L’educazione dei giovani alla fede e le sfide della cultura moderna


Giuseppe Savagnone

(NPG 1992-04-56)


L'ipotesi che guida queste riflessioni è che, dietro ciò che oggi si chiama «società complessa», «era post-industriale», «età postmoderna», sta una cultura radicalmente nuova, con cui bisogna che la pastorale faccia i conti. Molte volte, in passato, la Chiesa si è rivolta a un tipo di uomo che ormai non esisteva più nella realtà. Molte volte ha condannato, esortato, edificato, supponendo una cultura ormai tramontata. È il rischio che si corre ancora oggi, un rischio che può smorzare la vitalità e l'efficacia del messaggio.
La separazione tra fede e cultura, che secondo Paolo VI è «il dramma della nostra epoca» (EN 20), non viene dunque vissuta soltanto dalla parte del «mondo», ma anche da quella dei credenti e dei loro pastori. La cultura ha perduto la dimensione della fede, ma la fede dà a volte l'impressione di aver perduto la dimensione della cultura.
Se tale ipotesi è valida, o almeno verosimile, il nostro primo compito è di evitare che questo accada anche oggi. E l'unico modo di evitarlo è di farci attenti alla presente svolta culturale, mettendoci in un atteggiamento di umile ascolto, rinunciando ai nostri schemi forse ormai un po' logori e cercando di comprendere cosa realmente sta accadendo.
In questo sforzo non sarà sufficiente una rilevazione di tipo sociologico. Sul problema del rapporto tra i giovani e la fede ce ne sono già di ottime, come quelle raccolte nel volume a cura di G. Milanesi e, per la Sicilia, quella di M. Emma e, più recentemente, di G. Urso.[1]
È necessario però che, a partire dai dati offerti da queste inchieste, si cerchi di penetrare nel cuore di un clima culturale le cui sfumature nessuno strumento della ricerca sociologica potrebbe, per la sua stessa natura, mettere in rilievo.
Nel far questo, potremo dare a qualcuno la sensazione di risalire troppo a monte, di perderci in disquisizioni che sembrerebbero riguardare la filosofia, piuttosto che la pastorale.
Pure, bisogna affrontare questo rischio se si vuole andare al fondo dei problemi. La tentazione di tanti, che pure si impegnano con sacrificio e generosità nell'attività pastorale, è di badare troppo alle tecniche e ai risultati pratici, tralasciando quei lavori di scavo, alla ricerca delle radici più profonde, che sembra a prima vista sterile, perché non produce frutti immediati.
In questo modo, però, ci si preclude una progettazione di più ampio respiro, che richiederebbe questo sguardo lungimirante, e ci si condanna a un piccolo cabotaggio che alla lunga si rivela deludente.
La svolta culturale di cui parlavamo non riguarda, peraltro, soltanto i giovani. Il nuovo clima coinvolge radicalmente il modo di pensare, di sentire, di comportarsi, dell'intera società. In questo orizzonte unificante, mentre da un lato assistiamo a un'estrema frammentazione delle situazioni sociali e culturali, dobbiamo però dall'altro constatare che, forse proprio per questo, sono venute meno, o si sono almeno fortemente attenuate, le classiche suddivisioni per fasce di età.
È stato osservato, a proposito della condizione giovanile, che oggi «si nota una progressiva dissolvenza della medesima, nel senso di una crescente impossibilità di cogliere le intrinseche dinamicità intese come realtà specifiche, caratteristiche rispetto a una residuale società adulta: concretamente i caratteri tipici della condizione giovanile si sono diffusi nella più ampia condizione umana, intesa in senso antropologico, nella società post-industriale (...) Siamo di fronte a una crescente integrazione tra le fasce strettamente giovanili e gruppi di giovani adulti».[2]
In questo sforzo di lettura non si può pretendere di dire tutto in una volta.
Qui, come il titolo anticipa, sarà privilegiato l'aspetto problematico, con tutti i risvolti di negatività o almeno di ambiguità che esso implica.
Una prospettiva volutamente e dichiaratamente unilaterale, che richiederebbe certamente una lettura complementare, volta a illuminare piuttosto gli aspetti positivi e le speranze presenti nell'attuale situazione culturale dei giovani.
Pur con la limitazione che un simile taglio comporta, il compito di tracciare una mappa esauriente della cultura del mondo giovanile rimane, del resto, largamente al di sopra delle possibilità di un articolo.
Il nostro sarà dunque un andare a tentoni, lo sforzo di esplorare un continente affascinante, ma per molti versi misterioso, nel tentativo di decifrare almeno qualcuno dei suoi aspetti.
A questo scopo abbiamo cercato di enuncleare, senza pretesa di completezza, alcuni punti, che riteniamo di poter raccogliere sotto quattro titoli che ci sono sembrati significativi:
- la «leggerezza dell'essere» riguardante il problema del nuovo rapporto dei giovani con la realtà;
- «la realtà inventata» sotto cui tratteremo del loro modo di atteggiarsi di fronte alla questione della verità e della razionalità;
- l'individualismo senza soggetto, dedicato alla tacita concezione della persona e delle sue relazioni sociali;
- il tempo senza passato e senza futuro, che riguarderà il problema del rapporto tra i giovani e la dimensione storica della vita.

LA «LEGGEREZZA DELL'ESSERE»

«L'insostenibile leggerezza dell'essere» è il titolo di un romanzo che ha avuto grande successo, e non solo in Italia, in questi ultimi anni. E non per caso.
Perché in esso si trovano presenti alcuni temi che riguardano da vicino la sensibilità dell'uomo contemporaneo, dei giovani in particolare.
Che l'essere sia «leggero» può sembrare un'affermazione alquanto strana.
Non lo è più se ci si rende conto che l'essere di cui si parla è la concreta realtà che ci circonda e quella che noi stessi siamo, quella dei nostri atti, dei nostri sentimenti, dei nostri pensieri. Di tutto ciò i protagonisti del romanzo di Kundera avvertono la precarietà, la casualità, l'inconsistenza.
Nella visione tradizionale, la realtà era considerata, abitualmente, qualcosa di rigido, retto da leggi fisiche e morali assolute e necessarie, e per ciò stesso vincolanti per il soggetto.
Ora, invece, le cose, le situazioni, le azioni, rivelano tutta la loro «leggerezza». Non vi è nulla di stabile, di solido. C'è solo il flusso incessante dei fenomeni, delle esperienze che durano un attimo e si inabissano immediatamente nel nulla.
Questo divenire, dice l'Autore all'inizio dell'opera, rende effimere le circostanze e le scelte della vita. Solo un ipotetico «eterno ritorno» potrebbe sostituire - ma lo potrebbe poi veramente? - lo spessore ontologico perduto con lo svanire dell'essere.
Ma poiché questo eterno ritorno non c'è, diventa logico concludere che «einmal ist keinmal (...) Quello che avviene soltanto una volta è come se non fosse mal avvenuto»:[3] gli atti dei personaggi, per quanto essi si sforzino di renderli «pesanti», scorrono senza incidere veramente sulla realtà, come se la loro irripetibilità li condannasse a una specie di inesistenza.
Riecheggia qui la posizione nichilista di Nietzsche, ripresa oggi senza falsi pudori da autori italiani contemporanei,[4] che se ne sono fatti apertamente sostenitori. È la tesi che «Dio è morto», intendendo per Dio non soltanto il Dio cristiano, e neppure quello dei filosofi, ma, più radicalmente, ogni forma di essere e di valore che pretende stare da sé, emergendo dal fiume caotico del divenire.
Nulla ha realtà e valore assoluto. Perciò si può ben dire, con Nietzsche, che «il mondo vero è diventato favola», che la pretesa realtà profonda e immutabile coincide, in effetti, con l'inconsistente fantasmagoria dei fenomeni.
Un essere così concepito è dunque leggero nel senso che non ha alcuna profondità o spessore. È tutto alla superficie di se stesso. Affermare che si riduce ad apparenza sarebbe inesatto, perché ciò implicherebbe che vi sia qualcosa che l'apparenza nasconde e che andrebbe scoperto. Qui si esclude invece, precisamente, un tale dualismo.
Perciò sarebbe più corretto dire che l'essere, in questa prospettiva, diventa spettacolo.
L'idea dello spettacolo richiama qualcosa che, pur essendo parvenza, non ha tuttavia, dietro di sé, una realtà da manifestare. Il puro spettacolo è fine a se stesso, è un gioco verso cui non ha alcuna responsabilità né colui che lo rappresenta, perché è inteso che la sua è solo una finzione, né colui che vi assiste, perché egli è lì appunto per lasciarsi prendere da questa finzione, ma sempre nei limiti di chi non vi crede fino in fondo e ne rimane perciò semplice spettatore.
È la logica dei mass-media, specialmente della televisione, che sostituisce al dialogo impegnativo con la realtà e con le persone il fugace scorrere delle immagini, che consente di assistere a tutto senza impegnarsi in niente, neppure nella scelta di un unico programma.
Nella stessa logica, si alimenta nella gente l'illusione che solo diventando per qualche minuto protagonisti di questo o quello spettacolo si possa essere veramente qualcuno, quasi che la vita e perfino la morte debbano il loro peso e il loro significato a questo effimero apparire.
Così è, del resto, nella nostra società consumistica, dove il valore dei prodotti viene a coincidere con l'immagine di essi che la pubblicità riesce a dare; dove le cose perdono la loro identità nell'assoluta fungibilità della produzione in serie e gli oggetti vengono continuamente acquistati, usati e poi gettati via, in una corsa che rende perfettamente l'immagine del divenire senza spessore di cui si parlava prima.[5]

«LA REALTÀ INVENTATA»

In un passato, anche recente, il rischio tipico del giovane era di lasciarsi sedurre da questa o quella idea, aderendovi con uno slancio non sufficientemente critico.
È accaduto negli anni roventi del dopoguerra, quando il rapporto tra gio vani comunisti e giovani di Azione cattolica riproduceva quello immortalato da Guareschi nel duello fra don Camillo e Peppone.
Si credeva in una verità che veniva ritenuta assoluta e la si sosteneva senza lasciare spazio alla minima sfumatura.
Si vedeva ogni cosa con gli occhiali della propria parte religiosa o politica, con una punta (e talvolta anche più che una punta) di bigottismo.
Nel Sessantotto la tendenza ad assolutizzare una verità contrapponendola alle altre fu solo rafforzata.
Il conflitto delle ideologie raggiunse in quel momento il suo punto culminante, e la forza delle ideologie era la cieca fede che esse suscitavano in un certo numero di persone. Una fede spinta talora fino al fanatismo e alla lotta armata.
Tutto lo sviluppo culturale di questi ultimi dieci anni va in una direzione che contraddice radicalmente questa situazione. Non si tratta solo del declino delle ideologie e dello scetticismo che ha investito le idee filosofiche che stavano dietro di esse. La crisi del concetto di verità assoluta ha colpito perfino quella che un tempo non lontano era la roccaforte della ragione, vale a dire la scienza.
Era nel suo nome che ci si opponeva alla fede, esaltando una verità a misura d'uomo, controllabile, indiscutibile, come si riteneva fosse quella scientifica, rispetto a quella indimostrabile, soggettiva, della religione.
Ebbene, oggi le cose sono molto cambiate.
I vecchi filosofi della scienza materialisti e meccanicisti si trovano inaspettatamente accomunati ai credenti nell'accusa di dogmatismo di cui entrambi sono oggetto da parte dei rappresentanti delle nuove concezioni. Perché essi lottavano fra di loro in nome della verità, mentre è proprio di quest'ultima che oggi si ritiene impossibile parlare, se almeno per verità si intende la conoscenza di come stanno le cose della realtà.
I procedimenti della scienza - si dice ormai - non approdano a un oggetto già in sé preesistente e che si tratterebbe soltanto di scoprire, ma contribuiscono in modo determinante a costituirlo.
Perciò uno storico della scienza come Thomas Kuhn ha potuto sostenere che «non v'è nessun modo (...) di ricostruire espressioni come 'esservi realmente'» e che è ingannevole l'antica idea che la verità della scienza si basi sull'accordo tra «una teoria e la sua 'reale' controparte nella natura».[6]
Le teorie scientifiche sono solo costruzioni fondate ciascuna su un suo «paradigma», al cui interno vige una precisa logica, ma che non è commensurabile con gli altri paradigmi. In altri termini, non si può dire che una visione cosmologica sia più vera di un'altra, per il semplice motivo che si fonda su presupposti diversi, che non è possibile confrontare con quelli di altre visioni alternative.
Contemporaneamente è entrato in crisi il modello tradizionale di razionalità scientifica. Tutta la scienza moderna si era costruita sulla base di un rigore metodologico che consentiva di distinguere tra ciò che era 'scientifico' e ciò che non lo era.
Ormai questa base è radicalmente messa in discussione. Un ormai celebre filosofo della scienza, Paul Feyerabend, in un libro che, significativamente, si intitola «Contro il metodo», sostiene che «la scienza è un'impresa essenzialmente anarchica» e che in essa «l'unico principio che non inibisce il progresso è: qualsiasi cosa può andar bene».
«Senza una frequente rinuncia alla ragione - afferma Feyerabend - non c'è progresso».[7]
Il riscontro di queste posizioni nel mondo giovanile è la rinuncia al concetto di verità come punto di riferimento universale è assoluto.[8] Il giovane si chiude in un suo mondo particolare, fatto dei suoi problemi, delle sue aspirazioni dei suoi miti, e lo identifica puramente e semplicemente con la realtà.
Sarebbe eccessivo qualificare questo atteggiamento con nome di irrazionalismo o di scetticismo. Queste posizioni forti implicano una radicalità da cui i giovani ormai, dopo le delusioni del passato, preferiscono tenersi prudentemente lontani.
È più corretto dire che, in una cultura che privilegia il pensiero debole, alla razionalità essi preferiscono la ragionevolezza, vale a dire un uso della ragione essenzialmente pratico, senza la pretesa di trovare princìpi assoluti su cui fondare una concezione globale dell'esistenza.
In questo modo non vi è mai nulla di definitivo: la vita resta aperta a esperienza sempre nuove e la ragione ha il compito di ridefinire incessantemente i confini di questa nebulosa in perpetua espansione, rinunciando a cercarne il senso ultimo.
E poiché le esperienze sono fortemente soggettive, ciascuno è chiamato a elaborare la propria interpretazione, traendo dagli eventi quei significati, sempre parziali e provvisori, che si accordano meglio con le sue esigenze.
Da qui anche un'estrema tolleranza, che spesso diviene indifferenza, nei confronti delle convinzioni altrui. Ognuno ha il diritto di pensarla come meglio crede. Solo criterio può essere, per le scelte del singolo, la sua coscienza. Una coscienza che, a sua volta, non essendo più guidata dalla razionalità forte e dallo sforzo di oggettività e di universalità che è connaturato a quest'ultima, è certamente più esposta ad essere determinata dal gioco dei sentimenti e delle pulsioni. È quella che si è chiamato la «soggettivizzazione dell'etica».
La stessa fede rischia di perdere il senso di un'adesione alla verità oggettiva, per diventare, piuttosto, un'esperienza soggettiva.
La posizione del credente viene personalizzata fino al punto di essere avvertita come valida per lui soltanto, nel tacito o esplicito presupposto che essa non verte su una realtà comune a tutti.
Si comprende che, a questo punto, sia il singolo a determinare l'area di questa adesione. Il giovane, in particolare, tende a costruirsi un proprio cristianesimo. I ragazzi e le ragazze intervistati rispondono nella stragrande maggioranza di credere in Dio, in Gesù Cristo. Tuttavia, è un fatto che sta sotto i nostri occhi la lontananza del mondo giovanile da una visione cristiana delle cose. La spiegazione di questo apparente paradosso sta forse nel fatto che la fede di molti è filtrata attraverso una selezione che assume l'uno o l'altro aspetto della dottrina cattolica, ma respinge gli altri, sulla base di una scelta prevalentemente emotiva.
Si ammira Gesù, si crede in lui, ma si rifiuta la Chiesa. Ci si accosta molto più frequentemente all'eucaristia, ma non si ammette di doversi confessare. Si accetta l'interpretazione cristiana della persona, ma se ne respingono le implicazioni nel campo dell'etica sessuale.
Siamo davanti, peraltro, ad un fenomeno più generale, che non riguarda solo i credenti come tali. Fino a venti anni fa alcune grandi agenzie educative - la famiglia, la Chiesa, il partito - erano le fonti indiscusse della verità. Si trattava di scegliere tra l'una e l'altra. Ma non si discuteva la necessità di aderire per così dire in blocco a una di esse.
Oggi le cose sono molto cambiate. Gli ultimi vent'anni hanno visto il mondo comunista e quello cattolico - un tempo rigidi sostenitori delle rispettive ortodossie - porsi su posizioni sempre più fluide, articolate, elastiche. Anche i giovani che appartengono all'una o all'altra di queste aree culturali accettano ormai questo o quel punto della dottrina che professano, ma ci tengono a prendere le distanze da altri.
Nel caso del marxismo la tensione fra le diverse letture e le loro difficoltà di adeguazione alla mutata realtà storica ha avuto il suo esito estremo, come è noto, nella crisi radicale di questa posizione di pensiero.
In forma meno catastrofica, ma pur sempre problematica, la Chiesa cattolica ha vissuto l'esperienza del pluralismo. In quanto la mediazione tra fede e vita concreta non è più affidata ad organi autorevoli e universalmente operanti - il magistero - ma al singolo credente, esiste una pluralità di letture del Vangelo.
Questo implica certamente la possibilità di un'adesione più consapevole e personalizzata che non nel passato; ma anche il rischio di un cristianesimo a propria immagine e somiglianza, privo di quella validità universale che viene garantita da una fede comune.
Anche la difficoltà ad accettare la Chiesa, di cui ci parlano eloquentemente i risultati delle indagini citate, può probabilmente ricollegarsi a questo atteggiamento. La fede viene sentita come qualcosa che, alla pari di un qualsiasi stato d'animo, non ammette una regola esterna, come pretenderebbe di essere quella del magistero.
E in effetti la Chiesa dovrebbe essere il luogo della comunicazione e del reciproco confronto. Il banco di prova comunitario, dunque, su cui dovrebbero modellarsi le diverse esperienze di fede individuali. Nella misura in cui manca proprio un simile confronto, anche le risposte largamente positive riguardo ad altri punti acquistano un carattere lievemente sospetto. Diventa così più comprensibile come sia possibile che, in una società dove più dell'80% dei giovani afferma di credere fermamente che Gesù sia il Salvatore, il processo di secolarizzazione sia dilagante.
Questo atteggiamento soggettivistico spiega la tendenza di molti, che pure sono sinceramente credenti, a non impegnarsi adeguatamente per tradurre la loro fede sul terreno culturale, politico, sociale. Dentro di sé essi continuano a vivere due dimensioni che restano incomunicabili: quella della loro religiosità, che si esprime in momenti anche intensi di preghiera, o di impegno caritativo, e quella della loro mentalità, delle loro idee in campo filosofico, etico, politico.
Identificandosi con una esperienza puramente individuale, la fede si risolve in uno slancio prevalentemente emotivo e non ha alcun contatto con la cultura, che è invece la dimensione dell'apertura e della comunicazione universalmente umana.
La scissione denunciata con tanta forza dagli ultimi Pontefici non passa soltanto fra il mondo cattolico e quello laico, ma nel cuore stesso dei credenti. E quando si tratta di prendere posizione pubblica su fondamentali problemi di ordine socio-politico (come furono ad esempio quelli della introduzione del divorzio e della legalizzazione dell'aborto), molti giovani hanno ritegno a far valere le loro convinzioni, come se la posta in gioco fosse non la effettiva verità dell'uomo, ma una inclinazione soggettiva, vincolante solo per chi la sente.[9]

L'INDIVIDUALISMO SENZA SOGGETTO

La tendenza di molti giovani a costruirsi ciascuno una propria visione particolare del mondo, prescindendo dall'oggettiva realtà delle cose, ha un riscontro, sul piano pratico, nel loro individualismo.
Vent'anni fa essi volevano distruggere il sistema per sostituire ad esso una società nuova, dove gli uomini potessero vivere meglio. Era un programma che coinvolgeva il destino della comunità civile nella sua globalità. Non si credeva di potersi salvare da soli.
Oggi i programmi di un giovane hanno una portata molto più concreta, ma anche più ristretta. Riguardano i suoi studi, il suo lavoro, la sua vita affettiva. La politica interessa pochissimo, in ogni caso non è certamente in primo piano. Se egli scende in piazza è per obiettivi che riguardano immediatamente la sua sopravvivenza individuale: la difesa della pace, la lotta contro il nucleare, la tutela dell'ambiente.
Si tratta di una nuova mentalità che ha profonde radici nella trasformazione sociale verificatasi in questi ultimi anni nel nostro Paese. Le grandi istituzioni che nel dopoguerra avevano costituito il punto di riferimento obbligato per la crescita intellettuale e morale dei giovani - famiglia, scuola, partito, sindacato, la stessa Chiesa cattolica - hanno cessato di essere un ambiente onnicomprensivo al cui interno esaurire la propria crescita.
Oggi un ragazzo si trova a vivere contemporaneamente in ambiti molto diversi e talora in contraddizione tra di loro ed è chiamato a mediare personalmente le diverse e opposte influenze nel proprio stile di vita. Egli non appartiene più a nessun gruppo, a nessuno schieramento, anzi diffida di chiunque dia l'impressione di volerlo in qualche modo accaparrare. In luogo della logica dell'appartenenza, subentra quella della soddisfazione dei bisogni.
Alle radici della cultura liberal-borghese, che in larga misura condiziona ancora la nostra società, sta l'idea che la sola realtà originaria sia l'individuo, con le sue esigenze e i suoi diritti. La società nasce esclusivamente in funzione dell'appagamento di queste esigenze e della tutela di questi diritti. Il suo fine, dunque, 'fon è un bene veramente comune, unico per tutti, ma una somma di obiettivi particolari: i bisogni sono diversi a seconda della costituzione fisica, del temperamento, della situazione concreta dei singoli.
Inoltre, mentre il bene, secondo un'antica tradizione, è per sua essenza comunicabile senza per questo impoverirsi, la soddisfazione dei bisogni tende ad essere concepita come la spartizione di una torta, le cui porzioni sono tanto più esigue quanto maggiore è il numero dei commensali. L'individuo è allora costretto a battersi per la propria affermazione, sapendo che essa è inversamente proporzionale a quella degli altri. La competitività - in termini economici, la concorrenza - diventa così la legge fondamentale della coesistenza.
Strettamente legata a questa concezione del rapporto tra persona e società è quella che identifica la libertà come assenza di condizionamenti esterni. Fiorita anch'essa nel contesto della cultura liberale, questa teoria implica che si è liberi se si può fare quello che si desidera.
La libertà, così concepita, è inevitabilmente limitata da ogni legame, da ogni impegno, da ogni scelta vincolante. Veramente libero è solo colui che non deve rispondere se non a se stesso e che si mantiene in un atteggiamento di costante disponibilità nei confronti di tutte le possibili esperienze.
Momentaneamente oscurata dall'egemonia, negli anni Sessanta e Settanta, della cultura marxista, questa visione conosce oggi una nuova fioritura, favorita dal resto dal consolidarsi della società dei consumi e dal tumultuoso sviluppo della civiltà post-industriale.
Oggi assistiamo alla lotta degli individui e dei gruppi corporativi - che altro non sono se non una forma di privato allargato - per raggiungere obiettivi dichiaratamente particolaristici. Si cerca di essere ammessi a un godimento quanto più largo possibile delle opportunità e dei vantaggi della società opulenta, al di fuori di ogni prospettiva di bene comune. Ritorna, prepotentemente, l'immagine della torta.
Ne è un segno evidente la crisi del mito della partecipazione. Fino a quindici anni fa esso dominava il mondo giovanile. La comunità era sentita come qualcosa di proprio, la cui cura non poteva essere delegata a nessuno.
Oggi i giovani concepiscono i gruppi sociali e le istituzioni come agenzie addette a garantire dei servizi, da frequentare dunque nella misura in cui ciò sia utile. In questo contesto si situa la crisi del senso di appartenenza di cui parlavamo prima: di ciò di cui ci si serve, come di uno strumento estrinseco, non ci si può sentire parte.
D'altronde è questa la logica del bisogno: essa induce a guardare ogni altra persona, ogni realtà sociale, ogni cosa, in funzione dell'appagamento che ne possa eventualmente venire al bisogno stesso.
Tutto tende ad essere usato e consumato in vista di un individuale benessere, senza che mai venga impegnato in modo definitivo la propria sostanza vitale, la propria libertà.
È appena il caso di sottolineare come tutto questo renda problematica l'esperienza cristiana dei giovani d'oggi. Nella prospettiva che abbiamo cercato di illuminare c'è posto anche per forti esperienze spirituali, in cui però la soddisfazione del bisogno religioso rischia di prevalere sul dono di sé.
Da qui la crisi, presso i giovani, di una serie di aspetti della spiritualità tradizionale legati all'idea di sacrificio, di rinuncia. Mentre giustamente si valorizza la centralità del mistero della resurrezione, con tutta la carica di liberazione gioiosa che esso implica, si tende però a dimenticare che il Risorto è anche il Crocifisso, in cui tutte le attese troppo umane dell'intelligenza e della sensibilità - i bisogni dell'uomo - sono state contraddette.
In questo clima spirituale anche le forme associative - gruppi, movimenti, comunità - che pure costituiscono una grande ricchezza e una forza concreta decisiva nella Chiesa del nostro tempo, rischiano talvolta di costituire luoghi di rifugio e di appagamento di bisogni individuali, primo fra tutti quello di sicurezza e di conforto psicologico, e di diventare una proiezione collettiva dell'individualismo dei loro membri.
Ne è un segno preoccupante la tendenza, non infrequente in questi gruppi, alla chiusura in se stessi e allo spirito di competizione con gli altri gruppi. In questo senso, anche certe attuali forme di forte socializzazione, che sembrerebbero contraddire la diagnosi ora svolta, in realtà ne sono una conferma.
Per un apparente paradosso, a questo individualismo non corrisponde, nei giovani, un potenziamento della soggettività. Al contrario, noi assistiamo oggi a una specie di dissoluzione del soggetto.
Questo non stupisce se si considera che gli sviluppi della cultura «alta» sono improntati, oggi, a un recupero della filosofa di Nietzsche che, in polemica radicale con l'esaltazione dell'Io fatta dal pensiero moderno, non esista a definire il soggetto «una favola, una finzione, un gioco di parole».[10]
Del resto, le scienze umane, sostituendo la ricerca filosofica dell'essenza dell'uomo con una analisi dei suoi vari aspetti particolari, hanno ampiamente favorito questa svolta. Il mistero della persona sembra ormai dissolversi in una molteplicità non sempre coerente di fenomeni oggettivabili e scientificamente controllabili al pari di quelli della natura. Si attenua così il senso sia dell'unità intima del soggetto che della sua irriducibile diversità rispetto agli oggetti.
Se si confronta questo atteggiamento mentale a quello che era dominante vent'anni fa, non si può non rimanere colpiti dal totale capovolgimento di prospettive. La parola d'ordine del Sessantotto era il superamento dell'alienazione, cioè della scissione del soggetto e della sua oggettivazione (la marxiana «reificazione»).
Che il soggetto recuperasse la propria unità sembrava il presupposto ovvio per la sua realizzazione e la sua felicità.
Oggi è precisamente questo presupposto ad essere messo in discussione. L'uomo, si dice, non è scisso per un «incidente» della storia, non ha alcuna unità originaria da recuperare. La frammentazione è in lui costitutiva ed egli deve solo accettarla come la propria più autentica condizione esistenziale.
Ciò non significa affatto che egli sia condannato ad essere infelice: al contrario, proprio in questa rinunzia ad una problematica coerenza assoluta stanno la sua liberazione e la sua felicità.
Non si tratta solo di teorie, e basta uno sguardo realistico alla situazione dei nostri giovani a dimostrarlo.
Immersi nella logica di una società che fa della soddisfazione dei bisogni la sola meta universalmente condividibile, essi sperimentano ogni giorno la pressione degli stimoli che gli oggetti esercitano su di loro, solleticando e risvegliando sempre nuovi bisogni, o addirittura - con l'aiuto della pubblicità - creandoli dal nulla.
Ora, le pulsioni che corrispondono a questi bisogni non sono unificate da alcuna superiore coerenza e tendono perciò, di per sé, a esplodere, letteralmente, nelle direzioni più disparate.
L'individuo si ritrova, così, frammentato nella sua stessa psicologia, divorata dall'ansia di possedere e consumare una quantità di cose che la società opulenta espone nelle sue vetrine illuminate.
La realtà esteriore e quella interiore si dissolvono in una fantasmagoria di immagini seducenti quanto effimere, prive di un filo conduttore rigorosamente logico, sul modello dello spettacolo televisivo.[11]
La stessa molteplicità dei messaggi con cui i mezzi di comunicazione sociale - ma non solo loro: si è parlato prima del moltiplicarsi e relativizzarsi delle agenzie educative - assediano l'utente, se da un lato favorisce lo sviluppo dell'individualità del giudizio e della scelta, dall'altro però determina una tendenziale disgregazione del soggetto, nella misura in cui questi è incapace di realizzare una sintesi equilibrata di questi messaggi e finisce per soccombere alla logica della semplice sovrapposizione degli strati della comunicazione, senza un'organica unità interna.
Ne consegue per moltissimi giovani la mancata conquista di una identità, per cui essi lasciano coesistere universi mentali diversissimi, talora incompatibili l'uno con l'altro, senza neppure sentire il bisogno di operare una sintesi.
Tutto questo si ripercuote sulla sfera delle scelte pratiche del giovane, rese più difficili non soltanto dalla crisi dei criteri oggettivi - le verità assolute di una volta - ma anche da quella del soggetto.
Nella misura in cui non si possiede, questi non può neppure donarsi, orientare globalmente la propria azione, o addirittura tutta la propria esistenza.
Bisogna evitare un facile moralismo che accusa i giovani di disimpegno. Qui si tratta di un clima culturale che rende improponibile, a meno di una decisa quanto rara presa di posizione da parte del singolo, ogni forma di dedizione e di appartenenza senza riserve.
Tradotto sul terreno della fede, questo significa che essa raramente, ormai, riesce a permeare l'intera personalità dei giovani, in un'adesione senza riserve e capace di coinvolgere vitalmente le sue idee, i suoi sentimenti, le sue aspirazioni, le sue angosce.
Anche da questo nuovo angolo visuale ritorna dunque la scissione tra fede e cultura di cui si è parlato prima.[12]

IL TEMPO SENZA PASSATO E SENZA FUTURO

In questa cultura, dominata dal primato del divenire, quest'ultimo appare però, paradossalmente, privo di un fine che gli conferisce una direzione e, in definitiva, un significato.
In una intervista, a una domanda sul compito della filosofia, Gianni Vattimo qualche tempo fa rispondeva: «Credo che la filosofia non debba nè possa insegnare dove si è diretti, ma a vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte».[13]
La corsa frenetica dell'uomo contemporaneo, da questo punto di vista, poiché manca di qualsiasi punto di riferimento rispetto a cui parlare di un suo progredire, finisce con l'assomigliare a una immobilità.
In termini di tempo, si può dire che viviamo in un'epoca che ha un senso estremamente precario del presente, ma non perché privilegi il passato o il futuro, anzi, al contrario, proprio perché misconosce queste dimensioni, senza le quali lo stesso presente perde il proprio significato.
È questo, con molta evidenza, il caso del passato. I giovani hanno sempre avuto difficoltà ad avvertire il peso delle cose che sono accadute prima di loro. Il ritornello degli anziani - «Ai miei tempi...» - era accolto, già molto prima di adesso, con un sorriso di vago compatimento da chi quei tempi non aveva potuto vedere e che comunque li considerava irrilevanti per la propria esperienza.
A questo atteggiamento tipicamente giovanile si è però sovrapposto, oggi, un clima culturale che tende inesorabilmente a cancellare la memoria dell'uomo. Noi assistiamo al trionfo della logica dell'attualità. Che un problema, un discorso, un libro, siano o no «attuali» viene considerato in molti casi il criterio fondamentale per valutarli. Gli avvenimenti, le teorie, perfino gli uo mini, contano nella misura in cui rientrano in questa logica. Esistono finché sono attuali. Come gli oggetti della società opulenta, che vengono desiderati, acquistati e subito consumati per poi essere gettati via e dimenticati.
È la legge a cui obbedisce il mondo dei mass-media. Una notizia invecchia con una rapidità spaventosa. Oggi è in prima pagina su sei colonne, domani su due, dopodomani è in terza, poi scompare nel nulla. La gente perde il senso della realtà di ciò che è accaduto: per i più, è come se quell'evento si fosse concluso, anzi non fosse mai stato reale al di là dell'effetto immediato che ha prodotto. Che i protagonisti che l'hanno vissuto continuino ad esserci dentro, a soffrirne, che esso insomma esista anche se nessuno ne parla più, pochi lo percepiscono.
Ritorna il tema dello spettacolo e, con esso, quello della leggerezza dell'essere: non a caso l'informazione diventa sempre più spettacolare e il servizio giornalistico tende ad assumere le forme dell'intrattenimento. La rappresentazione della realtà e quella della fantasia finiscono col confondersi nell'immediatezza di una emozione che viene vissuta nell'oggi e che si disinteressa del permanere nell'essere di ciò che è stato.
La stessa legge regola, del resto, l'avvicendarsi delle mode culturali. La peggiore accusa che oggi si possa muovere a un'idea, a una teoria scientifica, a una forma di espressione artistica, non è di mancare di verità o di validità estetica, ma di essere superata.
Ove con questo termine non si intende tanto dire che ci sono argomenti per ritenerla scorretta, bensì semplicemente che non interessa più a nessuno discuterla.
Può sembrare una sottigliezza, ma non lo è, sottolineare che un simile atteggiamento mentale non va confuso con quello, dominante in tutta l'epoca moderna, per cui il nuovo era considerato automaticamente migliore del vecchio.[14] Il modo di vedere che appunto si suole chiamare moderno e che ha dato luogo alle più svariate forme di modernismo, si basava pur sempre su una valorizzazione del tempo, come dimensione fondamentale della vita umana.
Ciò che era nuovo si supponeva fosse più valido di ciò che lo aveva preceduto per il fatto che costituiva un passo in avanti verso un ideale trionfo della razionalità, della giustizia, della felicità, ecc. Il mito che stava dietro la modernità era, insomma, quello ottimistico del progresso inarrestabile dell'umanità.
Ciò che caratterizza la nostra cultura, che in questo senso è davvero postmoderna, è invece la fine di questo mito. In quanto non ha direzione, la storia non ha neppure un progresso vero e proprio. È semplicemente un cambiamento. Il nuovo non occupa la scena perché veramente migliore dell'antico, ma semplicemente perché di quest'ultimo si è perduto la traccia. Non è il presente che si impone: è il passato che è svanito. Questo clima culturale ha un preciso riscontro a livello pedagogico nella definitiva liquidazione dello studio a memoria, bollato come sterile nozionismo. Il fatto che alle radici della nostra civiltà stia la trasmissione orale - dunque basata sulla memoria - di opere come l'Iliade e l'Odissea, o delle stesse tradizioni bibliche, sembra anch'esso dimenticato. Più in genere, è tutta la polemica - in sé giusta - contro il nozionismo, che ha finito per diventare equivoca. Perché ciò che si è ultimamente presentato come ideale della maturazione intellettuale di un giovane è la sua capacità di pensare e discutere un problema partendo da zero, a prescindere dalla conoscenza, e dunque dal ricordo, dei dati relativi a quel problema.
Nell'eclissarsi della memoria umana, si afferma quella artificiale del computer. Che quanto a potenza è indubbiamente ben superiore, ma che ha precisamente il limite di non essere umana. Essa è a disposizione dell'uomo, come uno strumento estrinseco, e non dentro di lui. Perciò non impregna di sé la personalità di colui che ne usa, ma semplicemente gli consente di avere il dominio di una serie di dati. Il suo accrescersi non è esperienza viva di un soggetto, che attraverso essa cresce anche lui, ma meccanico accumularsi di informazioni, che non incide sull'essere dell'uomo, ma solo sul suo potere.
Fenomeno che meriterebbe una più profonda riflessione: perché, se è vero che la memoria è in definitiva la continuità profonda su cui ripsa la nostra identità - siamo ciò che siamo diventati attraverso una serie di tappe che rimangono, in quanto custodite, più o meno consapevolmente, appunto dalla nostra memoria - allora è la dimensione fondamentale del nostro essere uomini che qui si trova messo in gioco...
Non ci si può stupire, a questo punto, che i nostri giovani crescano senza memoria. Ai racconti dei nonni che, magari ripetendosi, rievocavano storie lontane, filtrate dalla loro nostalgia, essi sostituiscono sempre più spesso il dialogo asettico con il computer (i nonni, del resto, ormai li si mette nelle case di riposo...). Se il rapporto con il passato sembra essersi indebolito, non meno problematico è il rapporto dell'uomo contemporaneo, e dei giovani in particolare, con il futuro. La crisi delle ideologie ha comportato, al tempo stesso, quella dei grandi progetti che avevano affascinato le masse giovanili nel Sessantotto. Oggi l'idea di poter creare un mondo futuro più giusto e più felice sembra non interessare più.
Forse questa indifferenza è solo la forma più sottile della delusione seguita al fallimento del movimento studentesco. Sta di fatto che i giovani non sognano più la rivoluzione.
Non vogliono una società diversa da quella in cui vivono, e se protestano è per le difficoltà che impediscono loro di inserirsi e di fruire delle opportunità di benessere che essa offre.
Il grande nemico da battere non è più l'alienazione, ma la disoccupazione; non è l'integrazione, ma l'emarginazione.
Anche nella sfera individuale noi assistiamo oggi al rifiuto dell'idea stessa di progetto.
Il giovane, soprattutto, rifugge dal prendere impegni che lo possono vincolare a lungo termine.
Egli intende abitualmente la propria libertà come assenza di condizionamenti.
Perciò tende a diffidare di tutto ciò che potrebbe limitare la sua sete di esperienze sempre nuove.
E d'altronde la vita gli appare così imprevedibile, così frammentaria, che tentare di racchiuderla in un'unica visione, come inevitabilmente è quella di un progetto, viene sentito da lui come una forzatura inaccettabile.
Senza dire che progetto implica una ferma convinzione sulla verità e validità di un fine e la riflessione pacata sui mezzi necessari per raggiungerlo. Ora, entrambi questi atteggiamenti sono diventati estremamente difficili, in una società che non ha più il tempo per pensare se non ai problemi che premono nell'immediato.
Perciò oggi il giovane preferisce affidarsi al flusso delle esperienze che non hanno domani.
Egli vive alla giornata.
Se si lega affettivamente a un partner, preferisce non dire che è fidanzato, ma che sta con una ragazza o con un ragazzo, e questo stare elimina quanto di impegnativo per il futuro vi può essere nel fidanzamento.
A maggior ragione questo vale per il matrimonio. Ci si sente più liberi vivendo il rapporto di coppia al di fuori di ogni quadro istituzionale che gli conferisce stabilità. In luogo della promessa reciproca di fedeltà, si preferisce una semplice situazione di fatto che perdura fin quando i due sentono di star bene insieme.
Anche i figli, in questo quadro, rischiano di essere sentiti come un peso, un legame che si proietta inevitabilmente sugli anni a venire e compromette la propria «libertà». Come i vecchi - testimoni del passato - anche i bambini, che lo sono del futuro, hanno sempre meno spazio in una cultura che privilegia unilateralmente il presente.
In questo contesto si situa anche la crescente difficoltà dei giovani di vivere la dimensione dell'attesa. Una dimensione fondamentale nella loro condizione, che per definizione è quella di chi è ancora in cammino verso una compiuta maturità. Saper attendere significa infatti saper accettare ciò che è ancora provvisorio, ciò che è incompiuto, saperne godere anche se non è la realtà definitiva. E quest'ultima trae la sua forza, il suo significato, proprio dall'essere stata oggetto dell'attesa, metà a cui si è giunti dopo un lungo cammino.
Tutto questo sembra, nel nostro tempo, largamente perduto. I giovani sono sempre stati caratterizzati da una certa impazienza. Ma nella nostra società l'incapacità di attendere è diventata anche un fatto culturale. Oggi i giovani vogliono tutto e subito. La sfumata prospettiva di ciò che ancora non è e pure viene pregustato come già presente, si appiattisce nel puro e semplice appagamento, che consuma le cose prima ancora di averle potute veramente desiderare.[15]

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Segnalavamo, all'inizio, i limiti della nostra ricerca.
Ora, al termine dell'analisi, essi sono abbastanza evidenti.
In particolare siamo consapevoli che di ciascuno dei punti che abbiamo trattato poteva essere offerto uno sviluppo in chiave positiva che sarebbe risultato non meno significativo di quello da noi dato effettivamente.
La leggerezza dell'essere non è soltanto segnale del nulla, ma anche di una maggiore capacità dei giovani di relativizzare schemi sociali e culturali che in un passato, anche recente, venivano considerati assoluti.[16]
Da questo punto di vista davvero i giovani di oggi sono più liberi di quelli di ieri da una realtà che spesso era l'opprimente retaggio di situazione precostituite.
In questa luce anche la pretesa di inventare questa realtà rivela un aspetto positivo, che è costituito da una maggiore creatività, da uno spirito d'iniziativa che rende il giovane responsabile del suo mondo.
E, in quanto questa creatività coinvolge anche la sfera emotiva, le pulsioni, gli istinti, essa porta alla luce ambiti della personalità troppo spesso repressi, in passato, e largamente ignorati dalla educazione alla fede.
Col risultato che quest'ultima spesso era appesantita da un moralismo e da un generico spiritualismo ben poco evangelici.
Perfino l'individualismo ha un risvolto che è bene non dimenticare, ed è quello di un maggiore spirito critico del giovane, di una sua maggiore autonomia di giudizio rispetto agli ambienti, talvolta soffocanti, in cui cresceva nel passato.
Autonomia di giudizio particolarmente preziosa in quanto capace di andare al di là del filtro delle ideologie massificanti, e di guardare la realtà con uno sguardo personale.
Va inoltre salutato come un reale progresso, rispetto al passato, il recupero della, integrale ricchezza dei bisogni che, purché non se ne assolutizzi la portata, è uno degli aspetti indispensabili di un autentico umanesimo.
La difficoltà di percepire il passato e il futuro, infine, ha la sua controparte nella liberazione dal vuoto tradizionalismo in cui talora scadevano le tradizioni e dal fascino illusorie delle utopie che rappresentavano, agli occhi di molti giovani, l'unico effettivo rapporto con il futuro.
Sono solo alcuni spunti (tra i tanti che si potrebbero evidenziare a partire dai problemi che abbiami cercato di prendere in esame in questa riflessione.
Un quadro completo della situazione culturale dei giovani non potrebbe prescindere, evidentemente, da questi ultimi aspetti positivi.
Pure, anche il discorso che qui abbiamo svolto non è - speriamo - pessimista. Guardare i problemi con coraggio è la condizione per affrontarli e cominciare a risolverli. Perciò anche la nostra lettura della realtà giovanile oggi non vorrebbe suggerire un atteggiamento di nostalgia per il passato, ma di quella speranza che nasce non dal fatuo ottimismo, bensì dalla consapevolezza.


NOTE

[1] G. Milanesi (a cura di), Oggi credono così, Elle di Ci, Leumann 1981, voll.2; M. Emma, I giovani credono ancora? Ricerca longitudinale socio-psicologica condotta su 6000 soggetti sulla religiosità dei giovani in Sicilia, COSPES, Ragusa 1983; G. Urso, Giovani a Catania tra contraddizioni e speranze, Acireale 1988.
[2] G. Urso, cit., p. 74.
Qualcosa di analogo deve dirsi a proposito della specificità della situazione siciliana, a cui via via accenniamo in «nota» per non appesantire la riflessione.
L'industrializzazione accelerata che ha radicalmente trasformato in un arco relativamente ristretto di anni il volto della Sicilia, la diffusione dei mass-media, l'accresciuta mobilità all'interno del mercato del lavoro, hanno travolto le antiche barriere che un tempo differenziavano profondamente le diverse culture regionali.
Anche qui la legge fondamentale sembra quella di una frammentazione, coniugata, per un paradosso che è però soltanto apparente, con una crescente omogeneità che livella ogni cosa.
Tutto ciò esige che, senza perdere di vista quanto vi è di specifico nella situazione culturale dei giovani in Sicilia, noi ci sforziamo di comprenderla a partire da un'analisi del più ampio orizzonte culturale del nostro tempo.
[3] M. Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere, Adelphi, Milano 1985, p. 16.
[4] Cf G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985, in particolare il capitolo I («Apologia del nichilismo») e il capitolo X («Nichilismo e postmoderno in filosofia»)
[5] Tutto ciò assume un particolare significato nella cultura siciliana. I giovani crescono, da questo punto di vista, in un ambiente che ha perduto le proprie radici. Alla stabilità, alla pesantezza soffocante di un mondo che aveva pochi ma sicuri punti di riferimento - la «roba», la casa, la terra - se ne è sostituita una che punti di riferimento non ne ha più nessuno, tranne quello mobilissimo, inafferrabile, degli oggetti da consumarsi con la maggiore velocità e nella maggiore quantità possibile.
Alle antiche cose che dovevano essere a lungo desiderate, conquistate col sudore e custodite, subentra il primato del denaro, che non ha, come la casa o il campo, una identità da conoscere e amare, ma simboleggia perfettamente il flusso anonimo di un essere svuotato ed appiattito.
Su questo stile si modella anche la vita dei giovani. In un mondo in cui l'essere non ha più alcuna «essenza», alcun «di dentro», come stupirsi che essi manchino di interiorità? Il ragazzo, la ragazza di oggi avvertono oscuramente, anche se non lo studiano sui libri, un clima culturale che privilegia il divenire incessante dei fenomeni e lo traducono, nella loro concreta esistenza, in un senso di provvisorietà e di fretta che divora la loro capacità di concentrarsi e riflettere.
Il loro approccio alle situazioni, alle scelte che devono compiere, è spesso quello di una immediatezza emotiva che ne coglie epidermicamente l'irradiazione positiva o negativa, senza il paziente lavorio di chi cerca di penetrare al fondo dei problemi. E del resto, dove penetrare, se questo fondo non esiste?
È evidente quanto tutto questo incida sull'approccio dei giovani alla fede. Quando vent'anni fa si chiedeva a un ragazzo o a una ragazza se credeva nell'esistenza di Dio, ci si poteva aspettare una risposta positiva o negativa, ma comunque una risposta.
Oggi la situazione è più complessa. Se si guarda alla mentalità e al comportamento dei giovani, si ha l'impressione che, di fronte alla domanda se Dio esista o no, essi potranno rispondere sì oppure no, ma in entrambi i casi la risposta più corretta, anche se paradossale, sarebbe che per loro Dio esiste in certi momenti e in certi altri no. La realtà di Dio non viene negata - ai nostri giorni è più difficile che mai trovare degli atei veri e propri - ma è diventata anch'essa «leggera», un punto X che emerge e scompare alternamente nei flutti del divenire.
Di fronte a questa realtà, che si parcellizza e si sfalda in un'anonima successione, dicevamo, non c'è più alcun dovere a cui sentirsi legati, alcun «così dev'essere» (M. Kundera, cit., pp. 40 e 200) da cui sentirsi schiacciati. Non c'è più un Dio che affidi una missione: «Nessun uomo ha una missione. Ed è un sollievo enorme scoprire di essere liberi, di non avere una missione», dice il protagonista di Kundera alla fine del romanzo (M. Kundera, cit. p. 317).
Per la grande maggioranza dei giovani Dio esiste e la sua esistenza è importante, ma non sembra avere il peso sufficiente per influenzare le scelte effettive in modo determinante. Non è più Qualcuno a cui rispondere.
Se il concetto di vocazione sopravvive, ed è anzi abbastanza diffuso tra i giovani, esprime ormai una pura e semplice attitudine temperamentale a fare certe cose, non una chiamata proveniente da un Dio e che impegna il singolo di fronte a Lui.
Per il giovane siciliano, spesso oppresso dall'eccessiva pesantezza dell'essere a cui lo condannavano la forza di tradizioni secolari, un ambiente sociale chiuso e fortemente conservatore, la rigidezza dei ruoli familiari e sociali, la stessa religione, ridotta spesso a una serie di tabù soffocanti, questa può suonare anche come una liberazione e probabilmente, in una certa misura, lo è.
Ma è certo che questa liberazione è pagata a caro prezzo, perché chi la sperimenta si trova a vivere in una specie di vuoto, in cui tutte le scelte si equivalgono. Come il Mattia Pascal di Pirandello, tanto libero, alla fine, da dover rimpiangere le schiavitù che davano «peso» alla sua vita.
[6] T. Kuhn, La struttura della rivoluzione scientifiche, Einaudi, Torino 1978, p. 247.
[7] P.K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 15, 21 e 146.
[8] Cf G. Milanesi, I giovani nella società complessa. Una lettura educativa della condizione giovanile, Elle Di Ci, Leumann 1989, p. 22, dove si parla di «relativizzazione dei sistemi di significato».
[9] Per i giovani siciliani questo clima si coniuga con un più antico e più tradizionale atteggiamento proprio dell'uomo del sud, per cui egli tende ad affrontare i problemi, che la dura realtà ambientale in cui si trova a vivere gli pone, in un atteggiamento prevalentemente «contemplativo».
Vi è, al meridione, tutta una tradizione speculativa che rivela la fecondità di-un simile atteggiamento. Ma vi è anche il pericolo che esso degeneri, come spesso di fatto è accaduto e continua ad accadere, in una caricatura della vera contemplazione, che è il fatalistico abbandono all'apatia.
Invece di protendersi a cogliere la verità delle cose, allora, lo sguardo si perde nel vuoto e il pensiero insegue soltanto le proprie fantasticherie, rinunziando a fare i conti con le difficoltà che la realtà presenta.
Nel momento in cui questo atteggiamento trova alimento nel clima culturale che sopra abbiamo descritto, esso viene inevitabilmente potenziato e diventa più pericoloso e difficile da combattere.
In un mondo che spesso è di emarginazione e di sottosviluppo, i miraggi della società post-industriale diventano per i giovani siciliani una nuova mitologia, il surrogato di prospettive reali di lavoro, di civiltà, di benessere, che nella realtà sono inesorabilmente precluse e favoriscono il perdurare di una situazione tollerabile solo per chi si rifugia nei propri sogni.
Anche il fenomeno della droga assume, in questo contesto, un valore peculiare, sulla linea, certo, del significato globale che esso ha nella nostra società, ma particolarmente consono alla situazione culturale siciliana. In generale si può dire che chi si droga tende ad evadere da una realtà che ai suoi occhi è troppo dura - o, forse, troppo grigia - per crearsi un suo mondo particolare. Il fenomeno della droga è, in definitiva, l'espressione sociale di una ricerca della felicità senza la verità. In questo senso esso costituisce il tragico riscontro di quanto abbiamo detto fin qui e la prova più evidente che il nostro discorso non è solo una esercitazione astratta.
In particolare questo vale per i giovani siciliani. La droga è la forma che assume, per loro, l'antica abitudine dei loro padri a evadere dall'impegno, più propriamente dalla lotta, che sarebbero necessari per trasformare il loro mondo reale. Nell'aggravarsi delle situazioni - prima fra tutte quella, frustrante, della disoccupazione - a molti sembra di non avere altra scelta che questo surrogato di felicità, anche se intuiscono oscuramente il rischio mortale a cui si espongono.
[10] Cit. in G. Vattimo, Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l'ermeneutica, Feltrinelli, Milano 1984, p. 33.
[11] Cf O. Calabrese, L'età neobarocca, Laterza, Bari 1987, dove il rapporto fra la nuova cultura e lo stile dei mezzi audiovisivi, specie la televisione, è fortemente sottolineato.
[12] In Sicilia questo nuovo clima culturale trova un terreno particolarmente propizio. L'individualismo costituisce una componente tipica della cultura siciliana.
Secoli di dominazione straniera e di isolamento feudale, un difficile inserimento nella nuova realtà dell'Italia unita, i problemi determinati dal sottosviluppo e dall'emigrazione, hanno contribuito a formare una mentalità insulare nel senso più profondo del termine.
Manca il senso del bene comune, di un bene, cioè, qualitativamente diverso dal tornaconto dei singoli e che si ponga al di sopra della conflittualità degli opposti interessi, realizzando le esigenze più autentiche della persona come tale. Un'amara esperienza ha insegnato che la vita è una lotta in cui ci sono sempre e soltanto vinti e vincitori, e in cui se qualcuno guadagna qualcosa lo fa inevitabilmente a spese di qualcun altro.
Ancora, l'esperienza ha portato a vedere le grandi istituzioni pubbliche - lo Stato e tutte le altre che ad esso sono legate - come dei potenziali nemici, da cui tenersi alla larga e da cui difendersi con ogni mezzo.
Ne consegue, logicamente, una mentalità difensiva nei confronti della realtà sociale circostante. Il giovane siciliano cresce nutrito di diffidenza verso tutto ciò che si presenta come «altro» rispetto alla sua persona o alla sfera ristretta in cui questa si proietta: la famiglia, il clan, l'ambiente del paese o del quartiere.
Solo all'interno di questa cerchia egli si sente sicuro e sperimenta la sicurezza e la solidarietà. E solo nei confronti di coloro che ne fanno parte si sente vincolato a un comportamento amichevole, o almeno di «rispetto».
La crisi della civiltà contadina e il massiccio fenomeno dell'inurbamento, travolgendo quello che per molti giovani era l'ambiente tradizionale, hanno reso più labili perfino questi legami e hanno precipitato il giovane in una solitudine ancora più radicale.
Strappato all'ambito rassicurante del paese o del gruppo familiare allargato, egli si è trovato gettato allo sbaraglio in un mondo immensamente più ampio e al tempo stesso disgregato com'è quello della grande città.
A questo punto, o le condizioni economico-sociali della famiglia a cui il ragazzo o la ragazza appartenevano li ha messi in grado di integrarsi in un ambiente borghese (ai suoi vari livelli, peraltro abbastanza differenziati), oppure essi si sono trovati a vivere in uno stato di emarginazione, spesso evidenziato anche dal fatto di abitare in un quartiere degradato.
In entrambi i casi, comunque, la loro è una storia di individualismo, si tratti di quello vincente condiviso con i coetanei della borghesia cittadina, o di quello perdente di tanti giovani condannati a un destino di disoccupazione o di sotto-occupazione, di noia, di rabbia repressa, se non addirittura di delinquenza (cf la lettera del Card. Pappalardo, Prestiamo attenzione ai giovani, Palermo 1982, tutta dedicata a questo problema).
E in entrambi i casi è anche una storia di scissione interiore, per cui il giovane resta diviso fra una eredità culturale affiorante ancora nell'educazione impartita dalla famiglia o comunque testimoniata da essa, e una serie di stimoli e di richiami operanti nell'ambiente circostante, senza che vi sia alcun sistema di valori capace di assicurare una ragionevole mediazione.
[13] G. Vattimo, Al di là del soggetto cit., p. 12.
[14] G. Vattimo, La fine della modernità cit., pp. 12 e 176.
[15] In una storia come quella siciliana il senso del futuro, con la dimensione della speranza che gli è connessa, non poteva essere molto sviluppato. Per gli abitanti di una terra che è stata oggetto di dominio e di scambio, piuttosto che di autonome scelte, è difficile sentirsi soggetti che progettano la loro storia.
E anche a livello individuale è logico che la lunga abitudine a vivere l'immobilità di una stratificazione sociale intoccabile, nel clima di una tradizione tanto tenace da essere spesso tradizionalismo, opera nel senso di una staticità e di un'assenza di prospettive.
E stato notato che nel dialetto siciliano manca perfino la forma verbale corrispondente al futuro. Essa è costituita da circollocuzioni. È lo specchio di una radicale assenza di apertura alla novità di ciò che il domani potrebbe portare. In luogo di una dinamica progettualità della comunità e dei singoli, è forte il senso fatalistico della necessità del destino degli uomini. La grande opera letteraria del Verga non fa che esprimere questa coscienza, largamente diffusa ieri come oggi tra i siciliani.
Né contraddice a questo fatalismo la sorda rabbia che periodicamente esplode contro quanti, a torto o a ragione, vengano ritenuti responsabili dello stato delle cose, nella misura in cui essa non si accompagna a una reale fiducia e capacità di trasformare la realtà, ma si esaurisce nella fase puramente distruttiva (v. per esempio dello stesso Verga, la novella «Libertà»).
La stessa ironia, così presente in tanti detti popolari e nell'atteggiamento quotidiano della nostra gente, manifesta, più che un puro e semplice umorismo, questa mentalità disincantata, quando non è una difesa contro la disperazione.
Per i giovani l'espressione più evidente di questa mancanza di futuro è il problema della disoccupazione. Un problema che solo pochissimi, sostenuti da famiglie socialmente ed economicamente forti, riescono ad affrontare in modo soddisfacente. Per gli altri c'è la prospettiva dell'attesa frustrante, o del lavoro nero, o della sotto-occupazione, se non addirittura della prostituzione e della delinquenza.
E non è solo un dato esteriore. La mancanza di possibilità ingenera un atteggiamento di passività che rende più difficile al giovane approfittare delle poche occasioni offertegli dall'ambiente.
Se il senso del futuro è stato sempre carente nella mentalità siciliana, il fatto relativamente nuovo è il venir meno anche del legame col passato.
Si accennava al fenomeno dell'inurbamento, proprio di diverse regioni d'Italia e che in Sicilia ha avuto una notevole diffusione. I giovani si trovano inseriti in un ambiente, com'è quello dei grandi quartieri anonimi delle nostre città, dove sono ormai venuti meno tutti i punti di riferimento che garantivano una continuità con la cultura e il costume del loro ambiente di origine: la chiesa col campanile, il circolo, la piazza principale, la festa del patrono. Sradicati da una comunità, essi lo sono anche da una storia. Quella della campagna non è più la loro e quella della città non lo è mai stata.
L'accusa di barbarie spesso rivolta a queste bande di giovani dai benpensanti, scandalizzati della loro abulia e dei loro atti di teppismo, nasconde un'anima di verità: essi sono veramente al punto zero, accampati, come gli antichi barbari, in un mondo che non riconoscono, che non li capisce, sprovvisti dei mezzi per capirsi loro stessi.
[16] Ottimi spunti costruttivi può fornire, su questo tema della leggerezza come su altri relativi alla cultura postmoderna, I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988.