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    I racconti d’Europa

    raccontati ai giovani

    Agnes Heller

    (NPG 08-09-23)

     

     

    Nel 2007 abbiamo celebrato, giovani e meno giovani, il 50° anniversario dell’Unione Europea. Noi filosofi in genere cominciamo le nostre ricerche con l’interrogativo «Cos’è?». Cos’è che celebriamo? Cos’è l’Unione Europea? E innanzitutto, cos’è l’Europa?

    A un primo approccio si può rispondere con facilità a questa domanda. Cos’è l’Europa se non le storie raccontate sull’Europa stessa?

    Molte sono le storie raccontate sull’Europa, tutte diverse, e alcune irriconciliabili con le altre. Immagino che, prima ancora di raccontare alcune di queste grandi storie, i cittadini europei – tra tutte queste storie – sceglieranno la loro propria tradizione. In realtà però non sceglieranno, perché non possono sceglierle tutte: la lettura di queste storie passate e il loro apprezzamento sarà selettivo. Ma anche se oggi non si possono scegliere tutte le storie (pur dovendo ricordare tutte quelle maggiormente significative, e non soltanto per poter veramente scegliere ma anche per esigenza di prudenza e per poterne rifiutare alcune), è tuttavia necessario che ricordiamo le storie d’Europa.

     

    Un continente che narra storie

     

    Molte storie sono state raccontate sull’Europa. Forse, si potrebbe dire, perché e un vecchio Continente. Ma ci sono continenti anche più vecchi senza storie similari. La Cina e l’India hanno molte storia, ma l’Asia come tale non ne ha nessuna. L’Egitto ha storie, ma l’Africa non ne ha nessuna. Più precisamente, se essi possiedono storie, queste furono inventate in Europa e da Europei. L’Europa possiede tali storie in numero impressionante non per la ragione che è il più vecchio continente, ma divenne l’Europa precisamente perché possiede così tante storie.

    L’Europa è semplicemente un «continente che narra storie», un continente che ha stabilito la sua identità come una sorta di autobiografia, ma non a causa delle sue specificità geografiche (che sono importanti eppure non sempre hanno suggerito storie), ma a causa delle sue specificità storiche.

     

    Un tempo l’Europa non possedeva per nulla storie. È più o meno dal Rinascimento che l’Europa è diventata la più grande narratrice di storie. Ci volle del tempo per mettere insieme dei fenomeni originariamente disconnessi in una storia europea comune.

    Parecchie autobiografie dell’Europa sono state scritte o sono emerse sin dal primo Rinascimento. Di esse dirò fra poco qualcosa di più dettagliato. Per il momento le enumero soltanto. Una storia fu a proposito del continente cristiano in contrasto con continenti non cristiani; un’altra sull’Occidente in contrasto od opposizione con l’Oriente; un’altra sul continente moderno in contrasto con quello tradizionale; ancora, una storia sul continente libero in opposizione a quelli dispotici, e poi ancora una storia sul continente dei bianchi in contrasto con i contenenti di gente di colore; una storia circa il continente della scienza in contrasto con i continenti dei miti; una ancora sui colonizzatori contro i colonizzati, e così via.

    Come in tutti i casi di costruzione di identità, l’identità dell’Europa è stata costituita mettendo in contrasto il «nostro» continente con «gli altri», con la non-Europa.

    Queste identità sono puramente fittizie o sono reali? È difficile tenere queste due caratteristiche interamente separate. Ogni volta che un’identità è costruita da una storia, è una invenzione che è allo stesso realtà fintantoché la gente ci crede, pensa in accordo con essa e si comporta secondo il suo spirito.

     

    Tutti i popoli, tutte le culture hanno i loro miti.

    Blumemberg dice che anche le fiction narrative europee sono dei miti. Secondo lui il famoso incontro tra Napoleone e Goethe è uno dei miti europei più importanti. Io direi piuttosto che questo incontro non è un mito ma una mini-storia.

    Per me le storie europee circa l’Europa non sono mitologia, anzitutto perché i protagonisti delle sue storie rappresentative giocano un ruolo consapevole. Sono consapevoli che in un certo particolare momento storico essi partecipano a una storia europea rappresentativa che essi, come attori, stanno scrivendo.

    I popoli europei ebbero certo i loro propri miti, come la Saga dei Nibelunghi, o il Kalevala (poema epico finnico, ispiratore del Silmarillion di Tolkien), o quello dei Cavalieri della Tavola Rotonda, ma essi non sono le narrazioni europee, perché non costituiscono l’identità dell’Europa.

    Ci sono poi delle «narrazioni principe», differenti dalle storie che costituiscono l’identità: esse sono le fonti di immaginazione e punti di riferimento per quasi tutte le storie di identità. Tutti i popoli ne possiedono. Gli Europei hanno, in più, due narrazioni principe condivise: la Bibbia e la storiografia e filosofia greco-romana. Ma nessuna delle due può essere definita un mito.

    La Bibbia ha inventato la storia unilineare in contrasto con quella ciclica. L’Europa non esiste senza la condivisione dell’immagine della storia unilineare. È vero che nella storia unilineare della Bibbia c’è anche la storia della redenzione o la grazia. L’Europa può talvolta (ma non sempre) secolarizzare questa storia, ma di frequente vi fa ritorno nella forma dell’immagine di una storia di redenzione.

    La storia e la filosofia greca e romana sono la seconda più importante narrazione principe. Il modello della repubblica, del senato, della rappresentanza è romano, e romano è pure il sistema legislativo. Il modello della democrazia è greco, e di Atene è il modello di cultura. Già a Roma le persone di cultura parlavano greco ed erano familiari con il dramma e la filosofia greca.

    Machiavelli, lo studioso di politica fiorentino è stato, con ogni probabilità, il primo personaggio rappresentativo dell’Europa. La specificità delle storie europee è, come ho già detto, che sono «fatte dall’uomo», con piena coscienza. Da Machiavelli attraverso Shakespeare i miti come le leggende erano state così tradotte nel linguaggio della storia. Machiavelli interpretò le storie tradizionali in senso razionale. E in effetti le storie europee sono storie razionali, esse sono diventate sempre più storie razionali. Le storie europee sono parte di quel processo che Max Weber descrisse come il «disincantamento del mondo».

    La grande narrazione di Hegel è stata forse la sola storia universale in cui la «reale fiction» europea divenne sintetica. Le grandi narrazioni hegeliane cioè hanno sintetizzato in una singola fiction la realtà economica, politica e culturale. Dal momento che Hegel ha elaborato una grande narrazione, ha potuto evitare il dilemma della irriconciliabilità di storie diverse. Eppure se rifiutiamo le grandi narrazioni, come oggi praticamente tutti noi facciamo, tale irriconciliabilità riemergerà e una qualche selezione sarà necessaria. Noi non possiamo incorporare tutte le autobiografie europee; ma, lo ripeto, se non possono essere incorporate, tutte hanno bisogno di essere ricordate.

     

    Nella pagine seguenti discuterò brevemente, tra le molte autobiografie dell’Europa, tre narrazioni decisive che ne costituiscono l’identità.

    Una è basata sul contrasto tra libero e dispotico; la seconda è basata sul contrasto tra moderno, scientifico, razionale, progressivo da una parte e primitivo, tradizionale, non razionale dall’altra (questo modello è già una sintesi di molte storie); la terza è il modello dell’identità negativa, dove l’Europa è identificata dagli Europei stessi come colonizzatore, aggressore, sfruttatore, rispetto ai colonizzati, vittime, sfruttati.

     

    La storia della libertà vs dispotismo

     

    Comincio con la prima storia perché in effetti è la prima.

    L’Europa, l’Occidente comprende se stesso come il continente della libertà e si mette in relazione di contrasto con tutti gli altri continenti – specialmente con l’Asia, e anche con l’Egitto – come il mondo del dispotismo orientale.

    Questo è lo stereotipo più antico. Lo troviamo già nella «Politica» di Aristotele, là dove egli loda i Greci perché incorporano l’unione di due tradizioni. Secondo Aristotele gli Europei amano la libertà ma sono incolti, mentre gli Asiatici sono civilizzati ma non hanno a cuore la libertà. I Greci invece amano la libertà e sono allo stesso tempo civilizzati. Interessante è che nella presentazione dei Greci da parte di Aristotele, essi non sono considerati pienamente Europei.

    Nello scrivere la storia d’Europa, filosofi diversi attribuiscono importanza diversa a uno o all’altro degli aspetti della storia di Aristotele. Per Castoriadis, ad esempio, la Libertà e la Democrazia sono anzitutto le grandi invenzioni della città-stato greca, mentre per Heidegger lo è il pensiero metafisico, cioè la Filosofia.

    Libertà vs dispotismo rimane una delle storie identitarie fondamentali dell’Europa, benché l’interpretazione della libertà assuma molte varianti, e sia anche diversa da quella della storia romana, per cui Bruto e Cassio rimangono essenzialmente degli eroi, e così pure Cesare. La qual cosa non deve affatto destare meraviglia, dal momento che l’Europa è anche la culla dell’immagine della dittatura liberante fino a Napoleone. Tuttavia le dittature per l’Europa non sono identiche al dispotismo orientale, anche se qualche volta hanno esiti più sanguinari e crudeli. Ancora una volta, l’immagine della differenza diventa differenza reale e viceversa.

    L’Europa, più precisamente l’Occidente, si è sempre considerata come il mondo del pluralismo, mettendo in contrasto l’istituzionalizzazione dell’autorità duale (papa e imperatore) con il cesaropapismo orientale, anche se l’intolleranza religiosa e il fanatismo sono stati altrettanto veementi in Occidente che nell’Oriente. La nobiltà europea si comprese come libera; più ancora, l’eguaglianza libera fu l’idea fondamentale che la contrassegnò. Si costituì il parlamento medievale, istituzionalizzando così tale libertà.

    Con l’emergenza del Protestantesimo – benché in alcuni posti, come ad esempio l’Italia, anche prima – l’estensione della libertà è messa in agenda, e l’interpretazione della libertà acquista un duplice significato. In uno – e questa è l’eredità biblica – significa liberazione, liberazione dalla schiavitù, dalla servitù; nell’altro significa la costituzione delle libertà (civili), seguendo i modelli greco e romano. Entrambi i significati saranno presto interpretati nel senso di libera pratica della propria religione, di libero uso del linguaggio nazionale.

    Dai tempi dell’Illuminismo e specialmente dalla rivoluzione francese, il concetto di Europa o di Occidente si identifica lentamente con l’Europa occidentale. Il «dittatore liberante» Napoleone portò questo messaggio per tutte le nazioni europee. (Pensando all’Italia, cito la ben conosciuta opera «Tosca» di Puccini, dove la vittoria di Napoleone – per il rivoluzionario Cavaradossi – ha avuto il significato di vittoria della libertà.)

    Eppure nelle guerre napoleoniche la storia della liberazione si è già interconnessa con la seconda storia europea: l’Europa non è solo il continente della libertà, la casa degli amanti della libertà, ma anche il ricettacolo di una nuova idea, quella di progresso, che include anche il progresso nelle libertà.

    In nessun altro luogo che in Europa fu formulata, pensata, sviluppata tale idea, che tutti gli uomini sono nati liberi. La frase che tutti gli uomini sono nati liberi e che sono dotati di certi diritti per nascita, proprio da questo tempo gioca un ruolo prioritario nell’autobiografia europea.

    Questo slogan, dal momento in cui fu accettato come patrimonio ideale da una minoranza considerevole, divenne una effettiva «fiction», che trasformò le costituzioni europee e divenne il fondamento di quella americana. Esso diventò effettivo attraverso le tre ondate di emancipazione politica: quella degli Ebrei, del proletariato e delle donne. Tale acquisizione trova così spazio nella dichiarazione delle Nazioni Unite, senza ancora piena realizzazione almeno per il presente.

     

    La storia del progresso vs tradizione

     

    Passo ora brevemente alla seconda storia europea.

    Secondo essa, l’Europa è sviluppata, progressista, razionale e moderna. L’Oriente invece è stagnante, primitivo, tradizionale e irrazionale.

    Ci sono parecchie varianti di questa narrazione, io cercherò solo di semplificarle.

    L’Europa cominciò a identificarsi con tali categorie relativamente tardi.

    In quanto campione del Cattolicesimo, l’Europa si considerò sempre, fin dall’VIII-IX secolo, come il ricettacolo della suprema verità, contro l’Islam e il Cristianesimo ortodosso, per non dire rispetto ai pagani e agli Ebrei. Ma non possiamo associare «la verità eterna» con termini come modernità, sviluppo o progresso. Tuttavia l’auto-immagine rinascimentale dell’Europa includeva già l’idea di progresso, e la modernità era già presente, tanto che la concezione ecumenica del Cristianesimo universale si denominava «devotio moderna». Erasmo, il campione della «devotio moderna» è stato acclamato da Norbert Elias anche come il primo campione del processo di civilizzazione europeo. Questo in effetti è stato un importante punto di svolta, dal momento che fino ad ora l’Oriente rimaneva ancora il modello di alta civilizzazione, e l’Europa si considerava almeno da questo punto di vista inferiore rispetto a Bisanzio e più tardi la Cina.

    Attraverso il lancio del cosiddetto processo di civilizzazione, in simultanea con lo sviluppo delle nuove scienze e non molto dopo la rivoluzione industriale, l’Europa ha lentamente perso gli ultimi rimasugli dei suoi sensi di inferiorità. L’Oriente rimase il passato, e ricevette già da Voltaire la sua collocazione nel passato della cosiddetta storia mondiale. Il commercio dei vasi e dei tessuti cinesi continuò a fiorire, ma questo non ebbe più nulla a che fare con i vecchi sensi di inferiorità. L’Europa ha la ricchezza, il denaro per comprarli, L’Occidente progressista stava sviluppando il capitale, la classe media, le grosse città industriali. L’Occidente si mosse ancora più ad ovest verso le Colonie Unite, che non molto tempo dopo divennero gli Stati Uniti.

    Il progresso nel senso moderno include l’espansione. Ci si può espandere in differenti territori e in differenti maniere, e l’Europa li sperimentò tutti. Le colonie del XIX sec. differirono in maniera essenziale dalle colonie del XVIII sec. La piccola Europa divenne la padrona di quasi tutto il mondo. Essere europei, specialmente europei occidentali, significava in questo tempo anche essere membri della razza bianca che reclamava il diritto di dominare il mondo.

    A questo punto divenne evidente che le due narrazioni europee divennero irriconciliabili.

    Il progresso, nella narrazione europea, dice anche espansione. Ma l’espansione nelle libertà contraddice l’espansione nel dominio o lo potrebbe almeno in questo caso.

    Noi siamo già entrati nell’Europa delle differenti nazioni, l’Europa dei nazionalismi: nazionalismi, come forze sia centripete che centrifughe all’interno degli imperi. La storia tradizionale dell’Europa pluralistica assume la forma di una storia di una grande varietà di nazioni. Una nuova storia è nata, e la vecchia è stata rivista.

    Non c’è più la cultura europea, ci sono varie culture nazionali. Non c’è più la musica europea (come il Gregoriano), non più l’architettura europea (come il romanico o il gotico), non più il linguaggio europeo dei dotti (come il latino). Adesso c’è il romanzo francese e inglese, la musica italiana o tedesca, la filosofia francese, inglese e tedesca.

    Ma ci sono pensatori e autori che resistono al potere della nuova storia e ancora si considerano anzitutto e soprattutto come europei. Per esempio Nietzsche: egli si identificò con la tradizione europea degli «spiriti liberi» contro il nazionalismo, la decadenza e il nichilismo. All’inizio del XX sec. emerse pure un’ondata di cosmopolitanismo. I cosmopolitani, come Romain Rolland, Albert Schweitzer o Stefan Zweig, si compresero come europei. Eppure dopo l’occupazione nazista quando Stefan Zweig fece domanda per un visto inglese, questo gli fu rifiutato. Fu allora che scoprì che l’idea cosmopolitana era «ineffettiva». Egli disse: fin quando ho avuto un passaporto austriaco valido in tasca ero un europeo, nel preciso momento in cui non ne ho uno, divento un rifugiato.

    Tuttavia l’Europa è ancora esistita come tale nella seconda metà del XIX sec. e all’inizio del XX: come l’Europa del sistema aureo, dell’industrializzazione, delle scoperte scientifiche, della democrazia sociale del libero mercato, di un secolo di pace europea.

    Un’Europa di pace fu, in effetti, una nuova storia a quel tempo, benché fosse stata proposta prima, per esempio nello scritto di Kant sulla pace perpetua. L’idea di pace perpetua insieme all’idea di cosmopolitanismo rimase a quel tempo – come abbiamo già constatato dalla storia di Stefan Zweig – un’utopia di buone intenzioni. Ma una nuova utopia, il preambolo di una nuova storia europea.

    Con la prima guerra mondiale, il peccato originale del XX sec. – da cui tutti gli altri mali ebbero origine – pose fine a tutte le speranze utopiche.

    La storia d’Europa nel XX sec. è una storia di continui incubi. L’Europa impazzì. Si mise a scrivere storie di pazzia. Queste storie sembravano interamente nuove, storie di totale discontinuità con tutte le precedenti autobiografie europee.

    Ma questa intepretazione è un’autoillusione: l’Europa impazzì, ma non senza precedenti né senza preliminari. L’idea di progresso e anche l’idea di libertà, iniziò movimenti che non conoscevano limiti. Ci fu un’illusione di grandeur nell’aria. L’Europa impazzì attraverso la sua stessa pratica di oltrepassare tutti i limiti, attraverso il costante e mai finito sradicamento di tradizioni, attraverso la convinzione che l’uomo moderno può inventare qualcosa di completamente nuovo ad ogni momento, che un uomo, un self-made man può rimpiazzare il Messia, seguito da tutti.

    L’illusione di onnipotenza mobilizzata dall’odio contro l’altro e che crea odio omicida contro l’altro, riempì di campi di concentramento e di morte il corpo del continente europeo. Questa fu l’Europa di Auschwitz e dei Gulag. E questa pure è una storia europea, appartiene all’autobiografia dell’Europa. Occorre tenerla nella memoria come una storia premonitrice.

     

    La storia dell’identità negativa

     

    Vengo ora alla terza narrazione rappresentativa europea. È la storia dell’autoidentificazione negativa. L’Europa non racconta una storia della sua superiorità ma una storia della sua inferiorità: in più, dei suoi delitti.

    La terza narrazione fu dapprima creata dagli intellettuali europei, e cioè da coloro che erano considerati come «la coscienza d’Europa», o cercavano di calcare queste orme. Anche se di questa storia ci fu qualche abbozzo precedente, essa prese corpo dopo la seconda guerra mondiale. Sull’onda della decolonizzazione da una parte, e della perdita dell’orgoglio di una «Europa amante della libertà» dall’altra.

    Questa storia ha varie branche.

    Secondo la storia raccontata in una di esse, lo sviluppo della tecnologia, la modernizzazione, persino la democrazia, conduce al nichilismo, alla perdita del pensiero indipendente. Quanto è chiamato progresso è in realtà la manifestazione della decadenza, del declino. Secondo questa branca della terza storia, Auschwitz e i Gulag sono la diretta conseguenza del progresso.

    Secondo un’altra branca, la modernità distrugge le culture tradizionali e offre nient’altro che fame e devastazione. Invece di aumentare la libertà, l’Europa espande gli obblighi derivanti dalla divisione del lavoro e ci rende tutti schiavi.

    Questa nuova terza versione delle storie europee è interessante non tanto perché essa conia una nuova fiction per gli Europei, ma piuttosto perché offre in simultanea la stessa fiction agli «altri».

    In più, gli «altri» usano la fiction europea per creare la loro propria identità, e coniano l’immagine dell’altro come «l’europeo».

    La prefazione di Sartre al libro di Fanon «I dannati della terra» rappresenta in pieno questa fiction.

    Questa storia ha poi diverse sottobranche, proprio come una specie di relativismo culturale, accentuando le differenze rispetto all’universalismo.

    E adesso basta col racconto di storie sulle storie.


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