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    Conversazione con Elmar Salmann

    "Se sapessimo riscoprire i tanti motivi teologici presenti nell'universo immenso dei romanzi moderni, il cristianesimo si riscoprirebbe rinfrescato, ringiovanito, non ridotto a dogma o a morale, ma si trasformerebbe in un motivo quasi musicale, in una possibilità o in un'impossibilità feconda. Tutti i motivi della teologia ci verrebbero incontro in una nuova luce. E si potrebbe risvegliare in noi una gioia profonda per il retro terra immenso che anche la cultura moderna deve ai motivi cristiani" (La teologia è un romanzo. Un approccio dialettico a questioni cruciali, Paoline, 2000).
    Nella sua auto-presentazione, Elmar Salmann si muove volentieri su una trama letteraria. Indica come suoi autori ispiratori i connazionali Thomas Mann e Heinrich Böll, autore quest'ultimo di Opinioni di un clown. Hans Schnier, il personaggio creato da Böll, è un clown che non diverte più, è un uomo disperato. Un clown saggio, simbolo di una rinascita esistenziale basata sulla lucidità e su una modalità sapienziale di vita. È l'immagine che Salmann sente più in sintonia con il proprio modo di essere, tanto da definirsi un "clown benedicente". Italo Svevo lo coinvolge con il "paziente" Zeno Cosini nella dimensione della psicanalisi. "Sigmund Freud - afferma Salmann - ha inventato un metodo terapeutico centrato sul «dialogo», confrontandosi con realtà che spesso non riusciamo nemmeno a confessare a noi stessi. I preti non hanno mai affrontato questa dimensione della vita umana. I mistici, come Giovanni dalla Croce, invece, lo hanno fatto". Elmar Salmann è un benedettino. Per molti anni è stato cappellano in due manicomi. Il primo ospitava donne e il secondo, sacerdoti. In questo senso ha avuto modo di conoscere molte persone, donne e uomini che si trovavano al limite, tra l'esigenza dell'intervento dello psicologo e quello del prete.

    I cambiamenti in atto nella nostra società stanno influenzando anche la Chiesa e il cristianesimo. Possiamo dare i contorni di questi mutamenti?
    Ci vorrebbero tanti approcci per capire un tempo di passaggio come il nostro, tra il Vaticano II e l'oggi. Tutto è cambiato in questi cinquant'anni: il ruolo dell'Europa, il ruolo della donna; abbiamo per la prima volta una società del benessere e non dell'uopo; abbiamo assistito anche ad una trasformazione nella visione della sessualità, della famiglia, dello sviluppo delle persone. Tutto questo è, al di là di ogni valutazione morale o ecclesiale, qualcosa che avviene, che ci attraversa e che dobbiamo imparare a gestire in modo oculato. Più profondamente i parametri filosofici e i presupposti della visione del mondo cristiano europeo sono stati scombussolati e hanno cambiato veste e colore. Abbiamo vissuto con un platonismo popolare, il netto primato dell'uno sul molteplice, della ragione sui sentimenti, della volontà sulla sensibilità, dello spirito sul corpo. Tutto questo è cambiato. Si è rovesciato. Abbiamo il pathos della sensibilità, della corporeità, della grande salute, avrebbe detto Nietzsche. E questo ha portato la gente ad occuparsi della vita in modo diverso. Noi cattolici non abbiamo trovato né un linguaggio, né una liturgia per ovviare a questi bisogni e a queste prospettive. Questo non è un rimprovero alla Chiesa, perché tali terremoti richiedono una lunga rielaborazione e ristrutturazione dell'impianto istituzionale e, soprattutto, delle disposizioni dell'anima.

    Le altre religioni cristiane, le chiese riformate: anch'esse si trovano nella medesima situazione?
    Stranamente sì. Di per sé i protestanti avrebbero le carte in regola. Loro vivono tutto ciò che i nostri liberali rivendicano. Eppure sono legati ad un forte agostinismo, alla dialettica fra peccato, grazia, giustificazione e redenzione. Tutti temi obsoleti nell'impianto psicologico del nostro oggi. Per questo anche loro fanno grandissima fatica a riorganizzarsi. Anzi, stiamo paradossalmente meglio noi, perché rispettiamo una legge che spesso si dimentica: la lentezza dei percorsi dell'anima. La nostra intelligenza e i nostri nervi sono attuali, sempre pronti a saltare. Mentre l'anima è un fondista. Vive in altri tempi, con altri ritmi. La Chiesa cattolica custodisce meglio, accompagna e sottende meglio questo ritmo ancestrale e atavico dell'anima. In questo i protestanti sono più moderni, ma meno vicini ai bisogni della psiche umana.

    C'è, dunque, la necessità in un adeguamento in termini di linguaggio e di proposta. Qual è il rapporto tra innovazione e tradizione?
    Da un lato auspicherei di usare la parola tradizione non al singolare. Abbiamo tantissime tradizioni di pietà, di teologia, di stili di vita ecclesiale e cristiana. E una profonda, vasta e viscerale conoscenza di queste tradizioni potrebbe portarci ad un maggior confronto, coraggioso e spigliato, con ciò che si evolve al momento. Più uno ha le spalle coperte, più potrebbe essere avventuroso nello sporgersi fuori dalla finestra.

    L'immagine della Chiesa è spesso molto monolitica. Vede segnali di questo cambiamento? Ci sono ricettori in grado di affrontare questa necessità di cambiamento?
    Da un lato direi che la storia si scava il suo alveo attraverso le evoluzioni delle società e dello stile di vita, della mentalità e della psicologia umana. lo cerco di accompagnare con un minimo di intelligenza queste mutazioni, cogliendone le modulazioni storiche. Perché quasi tutto nella vita succede e avviene in modo semiconscio. Alcuni grandi sanno cogliere le sequenze di quel tale sviluppo che sembrava avviluppato. Stranamente è stato il papa Giovanni Paolo II che, forse spesso contro la sua stessa ideologia, ha emesso segnali profetici con il linguaggio del suo corpo, della sua irradiazione e dei suoi gesti: pregare assieme alle altre religioni, viaggiare a Gerusalemme, nel modo come lo ha fatto, e tante altre forme di presenza inaudita e inedita, molto spesso anche accompagnato da un forte arricciarsi del nasino da parte della curia. Il cardinale Martini, con molti dei suoi discorsi, e, soprattutto, con la sua chiara visione di un cristianesimo minoritario, ma qualificante, ha lottato per un cristianesimo e per una Chiesa che non si riducessero ad una setta, ad una denominazione, ma si aprissero ad una presenza profeticamente e culturalmente qualificante. Mi sembra che questa sia una strada da seguire come lo fanno anche alcune Comunità di base e tantissimi cristiani su tanti fronti.

    Quali potrebbero essere alcune forme concrete e pratiche in grado di tradurre questa necessità di cambiamento?
    Forse un punto di partenza potrebbe essere la cura delle anime messa in moto e attuata dallo stesso Gesù. Egli si è aperto con grande disinvoltura alla gente che non rientrava nel mondo della religione. In Germania, soprattutto nella Germania orientale abbiamo una società quasi integralmente atea. La quota di battezzati è pari al 16-18%. Lì abbiamo sviluppato dei modelli di apertura, di riti per non battezzati, di accompagnamento psicologico e biografico, di gesti significativi che lasciano il recinto della Chiesa e danno un maggiore spessore ad una presenza anonima della benedizione divina. Al momento, per incominciare e incastonare la vita abbiamo in fondo soltanto i sacramenti che hanno tutti una forte connotazione giuridica, mentre l'uomo di oggi è più personalizzato più biografico, individuale. Prenderei anche sul serio tante forme di esperienza e di trascendenza minore. In Germania la gente crede più negli angeli che non in Dio. Sono inversioni della storia che dovremmo cogliere, mentre noi teologi spesso snobbiamo questi temi un po' popolari. Mi pare dovremmo essere più umili in queste cose. Cercare di sviluppare riti e forme di accompagnamento e di accoglienza. Teologumeni e temi teologici che corrisponderebbero all'istinto primordiale (non primitivo) della cultura di oggi.

    La filosofa Julia Kristeva nel suo libro Il rischio di pensare afferma che "la situazione attuale oscilla tra due tendenze: da una parte c'è il nichilismo che dice nulla è sacro e dall'altra questa voglia di ritorno al religioso, che spesso le religioni racchiudono in dogmi. Tra questi due abissi la via è stretta e la soluzione sarebbe conservare il bisogno di senso senza però intrappolarli in istituzioni o in assoluti". Questo vuol dire la crisi delle religioni?
    No. Sarebbe trasformare i dogmi cristiani in motivi. Amo molto la parola motivo: motivo artistico della pittura, della musica. Ma anche motivo motivante che dia una spinta alla volontà e uno stimolo alla visione del mondo. Secondo me sarebbe necessario un approccio "estetico", non moralistico, non dogmatico, a mo' di un viaggio di esplorazione e di scoperta. Di annusamento, di allargamento e di approfondimento della sensibilità religiosa e artistica. Proporre i misteri cristiani in questo modo potrebbe essere di grande aiuto. Lo faccio nelle mie prediche e soprattutto in tanti colloqui con gente che oscilla tra agnosticismo e vago interesse esoticogioso. Introdurre queste persone in un paesaggio. Destare uno stupore: presentare il Dio trinitario, un Dio che non sia monolitico, ma multiprospettico. Cosa significa una parola come grazia? Lì abbiamo tutte le connotazioni della musicalità cristiana che noi dovremmo far risuonare e per questo amo parlare di motivi cristiani e di paesaggi che dovremmo presentare: anche la morale cristiana di per sé non è proibitiva, né inibitiva. Né imposta. Ma invitante. Compiacersi della crescita altrui, della mia e della tua crescita: questo è il gesto divino della creazione e mi pare anche la forma di presenza gesuanica. Questo è il fondamento della morale cristiana, un fondamento incoraggiante, rassicurante, promovente e non inibitorio. Per tutto questo dovremmo sviluppare un altro linguaggio ma, soprattutto, un'altra tonalità. Perché il tono ecclesiale è spesso piagnucoloso e aggressivo e non aiuta nessuno. È dogmatico, vuole imporre ancora dove non c'è più nulla da perdere. Secondo me questa trasformazione della tonalità e della musicalità nel proporre il cristianesimo è la vera ascesi e mistica che ci aspetta.

    I tempi di questa trasformazione della tonalità sono maturi?
    Ci sono tanti spunti. Ma la normalità è ancora molto indietro. Questo vale soprattutto per un altro campo, la liturgia. La nostra liturgia parrocchiale media è improponibile al 90% delle persone di oggi e per questo la quota di partecipazione alle liturgie in Europa si aggira tra i 3 e il 15%. Abbiamo perso la nostra clientela. E questo la dice lunga sul modo di smaltire la nostra merce. Entrando nel culto di una chiesa parrocchiale italiana significa imbattersi in un degrado estetico di tonalità, di uso del microfono, di musica, di gestualità. Un uomo colto quasi non può entrare. Ma in fondo lede la sensibilità religiosa che cerca un po' di silenzio, di spazio, di respiro, di discrezione, di apertura, di nuovi spiragli, di poter respirare e imparare di nuovo a pregare. Tutto questo non avviene nel nostro culto. Uno dei compiti più impellenti del presente e del futuro prossimo è di sviluppare nuove forme di liturgia. Differenziare i modi di celebrare l'eucaristia, introducendo una messa molto elementare per i giorni feriali, dove c'è molta quiete, anche per i preti. Altre messe più comunicative, quasi da agape, o messe più meditative e adorative. Solenni. Diversi stili di celebrare l'eucaristia e di dar voce ai vari bisogni religiosi. E anche alle diverse forme della presenza divina. Lo stesso vale per le forme non eucaristiche della liturgia. Lì abbiamo perso quasi tutto. Abbiamo la monocultura della forma culminante. Abbiamo una vetta senza piedi e la montagna sotto. E questo non può andare bene. Anche liturgie che potrebbero essere gestite da laici, per ovviare ad un clericalismo dilagante, quasi aumentato dopo il Concilio. In modo paradossale.

    Lei ha indicato delle necessità di cambiamento nel campo della dogmatica, della morale, della liturgia, della pastorale. Sembra di trovarsi di fronte ad un cambiamento radicale e molto profondo, non un semplice passaggio d'epoca come tanti. Siamo davanti ad un crisi profonda?
    Preferisco alla parola crisi quella di passaggio. Di un varco precario, avventuroso. Con il rischio di mancare all'appello o di sbagliare strada. Ovviamente corriamo questi rischi. Anche se una Chiesa grande come la nostra conosce tante realtà, alcune che retrocedono, altre che avanzano. Sono abbastanza fiducioso. La nostra Chiesa non è un blocco monolitico: in realtà fra una Comunità di base in America Latina e un parroco milanese ci corrono mondi. Anche nella nostra stessa anima c'è una coabitazione di diversi mondi. Ognuno di noi è parecchi personaggi e guarda anche lo sviluppo della religiosità, come tante altre cose, con diversi occhi. Siamo quasi strabici e viviamo una vita "stereo". Il passaggio e la mutazione sono davvero fortissimi senza voler paragonare questi alla crisi della riforma oppure a quella del periodo napoleonico. Come ogni grande sviluppo storico questo momento è unico e non si lascia paragonare con altre forme di crisi. Adesso siamo in una fase di passaggio, un laboratorio sul livello di intimità della religione (come viverla), di ritualità (come rappresentarla), di forma sociale (come condividerla). Il sistema parrocchiale, ad esempio, in molti ambiti europei sta per scricchiolare. E abbiamo anche una crisi di identità europea e romana, perché gli altri continenti adesso stanno rivendicando il loro diritto di reinterpretare il cristianesimo a partire dai loro parametri culturali. È questa è una sfida che io vivo quotidianamente a Roma, dove dobbiamo convivere con tutte queste tradizioni e mentalità. Tutti questi passaggi si rispecchiano anche nella liturgia e nella forma di pregare, uno dei percorsi più intimi e delicati della persona umana. Se mettiamo tutto questo assieme, possiamo davvero parlare di un passaggio avventuroso.

    Quando parlava di tempi ipotizzabili per questi cambiamenti accennava a cinquanta, cento anni. Sono queste le dimensioni temporali di riferimento?
    Essendo io benedettino e avendo una storia di 1500 anni alle spalle ho assistito a tante trasformazioni nella nostra storia e ho presente tante trasformazioni dello stile e delle forme di essere benedettini che convivono nel nostro ordine. Attualmente sono abbastanza fiducioso ma non mi spingo troppo avanti. Tra il coraggio di intraprendere ciò che ritengo necessario e utile per il momento (non mettersi in disparte) e la pazienza dell'essere consapevole che i tempi psicologici sono abbastanza lunghi, vorrei proporre un atteggiamento duplice nei confronti del tempo. Fare il necessario adesso con tutta la fantasia del possibile e avere una pazienza cosciente che questi processi hanno bisogno di tempi immemorabili. Anche tenendo conto che i diversi tempi convivono in noi. La Chiesa ha anche il compito di tutelare la sincronicità di questi diversi temi melodici che dobbiamo sempre riconfigurare e ricomporre come una grande fuga.

    Cos’è il relativismo cristiano?
    Il cristianesimo di per sé è uno dei grandi fautori, se non inventori, della categoria della relazione e della sua supremazia su quella della sostanza. A partire da Agostino abbiamo imparato a pensare Dio come rete di relazioni e di prospettive incommensurabili. Il nostro Dio non è monolitico, non è un poliziotto dietro alla luna, né un osservatore romano, ma un Dio multiprospettico. Lo stesso vale per le due nature di Cristo. Che sono due relazioni costitutive. Cristo è costitutivamente e consapevolmente relazionato a Dio e agli uomini. È un essere bifronte. Lo stesso vale per la grazia che non si lascia sostanzializzare e per la concezione della creazione. Pensare il mondo come creazione significa pensarlo come relatività assoluta. Si deve totalmente a qualcun altro e si apre a lui e per questo la relatività, la indifferenza per la differenza fa parte del pathos, dell'ethos e della visione ontologica del cristianesimo. Ovviamente c'è anche un relativismo crudo e sciatto che va lievemente ironizzato perché pecca contro la vita, ma non farei tanto trambusto attorno a questo: semplicemente lo criticherei a partire da questa visione più accogliente e invitante del cristianesimo.

    Giorgio Pilastro (a cura di). Per un cristianesmi adulto. Testimonianze di un itinerario possibile, Abiblio, Triste 2009, pp.153-160.


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