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    Ritorno all'Occidente?



    Una conversazione di Gianni Vattimo

    a cura di Giancarlo De Nicolò

    (NPG 1992-09-36)

    Con la serie di straordinari avvenimenti del 1989 cui abbiamo assistito, e che hanno dissolto l'alternativa di sistema che stava ai nostri confini, il comunismo, è cresciuto e si è fatto sempre più vivo una sorta di trionfalismo dei valori della tradizione liberal-borghese, capitalistica, dell'Occidente, che impone perlomeno un ripensamento se non una limitazione.
    Riflettere su questo problema è degno di una riflessione filosofica?
    Occorre anzitutto precisare che cosa vuol dire porsi filosoficamente il problema del significato della rinascita dell'idea d'Occidente e dei suoi valori.
    Nel far questo mi sento in continuità con una tendenza diffusa nel pensiero del Novecento, che si presenta come una riflessione sull'attualità più che sull'eternità, sulla esistenza moderna e tardo-moderna (con i tratti che la caratterizzano: scienza, tecnologia, differenziazione della società, organizzazione capitalistica, mercato, stampa, mezzi di comunicazione...) più che sulle strutture ontologiche dell'essere.
    Questa tendenza trova la sua interpretazione e giustificazione rigorosa in un pensatore come Heidegger, che non ritiene più possibile pensare la filosofia come teoria dell'essere nel senso della struttura eterna di ciò che è (come pensavano i metafisici classici), ma nemmeno come teoria generale delle forme di conoscenza (come per Kant).
    Questa posizione non è una novità. Dopo Nietzsche, Marx, Freud e tanti altri pensatori, infatti, pensare di poter afferrare oggettivamente le strutture generali dell'essere sembra o un'ambizione eccessiva o un errore di prospettiva o una teorizzazione ideologica.
    Dalla prospettiva della «critica dell'ideologia» infatti il pensiero ereditato dalla tradizione ci è apparso sempre più, con un certo distanziamento temporale e storico, come l'assolutizzazione dei punti di vista particolari che si narrano come naturali, universali, eterni. E dalla prospettiva della storiografia e dell'antropologia culturale, proprio nell'incontro con gli altri mondi culturali, diventa meno sostenibile l'idea che proprio gli Occidentali abbiano afferrato l'essenza o che la razionalità sia descrivibile universalmente, una volta per tutte. Mentre invece le forme della razionalità sono tante, e le culture sono tutte delle strutturazioni significanti, i cui contenuti effettivi variano di molto.
    Ma allora ha ancora significato parlare dell'essere? A questo punto sarebbe possibile soltanto fare delle teorie della cultura, parlare da cronisti di quello che accade e cercare di capire che cosa potrebbe succedere in futuro?
    Si può invece ancora tematizzare questi problemi dal punto di vista del significato dell'essere, perché la caduta della possibilità di una metafisica del tipo tradizionale o del tipo critico kantiano, non ha eliminato l'esigenza di sapere che cosa ne è dell'essere, cioè che cosa ne è della realtà in generale.
    Ma arretra sempre più il confine di ciò che sembra universalmente umano, e diventa più possibile in filosofia pensare al senso dell'essere come un senso che si qualifica sempre di volta in volta storicamente.

    L'esistenza tardo-moderna

    L'esistenza moderna è caratterizzata dalla specializzazione sempre più intensa: essa si è «sviluppata», articolandosi in molteplici situazioni, ruoli, zone. Anche la frase che diciamo: «gli affari sono affari», è una tipica espressione della modernità, cioè un'espressione dell'isolamento di settori, di sfere di valori, di zone dell'esistenza che si autonomizzano.
    Il che finisce per diventare non solo un problema psicologico, ma di integrità di vita. L'appello heideggeriano a non dimenticare il significato dell'essere finisce col non avere altro senso che richiamare alla necessità di mantenere - proprio in questa tarda modernità, quando esplode la tendenza a produrre sfere di esistenza separate - una sorta di continuità dell'esperienza.
    Perché la discontinuità della nostra esperienza, tra ruoli che non si riesce a conciliare tra di loro, tra eventi entro i quali non si riesce a costituire un passaggio ragionevole, è davvero il «disagio della civiltà». Nel domandarci che cosa stia succedendo all'idea di Occidente, in fondo ci domandiamo che cosa ne è della nostra esistenza: è dunque semplicemente il problema del senso della realtà, dell'esistere del quotidiano, in un tempo di frammentazione.

    IL PERCHÈ DI UN RITORNO

    Dunque ritorno all'Occidente. Questo significa che ce n'eravamo andati? La risposta non può essere che affermativa.
    La cultura degli anni Cinquanta e Sessanta era una cultura permeata di rimorso e di vergogna di essere occidentali. Era una cultura in prevalenza egemonizzata dal pensiero di sinistra. Questo non significa che tutti erano marxisti, ma che tutti, anche i non marxisti, si misuravano principalmente con quel mondo di pensiero. Un esempio illuminante è «La critica della ragione dialettica» di Sartre, pubblicata nel '63, dove egli pone un'affermazione molto espressiva, un bellissimo simbolo di quel periodo: il marxismo è la vera teoria e l'esistenzialismo è l'ideologia che lui non può fare a meno di professare, in quanto è ancora un intellettuale borghese; ma se solo si potesse modificare questa situazione storico-concreta, lui non potrebbe fare a meno di scoprire il marxismo come verità.

    Il «rimorso dell'Occidente»

    Ma quali erano le motivazioni del rimorso dell'Occidente e insieme dell'egemonia del marxismo?
    L'egemonia del marxismo aveva sue ragioni specifiche e sistematiche, legate alla struttura della teoria: una teoria di intellettuali perfettamente soddisfacente per gli intellettuali stessi (cosa che sembra paradossale perché il partito comunista è un partito dei lavoratori), e che dava loro una collocazione.
    Ma vi erano anche ben più specifiche motivazioni della vergogna occidentale e molto più cronologicamente situate.
    Una era la persistenza di problematiche dell'imperialismo e del colonialismo. È da accennare solo all'importanza che ha avuto per gli intellettuali di allora la guerra d'Algeria e, subito dopo, in parte sovrapponendosi, il Vietnam. L'occidentale si vergognava di appartenere ad una civiltà che, nutrita delle ideologie ottocentesche, continuava nell'applicazione di questa ideologia sul piano del dominio del resto del mondo. Le altre culture magari volevano prendere parola, ma praticamente trovavano nell'Occidente una forza politica organizzata come ostacolo a ciò.
    L'altro elemento della vergogna dell'occidente in quegli anni erano le propaggini ultime della Kulturkritik del primo Novecento: cioè della diffidenza dell'intellighentia umanistica (e degli artisti, per esempio delle avanguardie storiche come l'espressionismo) verso la modernizzazione. Essa esprime la paura, il confronto con il sistema del meccanismo sociale (della società diventata meccanismo) rispetto a cui i valori dello spirito sembrano perduti (in questo clima Spengler scrve «Il tramonto dell'occidente», e Bloch «Lo spirito dell'utopia»).
    Questa critica della civiltà che nutriva il pensiero del primo Novecento si era trasmessa profondamente al pensiero degli anni Cinquanta-Sessanta, soprattutto attraverso la filosofia critica francofortese, in particolare la riflessione di Adorno.
    L'occidente era il luogo tipicamente permeato di questa civiltà tecnico-razionale, scientifica, di una società tendenzialmente burocratizzata... qualcosa insomma da cui prendere le distanze.
    Come è successo che questa vergogna dell'Occidente si consumasse? Quello che è accaduto nel 1989 è stata una novità solo dal punto di vista politico; ma dal punto di vista culturale era stato preparato almeno da un decennio di «recupero», dal cambiamento di atteggiamento degli intellettuali nei confronti dell'Occidente.
    Da molti anni, a partire dagli anni Sessanta, un autore come Habermas dialogava positivamente con molti pensatori anglosassoni che solo pochi anni prima Marcuse aveva considerato come pensatori ad una dimensione, apologi della società capitalistica. E questo è solo un esempio.
    Alcuni precisi elementi caratterizzano questa trasformazione.
    Intanto alla fine degli anni Sessanta si consumano via via le mitologie marxiste del socialismo reale che ci avevano illuminato, guidato, affascinato (secondo alcuni anche turlupinato): i russi nel '68 invadono la Cecoslovacchia e stroncano la primavera di Praga; poi comincia a consumarsi il mito cinese, quello di Castro. Viene così meno quell'appello, quella forte attrattiva del sistema marxista.
    Il consumo della mitologia marxista avviene - sul piano teorico - anche attraverso una certa radicalizzazione dei motivi dell'estremismo: il '68, che era stato un trionfo della contestazione di sinistra, segna paradossalmente l'inizio della fine, perché si erano introdotti nella tematica di sinistra autori e temi che avrebbero-finito per dissolverla, come il problema del soggetto, le esigenze dell'eros...
    Influiscono anche altri fatti: finiscono le guerre coloniali, non c'è più il Vietnam, non c'è più l'Algeria, le culture «altre» prendono tematicamente la parola, sorge prepotentemente alla ribalta il mondo islamico...
    Ho accennato a un punto qualificante del rimorso dell'Occidente: la critica della civiltà, la diffidenza per la modernità e la tecnologia.
    Esso si dissolve con la trasformazione della tecnologia: da tecnologia meccanica a tecnologia dell'informazione.
    Le ragioni per cui Adorno diffidava tanto dei mass-media, sono ampiamente legate al fatto che egli li immaginava sul modello del motore. Il grande fratello è quello che parla dalla centrale radiofonica, e tutti gli altri ricevono gli ordini e li mettono in pratica: sono insomma puramente passivi, come un motore che mette in moto delle rotelle. Si tratta sempre di schiavizzazione della periferia a favore del centro.
    Ma negli anni '70-80 esplode il fenomeno dell'informazione massificata: si mostra cioè che la comunicazione non si lascia più pensare solo come emissione dal centro alla periferia, ma anche come suscitamento e presa di parola di una quantità di culture marginali che, per la stessa logica commerciale della comunicazione, vengono evocate a parlare.
    La logica dei mezzi di comunicazione massificati, commercializzati, è tale che ha bisogno fisiologicamente di dare la parola anche alle cose più remote e sperdute, ai dialetti «più dialetti». Ciò produce un feedback inarrestabile, nel mondo della cultura, che rende impossibile pensarlo sul modello del motore e dunque su quel modello apocalittico sul quale lo aveva pensato la critica antimodernista della filosofia primonovecentesca.
    Questi fatti non solo rendono possibile la riscoperta dell'Occidente, ma la riqualificano, perché pone un problema di reidentificazione dell'Occidente stesso.

    Nel tramonto dell'essere un richiamo alla pacatezza

    L'Occidente ritrovato con queste premesse non è più permeato di quelle forme imperialistiche, trionfalistiche, provvidenzialiste, a cui eravamo soliti, ma assume dei significati profondamente trasformati. Esso diventa un partner di un dialogo mondiale, più vasto, di cui è soltanto uno degli interlocutori. Non si può più figurare con aspetti di mentalità che comportano ancora l'idea di essere «la» civiltà, rispetto ad altre che sarebbero sempre in una situazione di deviazione, di primitività. E inoltre, profondamente qualificato e segnato dal fenomeno delle comunicazioni, è un Occidente la cui identità consiste nella permanente disidentificazione, in una sorta di sospensione delle identità forti in una Babele di dialetti che sanno di non essere mai l'unica lingua dell'Occidente. Il suo messaggio specifico e la sua caratteristica è paradossalmente quella di essere una terra del tramonto: cioè la terra del tramonto delle strutture del pensiero forti, definitive e assolute.
    È questo un carattere puramente negativo dell'Occidente? Non lo credo affatto, perché la complessità comunicativa entro cui si trova lo costringe, per cosí dire, a una maggior ragionevolezza e trasparenza, che è in fondo la sua essenza, la sua vocazione più profonda. Vocazione che mi sembra essere quella di inventare dei mezzi di reazio ne conformi alla sua essenza più debole, più molteplice, più pluralista, più «naturalmente» incapace di violenza.
    E questa è un'idea di Occidente davvero fedele alla sua autentica tradizione, persino piú mordente e critica di quella che molti occidentalisti si sono fatta. L'Occidente non è quello che non ha mai dubitato di sé e che addirittura si tratterebbe di ritrovare esattamente come era, anche con tutte le connotazioni eventualmente bellicisti- che o comunque violente di una certa tradizione, ma è un occidente trasformato che può diventare un principio di critica.
    Quest'idea di Occidente risponde alle premesse filosofiche di cui dicevo all'inizio, all'interno di quel pensiero ormai noto come «pensiero debole», che ha come caratteristica principale l'idea dell'indebolimento dell'essere, e che risponde a uno sforzo di capire le possibilità positive, emancipative, di molteplici elementi della modernità che in genere sono stati demonizzati, in favore soprattutto al mito dell'«autentico».
    Il «senso dell'Occidente» è dunque il senso di incivilimento attraverso la riduzione delle pretese, dell'aggressività, attraverso la dissoluzione delle strutture ontologiche forti.
    Questo ovviamente comporta una serie di svantaggi, che possono essere sentiti un intralcio a una vita sanguigna, giovanile, piena, come Spengler pensava dovesse essere una civiltà nel suo fulgore e nella sua vitalità.
    Ma forse il non poter più vivere in quei termini potrebbe non essere una grave perdita. Il fatto di dover andare in tribunale, invece di farsi vendetta da sé, è certo una diminuzione di vitalità, ma chi vorrebbe tornare ad una civiltà più primitiva solo perché sembra più vitale, più autentica, ma è in realtà soltanto più sanguigna?

    (La conversazione - tenuta a Roma nel 1991 nell'ambito dei Martedí Letterari a cura dell'Associazione Culturale Italiana - non è stata rivista dall'autore.)


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