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    Dal giubileo ebraico al giubileo cristiano



    Carmine Di Sante

    NPG (2000-04-09)


    Qual è il senso del Giubileo e del tempo giubilare? Prima di entrare nel vivo del tema, presentando il significato biblico del giubileo, pongo alcune premesse. La prima premessa è la constatazione che il giubileo è una iniziativa che sta coinvolgendo molte componenti della società italiana e internazionale, ai livelli più diversi. Per questo il rischio di perderne il filo conduttore è grande; occorre dunque uno sforzo per ritrovare, in questa macchina che si è messa in moto, il significato fondamentale, l’essenza del giubileo.
    La seconda premessa è una citazione di Galimberti: «Il mondo cambia non quando cambia il mondo, ma quando cambia il nostro sguardo sul mondo». Credo che il significato di questa espressione sia affermare la priorità del soggettivo sull’oggettivo. L’oggettivo è certamente importante, esso va cambiato, ma il principio per poterlo modificare è il soggetto. Per usare una immagine di Martin Buber, il punto di Archimede per potere cambiare, modificare ciò che appartiene all’ordine oggettivo, cioè il mondo con le sue strutture e istituzioni, è sempre e solo il soggettivo. «Soggetto» è ognuno di noi preso nella sua singolarità. La mia riflessione sul giubileo presuppone questa attenzione al soggetto.
    Cercherò di mostrare il senso del giubileo alla luce delle Scritture, e successivamente proporrò una riflessione a livello teologico sul significato del giubileo stesso.

    IL TESTO DI LEVITICO 25

    Fondamentalmente è soltanto il libro del Levitico al cap. 25 a rispondere alla domanda su cosa sia il giubileo.
    Ci sono anche altri brani, su cui gli esegeti discutono, che possono aiutare per comprendere il significato del giubileo, per esempio in Isaia 61,1-3, in Geremia 34,8-22, in Neemia 10,32, in Ezechiele 46,17, oppure nel Nuovo Testamento. Secondo alcuni esegeti, quando Gesù entra nella Sinagoga di Nazaret e applica a sé le parole di Isaia «lo Spirito del Signore è su di me» (Lc 4, 16-21), quasi sicuramente c’è un riferimento al tempo giubilare. Prescindiamo, in questo contesto, da questi testi secondari per analizzare il testo fondamentale di Lv 25.
    Questo capitolo si può definire uno scrigno testuale, o un ricamo. È un capitolo ampio costituito da più di cinquanta versetti, costruito di fili delicatissimi che si perdono nella notte dei tempi.
    La redazione finale, con molta probabilità, risale già all’epoca pre-esilica, nel VI sec. a.C.
    In esso c’è tutto quello che è importante per capire il significato del giubileo.

    Il contesto: lo shabat

    Innanzi tutto il testo ci fornisce un elemento fondamentale per la sua corretta interpretazione, riferendosi al contesto del giubileo, cioè il sabato. Il termine ebraico shabat, sabato, è una parola «magica» della tradizione ebraica e dell’ebraismo. È pure noto che l’ebraismo ritmava il tempo secondo il numero 7, non secondo il numero 10, che entrerà tardivamente nella tradizione occidentale. Il discorso giubilare è dunque dentro il contesto sabbatico. Prima si parla dell’istituzione del sabato, dopo di quella dell’anno sabbatico, che è chiamato shabat shabaton, il sabato dei sabati (si potrebbe dire un «sabatissimo») e poi dell’anno giubilare, che si potrebbe dire, giocando con il linguaggio delle metafore, un «supersabatissimo».
    Per capire dunque il significato profondo del tempo giubilare bisogna capire il significato del sabato. Il tempo giubilare non fa altro che ritrascrivere nell’arco dei cinquant’anni quella teologia e quella spiritualità che è già tutta iscritta nel tempo sabbatico, nella settimana. Nell’ebraismo si ama dire che non sono stati gli ebrei a salvare il sabato, ma è stato il sabato a salvare gli ebrei. Il sabato nell’ebraismo costituisce l’interruzione di tutte le attività progettuali dell’uomo, vale a dire di tutte quelle attività di cui l’uomo è soggetto protagonista, iniziatore e ideatore. Si deve sospendere la progettualità umana per mettere nell’animo e nella coscienza di Israele, che rappresenta tutta l’umanità (con lo stesso movimento simbolico teologico con cui la Chiesa rappresenta l’umanità), che il progettuale non è la dimensione ultima e costitutiva dell’esser uomini e donne, che si vive non in forza di ciò che noi progettiamo, ma in forza di un extra che è al di là del progetto. Ciò è di una profondità inaudita e forse è anche l’intuizione originaria di tutte le religioni, in modo particolare della religione ebraico-cristiana. Se non si coglie questo aspetto del sabato e se non si inserisce l’anno giubilare dentro questo contesto teologico dello shabat, si perde il significato originario profondo del giubileo.

    La modalità celebrativa

    Il testo levitico precisa anche la modalità celebrativa del tempo giubilare: con il suono dello shofar, che in ebraico vuol dire «corno» (dal sostantivo ebraico yobel, ariete o stambecco, derivano i termini «giubileo», «giubilare»). Gli ebrei usavano il suono dello shofar per indire delle riunioni, delle assemblee o i grandi eventi salvifici, come per esempio il dono della Torah; in questo caso l’evento giubilare, che si celebrava ogni sette settimane di anni, cioè al quarantanovesimo anno.
    L’aspetto celebrativo è l’aspetto più secondario, che rammentiamo solo per capire come si arriva al termine, su cui peraltro vi sono diverse opinioni, anche se la più probabile è quella esposta.

    In cosa consiste il giubileo?

    In che cosa consista il giubileo viene detto nel v. 10. Il parlante è Mosè, ma egli parla in nome del Signore, che è il soggetto di tutto il lungo capitolo: «Proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti». Il giubileo consiste nel proclamare, al termine del quarantanovesimo anno, la liberazione nel paese di tutti i suoi abitanti. Alcune osservazioni su questo versetto.
    * Innanzi tutto abbiamo a che fare con un imperativo: «proclamerete». Anche se in italiano la formulazione è un futuro, si tratta di un futuro imperativo. Stando a tutto il contesto, è un imperativo apodittico, cioè un imperativo incondizionato. Non si dice infatti che «lo farete se è possibile».
    * Leggendo tutto il testo, emerge un’altra cosa interessante: che a volte è formulato in forma plurale («voi proclamerete»), altre volte in formulazione personale («tu proclamerai»). Il racconto del Levitico oscilla continuamente dalla formulazione al plurale «voi» alla formulazione singolare «tu». Perché questo passaggio, che di per sé non è coerente? Secondo alcuni studiosi il testo sarebbe il frutto di diverse tradizioni, in cui si ritrovano queste diverse cuciture. Questo è probabile, ma i maestri dell’ebraismo fanno notare che questo passaggio dal «voi» al «tu» e dal «tu» al «voi» è intenzionale. Ogni processo di liberazione, infatti, prima che riguardare il collettivo, il «voi», può e deve riguardare il «tu». In ogni modo è sorprendente per noi, che ci aspettiamo sempre la liberazione dagli altri, che sia interpellato un «tu».
    La concezione ebraica esprime il convincimento che al centro c’è sempre il «tu», e Dio può sempre e solo parlare ad un «tu». Questo vale per ogni discorso umano: la parola è quello strumento mirabile che accade soltanto tra un «tu» e un altro «tu». La parola non conosce il collettivo se non in modo secondario; il collettivo è come un coro, è l’insieme delle singolarità.
    * Che cosa è questa «liberazione» che bisogna proclamare? Il termine ebraico utilizzato nel Levitico è deror, che i Settanta traducono con aphesis, e la Vulgata con remissio. Quando Gesù nell’ultima cena istituisce il memoriale della sua morte e risurrezione utilizza questo termine remissio, aphesis, deror.
    C’è un profondo filo di collegamento con il tempo giubilare, con la «remissio». Il giubileo consiste nel proclamare alla lettera la «remissione», cioè etimologicamente il rimettere al posto giusto ciò che è fuori posto. Proclamare la liberazione, la remissione, vuol dire rimettere il mondo al posto giusto.
    Il racconto biblico parte dal convincimento che il mondo è «fuori posto». Nel mondo, poi, sono fuori posto soprattutto i suoi abitatori, gli esseri umani, che perciò, nel senso etimologico, sono «spostati», si collocano in un comportamento che non rientra nell’ordo, che è ciò come dovrebbe essere.
    Rimettere il mondo al posto giusto non significa però annunciare una verità astratta, una bella idea a cui aderire o di cui semplicemente rallegrarsi. Questo fa parte di una filosofia, mentre proclamare la liberazione appartiene all’ordine prescrittivo, ci dice qualche cosa da fare.
    Il testo del Levitico non si limita però solo ad una affermazione di principio: la traduce subito in contenuti concreti, in una norma, diversamente diventerebbe ideologia. Sono quattro indicazioni operative (che si muovono sempre al livello imperativo) perché il mondo «spostato» torni ad essere ordinato, buono e felice così come Dio l’aveva sognato nel primo mattino della creazione.
    * La prima cosa da fare è detta nei vv.11-12:
    «Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo; esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi».
    In concreto questo significa che durante l’anno giubilare non si lavoravano le terre e non si potevano quindi raccogliere i prodotti della terra se non quei prodotti che nascevano spontaneamente e che erano lasciati soprattutto ai poveri e agli animali.
    Il primo imperativo è dunque il riposo della terra, e può essere riespresso nei termini di interruzione del possesso tra Israele e la terra. Non si tratta dunque di una concezione ecologista contemplativa, né affermare il diritto al riposo della terra personificata. È affermare la «impossedibilità» della terra: la terra non può essere posseduta, per cui non può essere lavorata. Celebrare il giubileo significava, per Israele, riportare al centro della propria coscienza il principio di impossedibilità della terra. Da questo imperativo dipendono anche gli altri tre che il testo del Levitico suggerisce come ulteriore esemplificazione delle cose concrete da fare.
    * Secondo imperativo è la remissione dei debiti, imperativo che si trova soprattutto nel v. 13: «In quest’anno del giubileo, ciascuno tornerà in possesso del suo». Quindi avveniva che durante l’anno giubilare chi aveva dei debiti e aveva avuto i suoi beni pignorati ne tornava in possesso. Questo imperativo concreto istituisce l’interruzione del processo di impoverimento dei poveri. Nell’ebraismo poi ci sarà una festa particolare, quella di sukkot, delle «capanne», dove questa idea viene ripresa attraverso la metafora della capanna che ogni ebreo si costruisce sul davanzale della casa per dire della consapevolezza della provvisorietà della nostra vita, per cui non si possono possedere le cose e non ci si può attaccare a niente.
    * Terzo imperativo pratico è la restituzione agli antichi proprietari di terreni o case. I versetti in cui vengono fissati questi dati concreti sono i vv. 24-28:
    «Perciò, in tutto il paese che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per quanto riguarda il suolo. Se il tuo fratello, divenuto povero, vende una parte della sua proprietà, colui che ha il diritto di riscatto, cioè il suo parente più stretto, verrà e riscatterà ciò che il fratello ha venduto. Se uno non ha chi possa fare il riscatto, ma giunge a procurarsi da sé la somma necessaria al riscatto, conterà le annate passate dopo la vendita, restituirà al compratore il valore degli anni che ancora rimangono e rientrerà così in possesso del suo patrimonio. Ma se non trova da sé la somma sufficiente a rimborsarlo, ciò che ha venduto rimarrà in mano al compratore fino all’anno del giubileo; al giubileo il compratore uscirà e l’altro rientrerà in possesso del suo patrimonio».
    Questo imperativo aggiunge al precedente l’interruzione del processo di capitalizzazione e l’instaurazione dell’equilibrio sociale. Quindi da una parte le normative giubilari interrompono il processo di indebitamento, per cui chi è povero diventa sempre più povero, dall’altra interrompe il processo di capitalizzazione per cui chi è più ricco diventa sempre più ricco. Interrompendo il processo di capitalizzazione si reinstaura il riequilibrio sociale. Per esempio nei vv. 35-38 ci sono queste bellissime parole che hanno una sconvolgente attualità:
    «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è privo di mezzi, aiutalo, come un forestiero e inquilino, perché possa vivere presso di te. Non prendere da lui interessi, né utili; ma temi il tuo Dio e fa’ vivere il tuo fratello presso di te. Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura. Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto, per darvi il paese di Canaan, per essere il vostro Dio».
    La ragione per cui bisogna agire in questo modo è perché Dio è il liberatore e perché Dio ha agito in questo modo con Israele.
    * L’ultimo imperativo che riguarda la liberazione degli schiavi (non soltanto condonare i debiti, restituire le proprietà, ma liberare gli schiavi) è nei vv. 39-42:
    «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te, non farlo lavorare come schiavo; sia presso di te come un bracciante, come un inquilino. Ti serviranno all’anno del giubileo; allora se ne andrà, da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri. Poiché essi sono miei servi, che io ho fatto uscire dal paese d’Egitto; non debbono essere venduti come si vendono gli schiavi».
    Quest’ultimo imperativo introduce la novità dell’interruzione del processo di alienazione e disumanizzazione ultima, quella cioè di vendere se stessi riducendosi a schiavitù... Potrebbe sembrare tipico delle società antiche e lontano da noi, ma molti fatti concreti di oggi ne dicono la sconvolgente attualità. Questi quattro imperativi sono uniti da una linea profonda: il comandamento di far riposare la terra istituisce la dimensione della gratuità, Dio è il proprietario; là dove si instaura il meccanismo del possesso si instaura il meccanismo dell’indebitamento e della capitalizzazione, la cui ultima dimensione è la schiavizzazione. Si capisce che appropriazione, indebitamento, capitalizzazione, disumanizzazione sono realtà inscindibili, profondamente legate. Allora ricollocare il mondo al posto giusto, risistemarlo, è spezzare questa catena di alienazione, di cui il testo del Levitico disegna questi quattro momenti costitutivi: l’appropriazione da cui nasce l’indebitamento, la capitalizzazione e l’alienazione di sé.

    Perché «la terra è mia»

    Quale la motivazione profonda degli imperativi? È questa motivazione che determina l’originalità del messaggio biblico rispetto ad altri contesti religiosi e culturali. Tutte le società hanno bisogno di riequilibrarsi e azzerare le differenze, perché altrimenti prima o poi collassano e si producono forme di violenza inaudita. Queste affermazioni si trovano in codici antichi estranei alla cultura biblica. Dunque da questo punto di vista la Bibbia non costituisce ancora una realtà originale. L’originalità del racconto biblico è espressa nel v. 23, dove l’autore dice perché far riposare la terra, condonare i debiti, restituire le proprietà e rimandare liberi gli schiavi:
    «Perché – è sempre Dio che parla – la terra è mia e voi siete in essa come forestieri e inquilini».
    Qui se ne dà la ragione fondativa. Ma questo versetto è quello che ha subito il maggiore equivoco interpretativo; è il versetto più mal compreso dalla tradizione occidentale e cristiana. La tematica dell’essere nel mondo «forestieri e pellegrini», dell’uomo «pellegrino nel mondo» è la grande tematica del romanticismo, ed è anche dentro il nostro immaginario e il nostro inconscio. Secondo l’accezione comune, noi siamo pellegrini nel mondo perché esso non è la nostra vera patria, che è altrove.
    L’esempio più utilizzato è quello dell’uomo viandante, dell’uomo pellegrino, che cammina verso l’alto, si siede ma poi deve riprendere il cammino perché la sua vera meta è altrove, è al di là. Questo mondo non gli basta, perché la sua vera patria è altrove, è il cielo. Questa interpretazione già si afferma con Filone di Alessandria e poi entrerà nell’Occidente e diventerà l’interpretazione egemone. Dobbiamo accoglierne un’altra suggeritaci dal significato dei due termini costitutivi della ragione fondativa del v. 23. Dio è l’«ospitante» e gli uomini sono gli «ospiti». La terra è mia e voi siete ospiti nel mondo: l’unico modo dell’essere dell’uomo nel mondo è l’essere nel mondo come ospiti.
    L’ospite si caratterizza dall’essere in un contesto dove non può dire «mio». Essere ospiti è negare il «mio». Bisogna far riposare la terra, condonare i debiti... perché siamo ospiti. L’essere ospite è l’azzeramento di tutte le differenze, perché l’essere invitati e avere lo statuto di ospite azzera tutte le gerarchie e le sperequazioni. In definitiva, per il testo biblico il tempo giubilare è l’istituzione di una concezione del tempo e di una soggettività che si vive dentro questa dimensione di ospitalità. Se non si coglie questo aspetto del tempo giubilare ci sfugge il segreto e la grande provocazione che contiene.

    UNA LETTURA TEOLOGICA DEL GIUBILEO

    1. Riformulo il significato di questa visione biblica del giubileo attraverso la categoria della gratuità o grazia, che forse è il termine più bello della tradizione cristiana. Il giubileo istituisce un mondo come mondo di grazia o mondo di gratuità. Il racconto del Levitico mira ad istituire uno spazio antropologico che è quello del gratuito o lo spazio della grazia. Ma cosa vuol dire gratuito? Preferisco in questo contesto il temine gratuità al termine grazia, anche se nella lingua italiana esso è generalmente conosciuto in due contesti non proprio illuminanti, come quando si dice «assistenza gratuita» (che vuol dire dove non si paga e dove le cose sono molto scadenti) o quando parliamo di «violenza gratuita». Ma c’è un’altra accezione che ricorre, per esempio quando si parla di «beni gratuiti», per esprimere tutte quelle attività o quei beni che sono fine in sé e non sono strumento per il raggiungimento di altre cose (per esempio chi ama la danza lo fa per la piacevolezza della danza: è una «attività gratuita»). Propongo di intendere il termine gratuito innanzi tutto come ciò che non appartiene all’ordine della necessità, ma all’ordine dell’evento. Perché si abbia veramente la grazia, o la gratuità, bisogna entrare nell’ordine dell’evento. L’evento è tutto ciò che sfugge all’ordine del nostro progetto, delle nostre ideazioni, dei nostri desideri, delle nostre volontà progettanti. L’extraprogettuale è ciò che ti accade, che entra negli interstizi della progettualità e la mette in discussione. Affermare che il giubileo apre un mondo di gratuità o di grazia vuol dire aprirsi a questa esperienza dell’evento, quel qualcosa che è al di là della nostra ideazione e progettualità e soprattutto dei nostri desideri. Noi siamo macchine desideranti, ma dentro una macchina desiderante non c’è posto per la grazia, per la gratuità, per l’evento.
    Ma c’è anche l’evento negativo, come l’incidente. Ecco allora un altro elemento ancora più fondamentale per capire la grazia nella Bibbia. Il gratuito è ciò che appartiene all’evento e alla relazione interpersonale. Ciò che accade tra un io e un altro io, tra un tu e un altro tu, tra Dio e l’uomo e tra un uomo e l’altro. In maniera ancora più radicale, perché ci sia evento di gratuità o di grazia, non soltanto deve esserci il rapporto relazionale, ma deve esserci l’al di là del merito e del demerito, l’interruzione del do ut des. Si pensi alla parabola, forse la più sconvolgente dell’Evangelo, del datore di lavoro che paga allo stesso modo quelli che hanno lavorato dieci ore rispetto a quelli che hanno lavorato soltanto un’ora (Mt 20, 116). Questo racconto evangelico dischiude la rottura del do ut des, la messa in discussione della logica commutativa e l’evento del gratuito. Il comportamento del datore di lavoro della parabola apre un altro spazio, che è lo spazio della bontà, della benevolenza. Ma cosa sono la bontà e la benevolenza se non quell’evento che non c’è, che è al di là del merito e del demerito, e c’è perché accade? Questa proposta permette di superare concezioni povere di grazia, per esempio quelle che la interpretano come energia o preghiera esaudita. Questa è dunque la prima tappa: il giubileo dischiude lo spazio del gratuito come evento al di là dei nostri progetti e desideri.

    2. Il giubileo dischiude lo spazio del gratuito come gratuito recettivo. Gratuità recettiva vuol dire la percezione che se noi ci siamo e viviamo, non è in forza di qualcosa che noi progettiamo, pensiamo, realizziamo, ma in forza di qualcosa che ci è dato gratis. È l’intuizione che noi ci siamo come evento. Noi abbiamo difficoltà a comprendere ciò, perché la nostra autocomprensione è legata fondamentalmente al cogito ergo sum cartesiano. Siamo convinti che noi viviamo perché lavoriamo e paghiamo.
    Dire che il giubileo dischiude lo spazio del gratuito vuol dire rompere con questo e recuperare lo sguardo originario della consapevolezza che noi ci siamo in forza di qualcun altro che ci fa essere, cominciando dall’ossigeno che respiriamo. Hanna Arendt, la filosofa ebrea morta negli anni ’70, contesta a Cartesio l’idea del cogito ergo sum, «penso quindi sono», che è il fondamento della modernità. In questo dialogo immaginario con Cartesio, la Arendt sostiene che prima di poter dire: «penso, quindi sono», bisognerebbe dire: «sono stato pensato da una donna, da un uomo e quindi sono». È una osservazione profonda, anche se ovvia, ma spesso è l’ovvio che dimentichiamo. Prima di dire «penso», sono stato pensato: la gratuità ricettiva è autocomprendersi come esseri che sono stati pensati. Anche chi non crede può avere questa autocoscienza perché non esige un atto di fede. Anche il non credente, anche l’ateo più convinto teoreticamente, ci sono in forza di un altro che li ha fatti essere. Si comprende che qui c’è l’esserci non in forza della mia progettualità, ma in forza di una alterità che si china su di me e mi fa essere. Questo è l’evento, e la nascita è l’evento per eccellenza. Anzi, secondo Hanna Arendt, la nascita è l’unico evento ontologicamente tale. Non lo è la morte, perché uno può anche darsela e quindi è inserita dentro l’arco progettuale dell’uomo. L’unica cosa che non si può progettare è la nascita, perché viene da un extra, che si può soltanto accogliere, riconoscere e accettare. Se non si recupera questo sguardo di gratuità ricettiva non salviamo l’umano. Questo discorso riguarda il soggettivo, l’autocomprensione di sé in questa prospettiva. La proibizione di Lv 25 di lavorare la terra in occasione del giubileo, solleva la domanda su dove trovare le fonti di sostentamento. La risposta la dà Lv 25 stesso ai vv. 20-22:
    «Se dite: Che mangeremo il settimo anno, se non semineremo e non raccoglieremo i nostri prodotti?, io disporro in vostro favore un raccolto abbondante per il sesto anno ed esso vi darà frutti per tre anni. L’ottavo anno seminerete e consumerete il vecchio raccolto fino al nono anno, mangerete il raccolto vecchio finché venga il nuovo».
    È lo stesso Dio, che cogliendo l’obiezione del suo popolo, provvederà a nutrirlo. Si ritrova la stessa logica nel racconto neotestamentario della moltiplicazione dei pani. Il senso di tutto ciò è che l’originario del gratuito che ci avvolge è immensamente di più di quello che noi possiamo progettare.

    3. Gratuità attiva. Poiché tutto ci è dato gratuitamente, siamo chiamati a ridare tutto gratuitamente. Qui può essere utile un riferimento al «discorso della Montagna» di Mt 5 dove Gesù invita ad imitare il Padre nostro celeste, «che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 45). Qui abbiamo l’agire gratuito, l’agire gratis: «... fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti», di là del merito e del demerito. Gesù conclude: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 48). Cioè l’agire gratuito di Dio viene offerto come imperativo e paradigma, come comandamento all’uomo. Dio fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, pone questo essere gratuito, questo agire gratuito, perché l’uomo lo riproduca, non perché l’uomo lo contempli.
    Credo che questo sia il significato più profondo del racconto biblico, talvolta rimosso nel Cristianesimo: che l’agire di Dio ha un significato prescrittivo e non metafisico. Nel senso che la Bibbia non vuol farci conoscere l’agire di Dio in sé, essa vuole dirci come dobbiamo agire. Quando parla dell’agire di Dio, ne parla in quanto attraverso quell’agire vuole indicare all’uomo come deve agire. Lévinas dice che nella Bibbia tutti gli attributi di Dio o i suoi predicati, cioè a dire tutto ciò che si predica di Lui (Dio è buono, Dio fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi...), ha valore prescrittivo. La Bibbia ci narra le parole e l’agire di Dio perché il suo agire diventi il nostro agire. L’umano trova il suo senso in questo agire gratuito. Se Dio agisce in maniera che non tiene conto del noto ad esso, se agisce al di là del merito e del demerito, il nostro agire gratuito deve essere al di là del merito e del demerito. Per la Bibbia questo vuol dire amare il prossimo e amare l’altro. Amare non è dell’ordine del sentimento, ma è amare lo straniero, il povero, il barbone e amare il nemico, amare chi mi offende, chi mi dice cretino o lo pensa senza dirmelo. Dinanzi a ciò che cosa dobbiamo sentire? Sentiamo l’esatto contrario, fastidio, rifiuto, antipatia; non è nell’ordine del sentimento che si può comprendere l’evento dell’amore gratuito di Dio e il comandamento, l’imperativo di Dio agli umani di amare come Lui ama. Amare vuol dire, ogni volta che incontri un volto, porre una relazione gratuita, sospendendo il «se» e il «perché» del fare se ne viene qualcosa oppure perché c’è simpatia, perché l’altro è intelligente, e porre una relazione gratuita. Se l’altro agisce diversamente non conta. Lévinas direbbe che sono fatti suoi, non tuoi. Amare il prossimo vuol dire amarlo come ama Dio; poiché Dio ci ama in questo modo di gratuità, amare il prossimo vuol dire istituire questa relazione di gratuità. Il prossimo da amare, poi, è il prossimo concreto, non il prossimo universale.
    È colui che si incontra durante la giornata. Per questo in latino «prossimo» vuol dire quello che ti è più vicino, non in senso esclusivo, come hanno inteso spesso alcuni interpreti, nel senso che si ama chi ci sta più vicino e non si ama chi sta più lontano. Piuttosto nel senso di cominciare da quello che sta più vicino, ponendo questa relazione gratuita, asimmetrica, incondizionata, immeritevole e immeritata, che spezza dentro la propria struttura mentale il merito e il demerito. Questa è la grazia, la gratuità divina. Questo è il sogno di Dio, il mondo sognaío da Dio. Un mondo dove gli umani tra di loro si amano secondo questa relazione di gratuità.

    4. La gratuità, andare all’altro, è bisogno di pane e di carezza. Andare all’altro non è andare all’altro con il sentimento, ma con le mani piene. Il mondo dove c’è gratuità recettiva è perciò un mondo che la Bibbia chiama giusto, è un mondo dove vige il principio «giustizia». Il termine giustizia è un altro dei termini più terribilmente ambigui. La giustizia non è altro, per la Bibbia, che il luogo dove la gratuità recettiva e attiva si sostanzia di cose e di beni. Il mondo giusto è un mondo dove le cose circolano secondo la logica della gratuità recettiva e attiva.

    5. Possiamo definire un mondo dove c’è questa gratuità recettiva e attiva come mondo della fraternità e della sororità, dell’essere fratelli e dell’essere sorelle. Il sogno di un mondo fraterno è quello più radicato, ma anche il sogno più smentito. Anche la rivoluzione francese che proclamava i tre principi di «fraternità, uguaglianza e libertà» non è riuscita a dare corpo al principio «fraternità». Affermare la gratuità recettiva e attiva, che istituisce un mondo giusto, è affermare la possibilità di costruire un mondo di fraternità e di sororità. Di una fraternità e di una sororità che non è un dato di fatto né un dato naturale, ma è un progetto etico. Noi siamo fratelli e sorelle soltanto nella misura in cui condividiamo delle cose, ma basta spezzare un minimo equilibrio e i fratelli e le sorelle dell’ordine naturale si aggrediscono e si odiano. Infatti sono tipici gli odi e gli amori della fraternità biologica. La vera fraternità è un progetto etico: devo fare in modo che ogni volto che incontro io lo considero fratello e sorella, attraverso questo principio di gratuità ricettiva e attiva che diventa il principio di ispirazione di tutto il mio agire.

    (testo ripreso dal magnetofono e non rivisto dall’Autore)


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