per la salvezza.
    La comunicazione è autentica quando è capace di suscitare, attraverso lo stesso atto comunicativo, «un intreccio di esperienze».
    Per capirci bene, riprendo il paragone appena fatto, introducendo la distinzione tra evangelizzazione e descrizione.
    La descrizione rappresenta realtà esistenti (ambienti, paesaggi, personaggi, informazioni), lontane o sconosciute; le strappa, in qualche modo, dal loro tempo naturale e dal loro spazio logico, per porle «davanti» a qualcuno. Per fare questo dà informazioni, scatena la capacità immaginifica, privilegia certi particolari, assicura «spettacolo».
    Basta pensare ad un reportage televisivo, alle pagine di un buon romanzo, ai giochi di parole che trasportano lontano, fino a rendere la persona «dentro» i fatti descritti. Nel caldo confortevole della nostra stanza o sprofondati in una comoda poltrona, ci sentiamo in prima fila ad ammirare avventure lontane, avvenimenti lieti o tristi, che, in fondo, coinvolgono solo la nostra fantasia e appagano la nostra curiosità.
    Le cose descritte non ci toccano: restiamo fuori dal raggio mortifero delle armi da guerra o ci immergiamo solo con il desiderio nelle acque trasparenti di mari proibiti alle nostre concrete possibilità.
    L’evangelizzazione percorre sentieri comunicativi molto diversi.
    Gli eventi che essa rappresenta sono sprofondati in un tempo lontano; diventano però nell’atto comunicativo vicini e contemporanei a chi parla e a chi ascolta. La contemporaneità e la vicinanza non viene assicurata dall’abbondanza dei particolari descrittivi o dalla vivacità spettacolare con cui sono riattualizzati. È assicurata invece sul fatto che si sta concretamente parlando delle storie vitali dell’evangelizzatore e degli interlocutori, nel racconto di una storia lontana nel tempo e tanto presente da diventare un pezzo della nostra esistenza.
    Chi racconta la storia felice di Gesù che moltiplica il pane per sfamare coloro che l’avevano seguito dimenticando tutto, non rende vivo e attuale il racconto perché riesce a descrivere bene l’erba fresca di primavera e le dolci colline che scivolano verso il lago di Genezareth. Lo rende attuale perché riesce a far coincidere la fame degli amici di Gesù con la nostra quotidiana fame, e perché sollecita ciascuno a schierarsi sulla provocazione inquietante di colui che ha sfamato sé e gli altri perché ha deciso di rischiare nella condivisione dei pochi pani che si era portato come provvista. È una storia nostra quella raccontata; tra la folla ci siamo ritrovati anche noi, divisi tra la ricerca affannosa di possesso e il desiderio sincero di spartire tutto.
    Raccontandoci di quell’uomo egoista che ha sacrificato l’unica pecora del vicino per preparare un banchetto di festa all’ospite gradito, lui che di pecore ne aveva almeno cento, ci sentiamo chiamati personalmente in causa. Raccontiamo questa storia di sopraffazioni e di pentimenti non per far rivivere una pagina famosa della storia del popolo ebraico. Non ci interessa sapere se le cose sono andate davvero così o se Natan si è inventato tutto per mettere meglio in crisi Davide. Come è capitato a Davide, ci accorgiamo che nel racconto del profeta c’è una pagina della nostra vita, che di pecore ne abbiamo sottratto tante all’affetto e alla fame dei poveri, magari con l’intenzione di organizzare meglio la festa.
    Tutto questo trasforma l’annuncio di Gesù in una esperienza, capace di suscitare nuove esperienze: l’evento di Dio che in Gesù si fa vicino a ciascuno di noi, per la nostra vita e la nostra speranza, le attese e le esperienze delle persone cui viene offerto il racconto, l’esperienza, vissuta e sofferta, di chi ritrova la gioia e il coraggio di condividere quello che ha sperimentato nell’incontro salvifico.
    Questi tre dati, di peso e di significato tanto diverso, diventano una parola unica, perché l’autenticità e verità di ogni elemento richiede gli altri, in un gioco di rapporti reciproci. [4]
    Chi vuole servire la vita e consolidare la speranza non può ridurre la sua proposta a frammenti della propria esistenza. Nessuno può dare la vita piena: né a sé né agli altri. Dolore, incertezza e morte minacciano continuamente ogni pretesa di autosufficienza. Abbiamo bisogno di offrire un riferimento più alto e sicuro, quello dell’unico nome in cui possiamo avere tutti la vita.
    L’evangelizzatore racconta quindi i testi della sua fede ecclesiale: le pagine della Scrittura, le storie dei grandi credenti, i documenti della vita della Chiesa, la coscienza attuale della comunità ecclesiale attorno ai problemi di fondo dell’esistenza quotidiana. In questo primo elemento, propone, con coraggio e fermezza, le esigenze oggettive della vita, ricompresa dalla parte della verità donata. Credere alla vita, servirla perché nasca contro ogni situazione di morte, non può certo significare stemperare le esigenze più radicali e nemmeno lasciare campo allo sbando della ricerca senza orizzonti e della pura soggettività.
    L’evangelizzatore non riesce però a parlare come se lui non c’entrasse e fosse ormai al di sopra della mischia. La vita è avventura di solidarietà profonda e continua, che neppure la morte fisica riesce ormai a spezzare. Questo coinvolgimento personale gli assicura l’autorevolezza di cui ha bisogno per pronunciare parole esigenti, che giudicano e inquietano con la forza di una esistenza riconquistata in modo riflesso. Anche questa esigenza ricostruisce un frammento della verità della storia narrata. La sottrae dagli spazi del silenzio freddo dei principi per immergerla nella passione calda della salvezza.
    I suoi interlocutori non sono i destinatari passivi della comunicazione. Essi diventano protagonisti del racconto stesso. La loro esistenza dà parola al racconto: fornisce la terza delle tre storie, su cui si intreccia l’unica storia. L’evangelizzatore parla di loro in prima persona, delle loro attese e dei loro progetti, anche quando racconta di uomini e donne sprofondati in tempi lontani o quando aiuta a decifrare il percorso della natura e della storia o quando ritesse la trama di una solidarietà che dà volto a gente mai vista.
    In forza del coinvolgimento personale, l’annuncio di Gesù non è mai una proposta rassegnata o distaccata. Chi narra la storia di Gesù vuole una scelta di vita: per Gesù, il Signore della vita o per la decisione, folle e suicida, di vivere senza di lui. Per questo la passione operosa per il regno di Dio è una dimensione fondante di ogni annuncio.

    Raccontare Gesù raccontando l’esperienza dei suoi discepoli

    Ho affermato che posso parlare di Gesù solo raccontando l’esperienza che ho fatto di lui.
    Quale esperienza di Gesù posso raccontare? Purtroppo i progetti sono molto più alti delle realizzazioni. Ho paura che per parlare di Gesù dentro la mia esperienza, dovrei scegliere la via del silenzio, come unica strada praticabile in modo sincero. O, al massimo, dovrei accentuare troppe dimensioni personali, a scapito della completezza e autenticità della sua figura di Signore e Salvatore. Dovrei raccontare più di sogni, svaniti nei tradimenti, che di esperienze forti e rassicuranti.
    Non voglio il silenzio. Lo considero una scelta non adeguata, proprio per quella logica di amore che si fa servizio, in cui ho cercato di ricomprendere la necessità dell’annuncio di Gesù oggi.
    Considero praticabile un’altra prospettiva.
    Noi abbiamo avuto la fortuna di incontrare Gesù nel racconto dell’esperienza che alcuni suoi discepoli hanno fatto, stando con lui. Questa esperienza ci consegnano nei documenti della loro e nostra fede (i Vangeli soprattutto, e gli Atti degli Apostoli). La loro esperienza ha suscitato poi molte altre esperienze affascinanti. Siamo in una catena di testimoni coraggiosi che, anello dopo anello, ci portano direttamente alla persona del Signore. A partire da questa convinzione, posso scegliere di parlare di Gesù raccontando la loro esperienza.
    Non ho altro modo, per coerenza con quello che ho premesso. E mi sembra un modello comunicativo davvero bello, che corrisponde ai testi della fede che possediamo e che assicura un coinvolgimento molto esperienziale.
    È interessante constatare che la scelta di raccontare Gesù raccontando l’esperienza che i suoi discepoli hanno fatto con lui e di lui, riporta in primo piano anche la nostra esperienza. Ci permette di raccontare Gesù, coinvolgendoci intensamente e rassicurando, nello stesso tempo, la nostra debolezza – quella che ci costringerebbe al silenzio... – nel conforto autorevole dell’esperienza dei discepoli.
    Attualizziamo così la stessa struttura dei Vangeli.
    I Vangeli e le testimonianze apostoliche, infatti, non sono mai il resoconto materiale degli avvenimenti della vita di Gesù di Nazareth, di cui i discepoli sono stati testimoni. Essi sono invece un documento di fede e di amore. I Vangeli sono l’espressione, autentica e verificabile, di avvenimenti, scritti in una stagione in cui moltissimi testimoni diretti erano ancora vivi. C’è un fatto certo e documentabile: la persona di Gesù, i gesti da lui compiuti e le parole che ha detto. C’è però la fede appassionata del discepolo e della prima comunità cristiana, nata nell’entusiasmo di questi avvenimenti meravigliosi. E ci sono persino i destinatari concreti di questi testi scritti: persone vive, piene della voglia di vita e affamate di speranza, che l’autore di ogni Vangelo coinvolge direttamente nel suo racconto.
    I racconti evangelici non sono la cronaca degli avvenimenti che riguardano la persona di Gesù né, tanto meno, possiamo immaginare che i discorsi riportati siano il resoconto stenografico delle sue parole. Fatti e parole sono la trascrizione, in una ispirazione specialissima dello Spirito di Gesù, della esperienza di fede dei suoi discepoli. Fatti e parole non sono comunicati per informare su particolari sconosciuti, ma per suscitare nuove esperienze di fede.
    Per questo, i Vangeli sono, in ultima analisi, un documento tessuto di fede e di storia, pieno di avvenimenti documentabili e traboccante della vita concreta di chi scrive e di chi legge. Questo modello speciale di scrittura rende i Vangeli capaci di suscitare altre esperienze di fede, come è capitato all’inizio e continua a capitare nell’esistenza di tante persone.
    Nella scelta delle esperienze raccontate, nelle sottolineature e nei rilievi annotati, l’esperienza dei discepoli di Gesù viene sempre filtrata dall’esperienza concreta del narratore. Propone quello che avverte in modo speciale come «bella notizia» e lo sceglie, lasciandosi coinvolgere, con la speranza che anche per altri possa risuonare come «bella notizia».


    NELLA COMUNITÀ ECCLESIALE PER ASSICURARE L'ORTODOSSIA DELLA FEDE

    L’enfasi su un annuncio di Gesù in cui si intrecciano diverse esperienze, potrebbe far scivolare il processo sulla china pericolosa della soggettivizzazione. Non c’è di certo bisogno oggi di facilitare questa tendenza... visto che ce l’abbiamo ormai congenita, per ragioni culturali, e preoccupa sinceramente anche coloro che ne constatano il valore.
    L’annuncio di Gesù è autentico quando viene condivisa autenticamente la storia di Gesù di Nazareth e della fede che ha suscitato nei suoi discepoli, secondo la professione di fede della comunità ecclesiale attuale. Lo dobbiamo ricordare, senza incertezze.
    Valutiamo di conseguenza la qualità di un atto evangelizzatore non solo sull’entusiasmo che ha suscitato ma anche sulla ortodossia e completezza, anche formale, di ciò che viene condiviso.
    Come sappiamo, si tratta sempre di una ortodossia che si fa prassi, giustifica e interpreta la prassi: l’esperienza di fede diventa esperienza etica e, in qualche modo, politica.
    Per questa convinzione do piena ragione a coloro che sono preoccupati che il modello suggerito faccia scadere queste esigenze.
    La questione per me è un’altra: come assicurare la soluzione delle difficoltà?
    Se ci fosse una via sicura, priva di ostacoli e di rischi, e un’altra in cui essi abbondano... sarebbe sciocco abbandonare la prima per imbarcarsi nella seconda.
    Qualcuno forse lo pensa. Ma non è così. I modelli oggettivistici, di cui qualcuno ha nostalgia, mettono in crisi la radice stessa del processo di evangelizzazione. Lo riducono ad un insegnamento e imprigionano i contenuti condivisi e la loro verifica ad uno dei tanti modelli formali di apprendimento. Salvano la forma, ma inquinano la sostanza. Non basta di certo sapere e saper ripetere bene, per aver incontrato. Nel cammino della comunità ecclesiale questa consapevolezza è stata sempre coraggiosamente presente e decisiva.
    Sono convinto che il controllo e il contrappeso, capace di limitare i rischi assicurando i vantaggi, sia decisamente un altro: il luogo dell’annuncio di Gesù e dell’esperienza che lo fa incontrare è sempre la comunità dei discepoli di Gesù, la Chiesa, ricca di differenti funzioni e presenze, in cui la verità e l’autenticità è servita dal ministero di quei fratelli a cui lo Spirito ha consegnato la responsabilità di guidare tutti nell’unità verso la verità. Nel grembo materno di questo evento di comunione e di sostegno, la differenza diventa davvero ricchezza e le sensibilità personali contributo prezioso verso una verità che sta sempre oltre quello che ho acquisito e sperimentato.
    L’esigenza riguarda contemporaneamente chi annuncia e chi accoglie.
    La proposta diventa credibile e interpellante sulla forza testimoniale del vissuto dei credenti.
    Questa consapevolezza mi permette di pronunciare parole e di proporre esigenze che vanno sempre molto oltre il personale vissuto. Se così non fosse, l’esigenza della testimonianza sarebbe una premessa al silenzio.
    L’incontro personale con Gesù e la decisione di proclamarlo il Signore della propria vita e della storia di tutti, non fa riferimento al «mio» Gesù, anche se ciascuno lo vive nel segreto sofferto della propria interiorità, ma a Gesù di Nazareth, che la fede della Chiesa proclama il Cristo e Signore.
    Questa doppia responsabilità – di chi annuncia e di chi accoglie – si verifica verso l’autenticità non perché si misura con una serie di parametri oggettivi e sicuri, che indicano lo scarto tra oggettività e soggettività, ma perché si sperimenta la gioia di vivere dentro una comunità che accoglie, propone, rafforza e sollecita.
    Davvero, la parola che dà speranza risuona, affascinante e sollecitante, nella Chiesa, attraverso lo Spirito.

    La rubrica NPG 2012

    «TI RACCONTO GESU'»

    Segnalo una specie di indice degli articoli che vorrei far seguire. Di essi questa introduzione dichiara il senso e il limite.

    I DISCEPOLI DI EMMAUS: UNA STORIA CHE È LA MIA STORIA
    La storia di quei due è la nostra storia raccontata in anticipo:
    • entusiasmo e crisi
    • incontro (dalla testa alla vita)
    • decisione e condivisione.
    Con quei due, nascosti sul bordo della strada che va da Gerusalemme a Emmaus, ci siamo anche noi.

    PIETRO, DAL TRADIMENTO AL CORAGGIO
    Ha raccontato la sua storia, fino a sollecitare a scriverla nei vangeli, per dare ragione della speranza che gli ha cambiato la vita:
    • la figuraccia del tradimento per paura;
    • con segni premonitori... di cui non si vergogna...
    • cosa l’ha cambiato? Uno sguardo che è un abbraccio... nella certezza che questo funziona sette volte sette.
    È davvero sciocco vergognarsi della propria debolezza. Viene dal desiderio assurdo di poter guardare anche Dio alla pari. La debolezza diventa invocazione ed esperienza della bontà di Dio.

    OGNI SCUSA È BUONA... MA LEVI METTE IN CRISI TUTTI
    Chi ha il coraggio di guardarsi d’attorno, di inviti ne scopre tanti. La vita in solidarietà è una grande vocazione. Ma di scuse ne abbiamo a non finire. Il nostro sì è sempre... condizionato.
    Siamo in buona compagnia. Mal comune non è però mezzo gaudio.
    Per fortuna c’è sempre qualcuno come Levi... che ci mette in crisi
    • D’accordo sulla risposta... ma con un poco di pazienza e con tanto buon senso (il saluto, la messa in ordine, il funerale...).
    • Un altro modo di fare: vengo io... e sono così contento di abbandonare tutto per stare con te, che organizzo un pranzo di festa.

    LA CONTEMPLAZIONE... PER TRANSITARE DALLA NOSTALGIA ALLA MISSIONE
    • Finalmente... sono tornati i bei tempi... ma finiscono presto (Ascensione).
    • La nostalgia è guardare in alto... con la speranza di conquistare ancora un frammento.
    • La missione è rimboccarsi le maniche e partire.
    • Ma c’è un passaggio obbligato (che non è cronologica... ma antologico): la contemplazione.

    GRAZIE, TOMMASO
    • La tua incertezza ci consola e ci aiuta.
    • Le radici della fede: toccare o affidarsi?

    IL RAGAZZO DEI 5 PANI
    • Le provviste per il viaggio: questione di buon senso o mancanza di affidamento?
    • Un modello di vita nello Spirito: organizzarsi... perché la competenza è irrinunciabile, ma condividere in una solidarietà che permette a tutti di stare nel sicuro.

    [1] Tonelli R., Ripensando quarant’anni di servizio alla Pastorale giovanile, in «Note di pastorale giovanile», 2009. 43 (3), 11-65. De Nicolò GC., Cuarenta años de servicio a la pastoral juvenil. Entrevista a Riccardo Tonelli, Editorial CCS, Madrid 2011.

    [2] Spesso questa esigenza viene indicata come «evangelizzazione». Si tratta di una espressione molto utilizzata. Per questo viene compresa con accezioni diverse, che vanno dal senso stretto, come annuncio esplicito del nome di Gesù, a quello più generale come processo che include la testimonianza, l’annuncio, la celebrazione della fede stessa, come ci ricorda anche Evangelii nuntiandi. In questo contesto la intendo in senso stretto.

    [3] La fedeltà all’evento non è assicurata quando lo poniamo davanti alle persone come se fosse qualcosa di stabile e preciso, da riscoprire e rilanciare senza nessuna mediazione culturale e storica. La tentazione resta... soprattutto in una stagione di crisi diffusa. Ma la considero una tentazione da controllare e superare.

    [4] Questa è la logica (fondamentalmente teologica) che vorrebbe orientare la proposta dei contributi che seguiranno (vedi nel box finale): un tentativo di proporre il volto di Gesù per noi oggi, mettendoci in compagnia dei suoi discepoli e ripensando, sulla loro esperienza, le gioie e le speranze della nostra esistenza quotidiana oggi.


    T e r z a
    p a g i n A


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