Metodo

Inserito in NPG annata 2001.

Riccardo Tonelli

(NPG 2001-09-39)



Ci sono parole che hanno il sapore della magia anche nell’ambito educativo e pastorale. Qualcuna l’ho già commentata in questa rubrica. «Metodo» è una di quelle… forse tra quelle dotate di maggior fascino, dal punto di vista positivo e da quello negativo.
Quando le cose non vanno troppo bene nell’ambito pastorale… l’eccessiva attenzione al metodo e alle questioni relative diventa il capro espiatorio di tutto. «Basta con questa storia del metodo», si dice. Qui ci vuole più fede e più speranza. Chi si fida dello Spirito di Gesù, ridimensiona senza eccessivi scrupoli ogni passione metodologica.
Qualcuno invece gioca nella squadra opposta.
«Manca un buon metodo», si dichiara. Bisognerebbe studiare di più e procedere maggiormente a suon di processi, progetti, organizzazione in obiettivi finali e intermedi…
È difficile dire chi ha ragione… probabilmente perché la ragione potrebbe stare di casa da qualche altra parte. Forse… perché si spara a zero o ci si affida ciecamente ad una realtà che resta terribilmente equivoca se non si occupa un poco di tempo a mettersi d’accordo sul suo significato.
Ed è propria questa la mia intenzione: precisare prima di tutto i termini, determinare poi l’ambito e cercare infine di vedere se un buon metodo relega lo Spirito di Gesù fuori gioco o, al contrario, lo chiama in causa in modo più avveduto.

Cosa è metodo

Metodo è quella particolare selezione e organizzazione delle risorse disponibili e delle operazioni praticabili, che serve a creare le condizioni favorevoli per far raggiungere gli obiettivi nelle diverse situazioni di partenza.
La definizione suggerita richiede una attenzione precisa, per cogliere, in modo serio e motivato, i diversi elementi in gioco. Dal loro insieme nasce la comprensione di metodo a cui faccio riferimento.

Un riferimento speciale all’obiettivo

La prima cosa che appare evidente dalla definizione di metodo è il suo riferimento all’obiettivo. La definizione ricorda che le risorse sono, infatti, selezionate e organizzate con l’unica preoccupazione di creare le condizioni favorevoli al raggiungimento dell’obiettivo. Ciò che è meno evidente e non sempre pacifico è il modo con cui le risorse selezionate entrano in rapporto con l’obiettivo.
La definizione proposta prende decisamente posizione: le risorse hanno la funzione di facilitare il raggiungimento dell’obiettivo nelle concrete situazioni in cui si opera. Servono a «facilitare» (e cioè a rendere facile e possibile) il raggiungimento dell’obiettivo. Non servono a farlo raggiungere, con le buone o con le cattive… ma solo per creare le condizioni che permettano ad una persona di orientarsi verso l’obiettivo e a raggiungerlo in concreto.
Se le risorse «costringono» a raggiungere l’obiettivo, non siamo di fronte ad un buon metodo. Più concretamente ancora: questo non è il metodo che propongo; preferisco utilizzare una espressione più adeguata: manipolazione. Quando invece le risorse mettono le persone in condizione di orientarsi verso l’obiettivo, siamo in presenza di un processo autentico di metodo.
Concretizzo la mia affermazione con un esempio. Lo scelgo provocatorio apposta, per costringere a prendere posizione, evitando le facili semplificazioni.
Mi sta a cuore assicurare la partecipazione dei giovani di una parrocchia alla Eucaristia. Questo è l’obiettivo. Mi interrogo su quali risorse posso mettere in processo per raggiungere questo obiettivo. Posso usare le maniere… forti: le minacce e i castighi per chi non partecipa, i premi seducenti per chi partecipa, un elenco di condizioni (se non vai alla Messa… niente possibilità di giocare poi nel campo dell’oratorio… o cose simili). Tutto questo, molto probabilmente, assicura ottengono il raggiungimento dell’obiettivo. Eppure affermo che non è stato utilizzato un buon metodo. Meglio ancora, non ho progettato nessun metodo ma ho solo studiato la forma manipolatoria più adatta in situazione.
Un buon metodo richiede invece la creazione di condizioni favorevoli, tali cioè da stimolare le persone a scegliere la partecipazione, in modo libero e consapevole. Queste condizioni sono varie: l’orario, il coinvolgimento, lo scambio di motivazioni, lo stile celebrativo, la capacità di presiedere e di comunicare, la comprensione progressiva dell’evento celebrato, al di là delle espressioni esterne. Tutto questo è un buon metodo.
Una caratteristica irrinunciabile del metodo è la sua «relatività»: le risorse sono scelte con una attenzione molto concreta e precisa alle situazioni dei soggetti.

La selezione e l’organizzazione delle risorse

Le «risorse» costituiscono il secondo elemento su cui pensare in ordine alla corretta comprensione del metodo.
Due attenzioni vanno sottolineate.
La prima riguarda il contenuto: cosa sono le risorse.
La seconda indica il processo: perché parlare di selezione e organizzazione delle risorse.

* Cosa sono le risorse
Risorse è una espressione vaga. La scelgo apposta per contenere in essa tutto ciò di cui possiamo disporre.
Ci sono due tipi di risorse: quelle esistenti e quelle programmabili. Sono risorse le persone concrete, le tradizioni educative, i beni educativi accumulati nello scorrere delle stagioni… Sono risorse quelle opportunità che non esistono ancora ma che possono essere attuate con un minimo di fantasia, di capacità progettuale, di invenzione.
Una caratteristica fondamentale delle risorse è la loro concretezza. Non sono risorse i «desideri», ma i dati di constatazione (presenti e futuri, come dicevo). Non posso considerare risorsa una battuta come questa «Se avessimo tutti vent’anni… cambieremmo il mondo». In fondo, il mondo lo dobbiamo cambiare con gli anni che ci ritroviamo addosso, progettando interventi e processi operativi realisticamente possibili.
Il metodo ci trascina a scelte, decisioni, progetti molto concreti: a far fuoco con la legna che abbiamo e con quella che riusciamo a procurarci. Non è facile ragione in questo modo, soprattutto quando veniamo da una tradizione educativa e pastorale che ha cercato di risolvere tutti i problemi, solo invocando l’aumento dell’indice di impegno e di buona volontà o spingendo le persone a fare progetti con l’attenzione rivolta solo al dover essere, ai grandi e inutili sogni, ad espressioni tanto solenni quanto inverificabili e difficilmente traducibili in linee concrete di azione, in tempi, agenti, ritmi, processi.
Le belle frasi ad effetto vanno davvero poco d’accordo con il quadro operativo delle risorse.

* Perché selezionare e organizzare le risorse
La seconda attenzione è evocata dalle due indicazioni presenti nella definizione di metodo: selezione e organizzazione.
A questi due interventi (di tipo operativo e non solo… contemplativo) ne va aggiunto un terzo: inventariare.
L’oggetto dell’inventario, selezione e organizzazione sono le risorse.
Un buon metodo richiede, prima di tutto l’inventario delle risorse disponibili, con quella prospettiva di realismo di cui ho appena detto.
Ogni comunità educativa e pastorale possiede un quantità insospettata di risorse. Si sono accumulate lungo gli anni perché, a differenza dei prodotti energetici, non si distruggono con l’uso ma si accatastano con il passare del tempo. Le dobbiamo conoscere e riconoscere. Per questo il metodo richiede, prima di tutto, l’inventario.
L’inventario è importante. Ma non è sufficiente. Sulle risorse si richiede una attenta opera di discernimento critico.
Questi «beni» educativi (persone, cose, tradizioni, strumenti, libri…) si portano dentro una loro logica precisa. È quasi la firma elettronica di chi li ha progettati e di chi li ha usati. Questa logica potrebbe corrispondere all’obiettivo che ci siamo dati o potrebbe essere parzialmente o totalmente contraria. Di qui la necessità di procedere con una corretta verifica e con una coraggiosa selezione.
Selezione vuol dire «dividere» le risorse, in base alle logiche (antropologiche e teologiche) che ciascuna si porta dentro, in risorse utilizzabili e risorse non utilizzabili. Le prime ci permettono il raggiungimento dell’obiettivo; le seconde lo ostacolerebbero. Le prime sono quelle disponibili; le seconde vanno coraggiosamente rimosse o depositate… nell’armadio dei libri proibiti.
Faccio un esempio.
Una comunità ecclesiale ha scelto di orientare tutti gli impegni verso il consolidamento della integrazione tra fede e vita. Un obiettivo del genere richiede uno stile speciale di confronto con Gesù e il suo messaggio. Lo dice molto bene quella specie di descrizione dell’integrazione fede e vita che abbiamo fatto girare in questi anni: integrazione tra la fede e la vita significa riorganizzazione della personalità attorno a Gesù Cristo e al suo messaggio, testimoniato nella comunità ecclesiale attuale, riorganizzazione realizzata in modo da considerare Gesù Cristo il «determinante» sul piano valutativo e pratico.
Questo modo di concepire l’obiettivo della pastorale si oppone ai modelli riduttivi e a quelli integristi. Sono integristi quei modelli che definiscono il rapporto fede-vita in termini concorrenziali, come se il contenuto della fede si sostituisse all’autonoma ricerca di valori e di significati o si ponesse come radicale alternativa nei confronti di quanto l’uomo elabora nella sua scienza e sapienza.
Sono invece riduttivi quei modelli che vanificano la funzione della fede, perché non le riconoscono il compito di risignificare e di giudicare in modo perentorio i valori che una persona fa propri e la loro organizzazione nella struttura di personalità.
Purtroppo molti degli strumenti pastorali che ci sono consegnati dalla tradizione, sono abbastanza integristi. In compenso, molti d’uso comune oggi sono davvero riduttivi.
Selezionare significa discernere, assumere e scartare.
La terza operazione è evocata dal verbo «organizzare». L’educazione e la pastorale sono un processo, con una sua sequenzialità logica e progressiva. Le risorse richiedono una intelligente organizzazione in tempi, modelli operativi, sequenze: la trascrizione, in altre parole, in un processo. Senza questa operazione, corriamo il rischio di procedere sull’onda del semplice entusiasmo, producendo più danni che vantaggi.

Programmare nuove risorse

Un buon metodo non si accontenta della gestione intelligente delle risorse disponibili. Ne programma di nuove.
Ho già fatto qualche cenno alla esigenza. La considero però così decisiva da dover riprendere il tema con una riflessione specifica.
Il metodo riconosce la necessità di inventare nuove risorse. Avanza però pretese anche sul modo in cui realizzare questa invenzione. La progettazione di nuove risorse viene realizzata all’insegna del «possibile». Il possibile rappresenta una posizione di equilibrio tra i due estremi che, spesso, si contendono la partita della programmazione: il realismo e l’utopismo.
Molti educatori sono diventati ormai terribilmente realisti. Ne hanno sperimentate tante e sofferte tante, da ritenersi gente che ha imparato a camminare con i piedi di piombo. Non sanno più sperare e osare. Sono preoccupati di consolidare, aggiustare, cambiare quel tanto che è necessario per non cambiare nulla.
Quando si mettono a fare progetti, guardano soprattutto al passato, a quello che si è sempre fatto, al rischio di tentare vie nuove. E così riaffermano quello che già sanno e su cui sono competenti all’eccesso. Al massimo, ogni tentativo di innovazione viene controllato con una dose abbondante di prudenza… quella virtù che da «recta ratio agendi» (per dirla con S. Tommaso) hanno fatto diventare la giustificazione del «nihil innovetur nisi quod traditum est».
L’altra sponda è occupata dagli utopisti: la gente che guarda al futuro come l’unica alternativa possibile al presente. Il futuro per essi ha perso ogni aggancio con il passato, come se non ci fosse proprio nulla da recuperare e da reinventare.
Il possibile è diverso. Rappresenta una sintesi equilibrata e prudente tra passato e futuro, centrata sul presente.
Inventare nuove risorse significa analisi coraggiosa del presente, ancoraggio sicuro sul passato e tentativo di esprimere qualcosa, concreto e operativo, dalla parte del futuro per possedere elementi capaci di trasformare il presente verso il sogno coltivato e condiviso.

L’ambito del metodo

Lo stretto legame esistente tra obiettivo e metodo invita ad una precisa scelta di campo. Essa investe le modalità con cui possiamo comprendere l’obiettivo e, di conseguenza, ricade poi sulla qualità del metodo e sulla sua funzione.
Siamo stati abituati a pensare all’obiettivo come a qualcosa che precede ogni presa d’atto della situazione, espressione di una fedeltà ad un progetto che ci viene da lontano. In questo modo di progettare, la situazione concreta in cui si opera, non ha peso sul progetto, non lo modifica in nulla. Le eventuali difficoltà pratiche sono superate attraverso adattamenti provvisori e parziali. Come reazione, in questi ultimi anni qualcuno ha tentato di capovolgere le posizioni. Alla situazione è stata affidata spesso una funzione decisiva, normativa anche rispetto al progetto.
Nel primo modello, quello che utilizza le procedure deduttive, al metodo si chiede solo come fare per raggiungere un obiettivo. La sua funzione è solo strumentale, dal momento che la definizione dell’obiettivo definito compete solo alle scienze normative. Anche nel secondo modello, a carattere induttivo, il metodo ha poca importanza, perché non c’è nessuna necessità di modificare la situazione di partenza. In fondo, il metodo ha solo la funzione di rassicurazione e di liberazione della creatività e responsabilità personale.
La meditazione dell’evento dell’Incarnazione, cui tante volte abbiamo fatto riferimento in questi anni, ha offerto un’alternativa in quel modello che abbiamo spesso chiamato «ermeneutico».
In questo modello cambia il modo di pensare all’obiettivo e, di conseguenza, cambia notevolmente la funzione del metodo.
La domanda sul «come» è preceduta e orientata da quella, molto più impegnativa, del «perché» e del «verso dove». La selezione e organizzazione delle risorse trova quindi elementi di verifica di grosso peso. Diventa particolarmente urgente l’invenzione di nuove risorse, per rispondere alle situazioni profondamente cambiate e ad un obiettivo che si va progressivamente riformulando, secondo una fedeltà che dal passato si spalanca verso il futuro.
In questo modo il metodo viene inserito in una specie di spirale a volute progressive. Utilizzato saggiamente, procura il raggiungimento degli obiettivi. L’operazione però non può dirsi conclusiva. Gli obiettivi raggiunti scatenano nuove ricerche. A quelli di prima ne sono sostituiti altri, a partire da un nuovo confronto tra le esigenze normative e i dati culturali, e così la selezione delle risorse ritrova nuovi impegnativi compiti sul piano dell’invenzione e dell’organizzazione.

E la grazia dello Spirito Santo?

Fare un progetto significa rimboccarsi coraggiosamente le maniche e cercare soluzioni corrette e pertinenti, lavorando di scienza, di amore e di fantasia. Qualche amico potrebbe obiettare: e la grazia dello Spirito Santo... dove va a finire? Sembra quasi che la pastorale sia un’impresa solamente umana, dove vince il più forte e il più preparato.
L’obiezione è vera e molto importante. Non possiamo mai dimenticare che l’azione pastorale si riferisce alla realizzazione di quella salvezza che è dono di Dio. Nella logica del Regno l’operatore pastorale sa perciò di essere sempre «soltanto servo» (Lc 17,10).
L’Incarnazione ci aiuta però a comprendere quanto sia indispensabile questo «servo» nell’atto pastorale. La salvezza è un dono che attraversa il dialogo misterioso tra l’amore interpellante di Dio e la libertà e responsabilità di ogni uomo. Nell’azione imprevedibile di Dio, questo dialogo si realizza all’interno di mediazioni umane: l’umanità di Gesù di Nazareth, il servizio pastorale della Chiesa, l’impegno di collaborazione di ogni uomo. Queste mediazioni non costituiscono il dialogo salvifico. Ma lo sostengono, lo attivano o, al contrario, lo possono soffocare. La qualificazione dell’operatore, la capacità di trasparenza della comunità ecclesiale, la corretta definizione di un progetto, rappresentano il povero contributo umano, «indispensabile» per rendere trasparente il dono.
Il frutto dell’azione pastorale non è assicurato dalla qualità del progetto. Eppure senza competenza e qualificazione, l’azione pastorale non riesce, abitualmente, a produrre i suoi frutti. Questa è la responsabilità della Chiesa nei confronti dell’attuazione storica del Regno di Dio.
Del resto, sappiamo per fede che l’umanità dell’uomo non è solo «strumento» della presenza salvifica di Dio. Essa è già presenza e contemporaneità di Dio ad ogni uomo. Per questo, l’impegno a qualificare la progettazione pastorale è prima di tutto riconoscimento di una presenza, misteriosa ma intimissima. La confessiamo proprio nella fatica quotidiana di esprimere un servizio pastorale sempre più attento, impegnativo, efficace.