Salvatore Ricci
(NPG 2013-01-02)
Due in uno o uno in due? No, non si tratta dell’ultima accattivante trovata pubblicitaria, ma semplicemente dell’interrogativo che forse ci poniamo ogni volta che ci confrontiamo con il Vangelo di Marco in cui si narra dell’incontro tra Gesù e uno scriba (cfr. Mc 12,28b-34).
“Qual è il primo di tutti i comandamenti?” chiese lo scriba. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi”.
Per l’ennesima volta, la risposta di Gesù va oltre ogni nostra aspettativa, anche di fronte ad una domanda così precisa, quasi da manuale. E’ una risposta che spiazza e provoca anche noi, non solo lo scriba che probabilmente si era avvicinato unicamente per verificare se il Nazareno era davvero così ferrato in materia.
Ma perché Gesù cita anche il secondo comandamento?
Due comandamenti in uno, oppure uno in due?
Se quel giorno non avessi incontrato Nadina, una donna rumena, probabilmente non avrei esitato a rispondere: «Certo! Uno in due. Il più grande comandamento si scinde in un amore verticale verso l’Alto e in un amore orizzontale verso il prossimo».
Grazie a lei però compresi che forse non è così scontata la risposta, altrimenti l’amore sarebbe come un fiume in piena che travolge sì, ma man mano che si dirama in tanti piccoli torrenti, pur arrivando in più direzioni, perde la sua forza.
Quella domenica mattina, dopo aver dato il benvenuto sul sagrato della Chiesa ai fedeli dell’ultimo minuto, mi voltai per entrare e vidi lei. Non mi ero accorto della presenza silenziosa e discreta di quella donna che a stento si reggeva in piedi e che era appoggiata al grande portone d’ingresso. Chissà da quanto tempo era lì. Prima ancora che l’odore dei suoi vestiti sdruciti e le sue scarpe sporche di fango, ciò che attirava la mia attenzione era la sua mano tremante che con difficoltà riusciva a controllare. Subito mi avvicinai. Quando lei alzò la testa i miei occhi incrociarono i suoi, che quasi si nascondevano dietro a vecchie lenti rigate e scheggiate. Il nostro silenzio era interrotto solo dalle festose campane che mi ricordavano di rientrare per l’inizio della celebrazione. Dovevo affrettarmi perché i fedeli attendevano, ma soprattutto, pensavo, non potevo venir meno al primo dei comandamenti: «il Signore, che amo con tutto il cuore e con tutta la mente e che voglio servire con tutte le forze, mi aspetta!». Ma in quel momento più forte del senso del dovere era il desiderio di incrociare la sua strada, di conoscere la sua storia, la sua identità.
Con voce sommessa, mentre alcune lacrime tracciavano un solco profondo sulle sue impolverate guance, mi chiese se potevo aiutarla ad acquistare un farmaco che ormai non prendeva da giorni e che era indispensabile per tamponare il suo male: il morbo di Parkinson.
Per non allontanarmi dal Tempio del Signore, invece di accompagnarla, per me era più facile ostentare la mia solidarietà, il mio amore verso il prossimo, attraverso una generosa offerta. E mentre io tiravo fuori la mia banconota, lei, nonostante il forte tremore alla mano, cercava nella sua tasca i pochi spiccioli che aveva perché voleva restituirmi tutto quello che era in più rispetto al costo del medicinale. La mia banconota mi sembrava ben poca cosa rispetto a quel mucchietto di monetine, perché in quel momento, attraverso la sua mano infreddolita, tremante e tesa verso di me, percepivo il calore di una carezza da parte di Dio. Il mio donare, in realtà, mi faceva sentire debitore verso quella donna che mi rendeva ricco diversamente. Infatti nell’amare il prossimo sono stato io ad essere amato, ad essere avvolto dall’Amore di Dio che dava un senso al mio gesto e rendeva più autentico il mio desiderio di amare con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze il mio Signore.
Grazie a Nadina che, mentre mi donava quelle monetine poste sul palmo della sua mano, mi ha aiutato a comprendere il senso del “due in uno”: l’amore verso Dio e verso il prossimo non sono torrenti diversi che nascono dalla stessa sorgente, ma due fiumi che con tutta la loro forza, mescolandosi l’uno nell’altro, alimentano lo stesso mare. In quel mare chiamato “amore”, se mi lascio travolge, non ci sono priorità, non ci sono più differenze d’amore perché l’uno illumina l’altro, l’uno genera e rimanda all’altro. Se davvero amo il Signore riesco ad amare anche il prossimo e nell’amare il prossimo faccio esperienza dell’Amore di Dio, che quando mi raggiunge mi conduce verso gli altri. L’uno è la sorgente dell’altro… siamo capaci di amare perché siamo amati.
Non ho mai più incontrato Nadina. Non so se è riuscita a ritornare al suo paese e se ha potuto riabbracciare i suoi figli. Forse qualcun altro l’ha incontrata e qualcuno forse l’ha ignorata, non immaginando minimamente quale tesoro custodisce quella mano tremante… una carezza di Dio.