Le parole della fede /1
Giuseppe De Virgilio
(NPG 2007-01-54)
Con la rubrica «le parole della fede» si intende offrire agli educatori e ai giovani un itinerario concettuale ed esperienziale, tematizzato su alcune parole-chiave della Bibbia, che hanno un aggancio «progettuale» con il vissuto giovanile della fede. Ciascuna parola presa in esame viene rielaborata in quattro tappe:
1. L’«evocazione» della parola.
Si introduce il senso della parola presa in esame, evocando alcuni aspetti e connessioni che favoriscono l’interesse e la risonanza nel contesto giovanile odierno.
2. La «narrazione» della parola.
Si propone un itinerario ragionato della parola nello sviluppo della rivelazione storica della Bibbia, partendo dall’Antico Testamento fino al compimento cristologico nel Nuovo Testamento. Mediante questo lavoro si potranno riscoprire aspetti e figure significative del messaggio contenuto nella parola.
3. La «provocazione» della parola.
Avendo presente il mondo giovanile e le sue dinamiche, vengono proposti in modo esemplificativo due esempi tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, che «provocano» con la loro forza interpellante il lettore ad approfondire e attualizzare la parola.
4. L’«invocazione» della parola.
La parola deve diventare preghiera nel cuore e nel cammino dei credenti. In questa ultima tappa viene proposta una «preghiera biblica» che sintetizza la ricchezza della parola accolta e vissuta in prima persona dai giovani.
Aiutato da questa rielaborazione, che rimane pur sempre una proposta sintetica, l’educatore potrà a sua volta riproporre un cammino di «riscoperta» di alcuni aspetti e valori dell’esperienza cristiana «vissuta», approfondendo la «parola» presentata nel confronto di gruppo o nella rilettura esistenziale della vita dei propri giovani.
Evocazione
Dire «padre» significa evocare una relazione costitutiva dell’essere e del divenire umano. Infatti il termine è indicativo della dinamica interiore, plasmata di affetti e di conflitti, di memoria e di oblio, di protezione e di nostalgia che toccano profondamente la sfera del cuore umano. Negli ultimi decenni del XX secolo siamo stati testimoni di come la «figura del padre» abbia subito forti resistenze nella cultura occidentale, a partire dalla tendenza critica nata dall’ambiente europeo e dai suoi «maestri del sospetto». In modo particolare l’idea di «padre» è stata avversata dall’esasperato soggettivismo latente nelle scelte e nei comportamenti generali del mondo emancipato. Un ruolo importante è dovuto anche alla forte critica del movimento femminista contro la forma sociale di tipo patriarcale e ad una concezione subordinata dalla donna nei riguardi del patriarcato. Per diverse ragioni alcuni autori hanno parlato della «disfatta del padre» (H. Tellenbach), alludendo al rifiuto di una visione patriarcalista della vita e delle relazioni sociali, che ha interessato in modo particolare la sensibilità delle giovani generazioni.
La protesta rivolta al padre (F. Kafka; G. Mendel), il riscatto contro forme latenti e consuetudinarie di paternalismo, le reticenze della mentalità comune rispetto a ciò che l’essere padre simboleggia nel sistema sociale odierno hanno prodotto l’affermarsi della concezione di una «società senza padre» (A. Mitscherlich), di cui oggi avvertiamo le conseguenze nel dialogo culturale e religioso. Non rare sono le tendenze odierne a voler costruire una «fraternità senza padri» e questo fenomeno è ravvisabile nei contesti giovanili. Di fronte alle contraddizioni della nostra cultura, nel dire «padre» l’annuncio cristiano evoca la nostalgia del «totalmente altro», insegna a «coltivare» la ricerca di un’appartenenza che non umilia l’uomo, né lo insidia nella sua natura creaturale, ma che lo accresce e lo sostiene nell’incessante ricerca di senso. Un ruolo speciale in questa prospettiva è rivestito dalla Bibbia, memoria viva di un popolo che ha fatto esperienza di Dio e della sua «paternità». Ripercorrere la narrazione biblica guardando al Padre, significa in qualche modo riproporre l’esodo verso la «terra» dove abitano le origini dell’uomo e dove risiedono i suoi destini.
Parlare di paternità ai giovani di oggi non è un fatto «pacifico». Anzitutto essi vivono il timore della paternità. Non solo della paternità applicata alla persona di Dio, ma anche dell’esperienza della «paternità» storica ed esistenziale del loro vissuto. I conflitti intergenerazionali e l’esperienza della paternità «sofferta» costituiscono un punto di domanda nel contesto giovanile? Sarebbe interessante interrogare i nostri giovani su cosa intendono per «paternità» e sui sentimenti evocati dalla relazione con «il padre» e dal ricordo infantile della sua figura. Intendiamo sintonizzarci su questa prospettiva per aiutare gli educatori e i giovani stessi a «lavorare» sulla figura del Padre, ripartendo dalla «Parola» ispirata, dalla grande tradizione biblica e dalla sua ricchezza narrativa ed esistenziale.
Narrazione
Dio padre e l’esperienza di Israele nell’Antico Testamento
L’esperienza narrata del «padre» si presenta in tutta la sua originalità biblica. La Scrittura ispirata rivela anzitutto l’assetto del modello patriarcale ebraico, contesto vivo in cui le tradizioni bibliche hanno attinto la loro origine e si sono sviluppate. Sul piano sociale scopriamo nelle tradizioni comuni ai popoli antichi che il padre è il capo incontestato del clan familiare, riconosciuto come «padrone» e signore della sua casa (Gen 18,12), a cui devono fare riferimento la moglie, i figli e l’intera famiglia, cellula determinante del popolo. «Padri» sono i patriarchi, di cui Abramo è capostipite «secondo la carne» (Rm 4,1). Tuttavia la paternità umana non è che la condizione storica per esprimere una «paternità spirituale e universale» (P. Ternant) di Jahwe, il quale «ha scelto» di fare alleanza con un popolo: Israele. Con la parola «padre» gli scrittori antichi ripercorrono la memoria storica delle origini dell’uomo creato e della comunità, presentata nelle tappe della discendenza dei padri come «solidale nel bene e nel male». La paternità indica l’origine della famiglia umana e il fondamento della sua fraternità. Tuttavia esclusivamente in Israele la paternità di Jahwe non è manifestata con un linguaggio mitologico; essa viene indicata mediante metafore sponsali e familiari che confermano la paternità teologica e morale di Jahwe in relazione con il popolo che si è scelto (cf Es 4,22; Nm 1,12).
Dalla lettura dei racconti dell’Antico Testamento si afferma che Jahwe ha «eletto» il suo popolo come «suo figlio» (illuminante la sintesi espressa nella preghiera di Dt 32,1-43) e si è rivelato in tutta la sua misericordia e tenerezza. La paternità di Jahwe diventa un motivo di preghiera (Sal 89,17) e un sostegno legato non solo al passato, ma aperto al futuro (Dt 14,4). Soprattutto nella predicazione profetica la paternità di Jahwe è decantata attraverso la sua tenerezza sponsale (Os 11,3; Ger 3,19) e la fedeltà al progetto della salvezza (Is 45,10; 63,16; 64,7). In questo orizzonte di senso, Dio-padre è all’origine della creazione (Gen 1-2; cf Is 64,7), delle generazioni umane (Gen 5;10), della monarchia (1Cr 22,10) e della «storia della salvezza» nella quale si inscrive la vicenda di Israele (Ger 31,9; Mal 3,17; Tb 13,4), chiamato a superare il primato della stirpe «eletta» e ad aprirsi ad una visione universale del mondo.
La paternità di Dio rivelatasi con l’alleanza del Sinai non è esclusivo appannaggio del popolo eletto. Dalla filiazione abramitica in avanti, Jahwe chiama tutte le nazioni a sperimentare una comune figliolanza (cf Is 2,2-5; Sal 86; cf Gal 3,8). L’uomo sapiente impara l’arte della vita in relazione alla legge di Dio, come un figlio apprende dalla sua sottomissione al padre (cf Prv 3,12, Sir 23,1-4; Sap 2,13-18; 12,7). Tuttavia la paternità di Dio viene espressa in modo unico nella linea del messia, soprattutto in due oracoli profetici: l’eletto-bambino porterà la salvezza di Jahwe e sarà chiamato «padre per sempre» (Is 9,5) e il «figlio promesso» da Natan alla discendenza di Davide, che rivelerà la volontà salvifica di Dio «padre» nell’ora del compimento del Regno (2Sam 7,14). Si tratta di due testi che costituiscono un’apertura religiosa che avrà conseguenze notevoli nel cammino di fede della comunità ebraica. Un «popolo errante», segnato da prove e indicibili sofferenze, continuerà ad invocare la paternità di Jahwe nelle situazioni di estremo bisogno, riconoscendo nell’alleanza con Dio la propria ragione di essere e il proprio destino.
Il drammatico grido della paternità di Dio si eleva attraverso la voce dei poveri e degli esuli di Israele, all’indomani della tragedia nazionale dell’esilio. Tuttavia neppure la disfatta del regno di Giuda e la successiva orfananza di Israele (cf Lam 5,3) eliminerà la struggente nostalgia del Padre e l’attesa del compimento delle sue promesse. Nella linea della critica colta, anche il saggio Giobbe pone la domanda sul senso del dolore al «Dio nascosto», e solo al termine della sua ricerca egli fa l’incontro con il «mistero della paternità» celeste (Gb 31,18; 42,5-6). L’Antico Testamento si chiude con la presentazione dell’uomo saggio che prega Dio confidando nella sua «paternità» e mettendo le sorti della propria vita nella «signoria del Padre» (Sir 23,1.4; 51,10). In definitiva l’idea della paternità e della rivelazione di Dio come «padre» restano sullo sfondo di un’attesa nella fede di Israele, che dovrà essere realizzata nel compimento degli tempi ultimi.
Il compimento di una paternità per mezzo del Figlio Gesù Cristo
Nella predicazione di Gesù si porta a compimento lo svelamento della paternità di Dio (il tema è particolarmente elaborato dal quarto evangelista). Non vi è dubbio che il termine «padre» rivesta un’importanza centrale nella persona e nella missione di Gesù di Nazareth (cf lo studio esegetico su «Abba» di J. Jeremias). Molti autori hanno sostenuto come la relazione trinitaria, inaugurata dalla rivelazione di Gesù e culminata nella Pasqua, costituisca la novità fondamentale del cristianesimo (W. Kasper). La lettura semplice dei quattro Vangeli può aiutare a scoprire questa novità, fin dall’esordio dell’«esistenza filiale» del Cristo (H. U. von Balthasar). Nel tempio di Gerusalemme Gesù rivela per la prima volta la necessità di «essere nelle cose del Padre» (Lc 2,49), rispondendo all’angosciata domanda di Maria e di «suo padre» Giuseppe. Fin da questa scena lucana si evince la densità tematica della paternità di Dio, che gradualmente si svela agli occhi del lettore in tutta la sua profondità, fino a culminare con le parole finali di Gesù morente: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,56). «Dio Padre» è anzitutto inteso nei Vangeli come «il padre» di Gesù in senso unico (cf Mt 7,21; 11,27). A questo Padre il Cristo si rivolge direttamente per pregarlo (Mt 6,9), benedirlo (Mt 11,25-30), supplicarlo nella prova (Mt 26,39), affidargli gli ultimi istanti della sua vita sulla croce (Lc 23,56).
Nei vari racconti evangelici Gesù parla del Padre rivelando l’autocoscienza di essere «figlio» (Mc 12,6¸13,32; Gv 5,25; 10,36). Dagli spiriti immondi (Mc 3,11 Mt 8,29) agli avversari che lo giudicano per farlo condannare a morte (Gv 5,18; 19,7), emerge la relazione profonda che il Cristo ha con il Padre, invocato familiarmente con «Abba» (Mc 14,36). Nei suoi insegnamenti Gesù parla di Dio come «Padre» che «vede nel segreto dei cuori» (Mt 6,4.6.18), che cerca «adoratori in spirito e verità» (Gv 4,23), che governa la storia dell’uomo (Mt 10,29), senza giudicare nessuno (Gv 5,22) ed è l’unico a conoscere il giorno e l’ora della fine (Mt 24,36; At 1,7).
In modo del tutto particolare Gesù insegna ai suoi discepoli a pregare Dio chiamandolo «padre» (Lc 11,2); la comunità apostolica sente l’impegno di vivere la fraternità e il servizio «nel nome del Padre». Seguendo Gesù, i credenti scoprono il Padre che li ama (Gv 16,27) e che nel volto del Figlio contemplano quello del Padre (Gv 14,9). Sarà Gesù stesso ad intercedere presso il Padre perché custodisca la comunità «nel suo nome» (Gv 17,10) e, risorto dai morti, rivela alla Maddalena che nel Padre si compie l’atto ultimo e definivo della sua missione (Gv 20,17). Alla luce della rivelazione cristologica, la comunità cristiana vivrà la comunione fraterna secondo la prospettiva della paternità di Dio. Essa ricorda le parola del Cristo che diventano ora programma di vita: «Voi non fatevi chiamare «rabbì», perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8).
Ricevuto lo Spirito Santo dal Padre (At 2,33), i credenti esprimono nella preghiera e nella prassi caritativa la relazione con il Padre (Gal 4,6; Rom 8,15), preservando l’unità e la concordia (Ef 2,18). Il cammino dell’evangelizzazione descritto nel libro degli Atti e nelle lettere paoline ha come riferimento centrale la «paternità di Dio» (Rom 15,6), da cui tutto proviene (2Cor 1,3) e a cui tutto si orienta (1Cor 15,24). L’esperienza della paternità di Dio, espressa in forme diverse, accompagna lo sviluppo della Chiesa e la sua forza testimoniale. L’Apostolo Paolo, in una sintesi mirabile condensata nel suo epistolario, presenta la paternità misericordiosa di Dio (2Cor 1,3), che reca la grazia e la pace (2Cor 1,2; Gal 1,3; Ef 1,2; Col 1,2), l’unico a governare la storia (1Cor 15,24) e a dirigere il cammino dei credenti (2Ts 3,11). Ugualmente negli scritti giovannei si esalta il motivo della paternità di Dio, centrata sull’amore trinitario (1Gv 3,1), fonte della vita e della comunione fraterna (1Gv 1,1,2.3), termine ultimo del regno dell’Agnello immolato (Ap 1,6).
Provocazione
Dalla precedente analisi possiamo comprendere quanto risulti espressiva della fede di un popolo la parola «padre». La Sacra Scrittura ci fa sperimentare anche la provocazione che emerge dalla messaggio della paternità, attraverso sue storie esemplari sinteticamente riproposte in relazione al contesto giovanile. La prima storia è la prova di Abramo in Gen 22,1-19, in cui la paternità viene messa nella prova della fede. La seconda storia è la parabola del «padre misericordioso» in Lc 15,11-32, che riassume la grandezza della paternità di Dio e la debolezza dei due figli.
Abramo: la paternità alla prova (Gen 22,1-19)
Chiamato da Dio a lasciare la sua terra, Abram si mette in cammino con la sua famiglia verso il «paese» di Canaan in piena obbedienza alla sua chiamata (Gen 12,1-4). Le diverse vicende narrate nel ciclo di Gen 12-25 presentano la figura di Abramo secondo una prospettiva di fede e di scoperta graduale del progetto di Dio. L’angoscia del patriarca è dato dalla domanda sul futuro della sua famiglia, senza discendenza! Durante una notte Abram riceve la promessa di una «paternità straordinaria», la cui discendenza sarà numerosa come le stelle del cielo (Gen 15,5). Abram «crede» e si affida a Dio (Gen 15,6), celebrando il rito di alleanza (Gen 15,17-21). La successiva nascita di Isacco (Gen 21,1-7) costituisce la realizzazione della promessa di Dio fatta ad Abramo e a sua moglie Sara (Gen 18,10). Con la nascita del primogenito e l’allontanamento di Agar e Ismaele tutto sembra risolto (Gen 21,8-21), ma Dio riserva al patriarca la «prova della paternità», chiedendogli di portare l’unico figlio sul monte Moria e di offrirlo in olocausto» (Gen 22,2). La narrazione di Gen 22,1-19 descrive l’intera vicenda in un dialogo filiale tra Abramo e Isacco: la paternità è messa alla prova nel conflitto tra l’amore del padre per l’unico figlio e l’amore per Dio. L’obbedienza estrema di Abramo al comando celeste rivela l’offerta della sua paternità a Dio.
• «Padre» è colui che ama perdutamente suo figlio e per amore «sale con lui» verso il monte della prova, riponendo unicamente fiducia di Dio-padre (Gen 22,5-6).
• «Padre» è colui che confida nella «provvidenza» e nella benevolenza di Dio-padre (Gen 22,8).
• «Padre» è colui che sa rispondere «eccomi» all’appello dell’angelo del Signore (Gen 22,11) e che testimonia come «il Signore provvede» (Gen 22,14) per coloro che amano e cercano Dio.
• «Padre» è colui che interpreta la paternità come un dono, una vocazione a cui è chiamato nella fedeltà e nella perseveranza.
- Cosa ha suscitato in te la lettura di Gen 22,1-19?
- In cosa consiste la «paternità di Abramo»? Come va interpretata la relazione tra Abramo e Isacco, che salgono al monte per un «sacrificio»?
- La «fiducia» di Abramo e le paure dei giovani di oggi. Quale esperienza può aiutarci a riconquistare la fiducia nel padre e la fede in Dio?
Un padre misericordioso «senza misura» (Lc 15,11-32)
La nota parabola del «padre misericordioso» è contestualizzata nell’insegnamento di Gesù sulla misericordia di Dio verso i peccatori (Lc 15,1-3). Le precedenti due parabole del capitolo (il pastore e la pecora: Lc 15,4-7; la donna e la dracma: Lc 15,8-10) anticipano il messaggio contenuto nella storia di un padre che «ama» in modo straordinario i suoi due figli. L’accento cade sul senso e sul ruolo della «paternità» in relazione a due atteggiamenti diversificati dei figli. Il più giovane decide di lasciare la «casa del padre» e di farsi un futuro «lontano» (Lc 15,13). La rapida esperienza di degradazione e di fallimento porta il figlio a prendere coscienza della sua situazione di bisogno e di protezione (Lc 15,17-19). L’esperienza del fallimento e della solitudine si trasformano in un coraggioso esodo verso la casa di prima, dove abitano gli affetti e i ricordi del padre. Così il giovane deluso dichiara tutto il suo peccato e riconosce il suo errore (Lc 15,21); la reazione del padre è completamente diversa dai criteri del giudizio umano. Egli «va verso il figlio» e lo riabilita nella gioia della festa, esercitando verso di lui una paternità «senza misura», perché «… era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,24.31).
La seconda scena vede come protagonista il «figlio primogenito», rimasto a lavorare nell’alveo familiare. Egli appare come un giovane scontento, non riconciliato, deluso dalla sua relazione con «il padre» che esce per dialogare con lui e pregarlo di entrare nella festa (Lc 15,28). Egli conduce una critica serrata al comportamento del padre nei riguardi del fratello rientrato (Lc 15,29-30). Il modello della «paternità» è sotto il giudizio del figlio maggiore: le sue ragioni e le sue previsioni sono disattese. Non è la regola a prevalere, ma un nuovo modello di «paternità», che si fonda sul superamento della visione retribuzionista. La paternità che emerge dalla parabola e che sconvolge il lettore si fonda su una «visione di fede» che qualifica la vita e le relazioni interpersonali. Il padre della parabola rivela la novità del Dio cristiano, che si concretizza nell’esercizio della paternità misericordiosa verso tutti i suoi figli!
• «Padre» è colui che vive le relazioni in modo libero e liberante, senza giustizialismi né paternalismi (Lc 15,12).
• «Padre» è colui che si apre alla «conoscenza» dei suoi figli senza la paura di perderli, ma con la capacità di ritrovarli al momento opportuno (Lc 15,20).
• «Padre» è colui che «esce» percorrendo la strada della prossimità, riducendo le distanze affettive, superando le fratture e condividendo le ferite dei suoi figli (Lc 15,22-23).
• «Padre» è colui che «sa ascoltare» le ragioni e le critiche, mettendosi in discussione e aprendo un dialogo vero con i suoi figli (Lc 15,30-31).
- Padre, padrone, padrino, paternalista…ma chi deve essere secondo te il «padre»?
- La storia di questa famiglia è dominata da un «cammino di libertà». Ti senti libero di amare come il padre della parabola?
- La nostalgia della presenza e della protezione del padre: cosa chiedi oggi a tuo padre per essere amato nella verità e compreso nei tuoi problemi?
- Vorresti un giorno essere anche tu «padre» secondo il modello della storia evangelica? Perché?
Invocazione
La preghiera del «Padre Nostro» riassume in modo essenziale il senso della relazione nuova con Dio, consegnata da Gesù stesso si suoi discepoli (Lc 11,1-2). Attraverso le sette domande riportate nella redazione matteana, la preghiera del Padre nostro ci fa entrare nel cuore stesso della paternità di Dio, come «veri figli» amati da Lui (Mt 7,11). Proviamo a rileggere il testo di Mt 6,9-12 e ad applicarlo alla vita dei giovani.
«Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome;
venga il tuo regno;
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane
quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo
ai nostri debitori,
e non ci abbandonare
alla tentazione,
ma liberaci dal Male.
- Quale «parola» di questa preghiera interpreta meglio i bisogni dei giovani? Perché?
- Se avessi la possibilità di «riscrivere» le sette domande del Padre Nostro, cosa chiederesti a Dio Padre?
Siamo chiamati a sperimentare questa paternità di Dio, a credere che il «Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef 1,3) ci ha benedetti, ci ha scelti, ci ha predestinati «a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,5). La preghiera di Gesù diventa la chiave di lettura della rivelazione biblica della paternità.
«Padre», per il giovane del nostro tempo, può diventare «parola» di fede da riscoprire e da vivere.