Figure della fede /1
Carmine Di Sante
(NPG 2000-01-71)
La bibbia è piena di personaggi umani e sovrumani, noti e meno noti, poveri e potenti, umili e orgogliosi, vili e coraggiosi, ricchi e disgraziati, saggi e insipienti, santi e peccatori. L’insieme di questi personaggi che, con loro storie avvincenti e spesso stravaganti, riempiono il racconto biblico, non ha solo un’importanza storica, in quanto immergono il lettore in un passato lontano e intrigante, ma, per il credente, per il quale la bibbia oltre che testo storico è anche testo rivelato dove Dio parla e si rivela come amico all’uomo, ha soprattutto un valore teologico e pedagogico. Attraverso la loro «presentazione» e il racconto delle loro azioni la bibbia, più che dare informazioni storiche per appagare la curiosità e l’intelligenza del lettore, «mette in scena» l’agire di Dio nella storia umana, intesa non come storia universale che obbedisce a leggi trascendenti o immanenti, bensì come storia delle «persone in carne e ossa», con le loro coerenze e incoerenze, contraddizioni e condizionamenti. «Mettendo in scena» l’azione di Dio nei confronti delle persone «in carne e ossa», il racconto biblico dispiega il senso dell’umano secondo Dio, in che cosa consiste veramente l’esistenza umana e quale il segreto che la sottrae al male che la minaccia (sofferenza, violenza, morte e insensatezza o mancanza di senso) e gli permette di fiorire nella sua bellezza e autenticità.
Ci lasceremo accompagnare, per quest’anno, da otto personaggi o figure bibliche, presi tutti dal racconto neotestamentario: Tamar, Gabriele, Giuseppe, Maria di Nazareth, Maria di Magdala, Giovanni, Paolo e Gesù. Vedremo come, attraverso queste figure, il racconto neotestamentario dispiega il dialogo tra Dio e l’uomo, tra il primo che parla e il secondo che, sorpreso dalla sua parola, non può non rispondergli. Si tratta di personaggi presi quasi a caso e tra loro eterogenei, alcuni all’apparenza irrilevanti, come Tamar, altri appartenenti alla sfera mitologica o sovrumana, come l’angelo Gabriele, altri invece noti e amati, come Giuseppe, Maria di Nazareth e la cosiddetta Maddalena, altri ancora pensatori difficili e profondi come Paolo e Giovanni, i grandi teologi del Nuovo Testamento e, per finire, Gesù, il «personaggio» (è evidente che qui «personaggio» è usato metaforicamente) al quale tutti gli altri rimandano, rendendogli testimonianza.
È noto che il vangelo di Matteo inizia il suo racconto con una lunga serie di nomi difficili e strani che, disposti in tre serie di quattordici generazioni (7+7), costituisce la genealogia di Gesù, la storia dei suoi antenati, fatta risalire fino ad Abramo. La ragione di questo elenco è di mostrare e di affermare che Gesù, per la coscienza neotestamentaria, non nasce da nulla né si inventa da sé, come genio o figura eccezionale, ma nasce da un popolo e da una tradizione, e che solo all’interno di questo popolo e di questa tradizione può essere letto e compreso adeguatamente: il popolo ebraico, di cui Abramo è il capostipite, e la tradizione biblica che è rivelazione e trasmissione di un Dio che, per amore, si sceglie questo popolo e stringe con esso un’alleanza per farne una benedizione per il mondo.
Tamar figura tra questi antenati ed è la moglie sventurata e infelice di uno dei figli di Giuda – Giuda il patriarca, il figlio di Giacobbe e di Lia – che non ebbe figli né dal marito, perché defunto anzitempo, né dal fratello del marito, Onan che, secondo la legislazione del tempo, nota come legge del levirato, avrebbe dovuto garantirle un discendente, né da Sela, il terzo fratello del marito, anche lui indifferente alla sua sorte di vedova sola e abbandonata.
Non rassegnandosi a questa sorte avversa e ingiusta, venendo un giorno a conoscenza del suocero che si trovava a passare nel suo villaggio dove era tornata dopo la morte del marito, ricorre allo stratagemma più antico del mondo per restare incinta:
Allora Tamar si tolse gli abiti vedovili, si coprì con un velo e se lo avvolse intorno, poi si pose a sedere all’ingresso di Enaim, che è sulla strada verso Timna... Giuda la vide e la credette una prostituta... si diresse su quella strada verso di lei e le disse: «Lascia che io venga con te». Non sapeva infatti che quella fosse la sua nuora. Essa disse: «Che mi darai per venire con me?». Rispose: «Io ti manderò un capretto del gregge». Essa riprese: «Mi dai un pegno fin quando me lo avrai mandato?». Egli disse: «Qual è il pegno che ti devo dare?». Rispose: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Allora glielo diede e le si unì. Essa concepì da lui (Gn 38,14-18).
La storia continua narrando che quando Giuda venne a conoscenza della nuora rimasta incinta voleva ucciderla, ma costretto a riconoscere dallo stratagemma del sigillo che l’uomo che l’aveva resa incinta era proprio lui, non poté che riconoscere la sua colpa e i gemelli nati da Tamar, Perez e Zerah, quest’ultimo uno degli anelli che porta a David e, da David, a Gesù. Matteo pertanto colloca tra gli antenati di Gesù «una prostituta» e il suo figlio nato come figlio della colpa.
Questo dato informativo (che, tra i suoi antenati, Gesù annoveri anche una «prostituta») costituisce per molti una sorpresa e uno scandalo, per cui non ci si può non chiedere per quale ragione il primo evangelista non lo rimuova, come sembra fare Luca che, inquadrando Gesù non solo all’interno della storia del popolo ebraico ma all’interno dell’intera storia umana, fa menzione di Fares ma non di Tamar, e come farebbe ciascuno di noi, secondo la comune psicologia ed esperienza che portano a ricordare e tramandare le cose positive e gratificanti, ad occultare invece quelle negative e compromettenti. Ma la sorpresa e lo scandalo finiscono non appena si comprende (e questo apre ad uno stupore ancora più grande) che la bibbia non è il racconto dell’ascesa dell’uomo verso Dio bensì il racconto della discesa di Dio verso l’uomo, e che Dio non ama i buoni e gli onesti lasciando alla deriva i cattivi e i malvagi, ma che egli si china su tutti indistintamente, senza preferenze.
Per il racconto neotestamentario, credere in Dio, e in Gesù che ne è l’interprete o «esegeta», non vuol dire sentirsi buoni o sforzarsi di essere buoni, e neppure aderire a particolari verità come, ad esempio, che Dio esiste o che dopo morte ci attende la vita eterna. Più propriamente credere in Dio vuol dire sapere, custodendo in profondità questo sapere, che l’esistenza umana è abitata da una Presenza o Tu che la precede e l’accoglie, e che, in compagnia di questa Presenza, per quanto condizionata esistenzialmente e culturalmente, essa è esistenza trans-figurata e trans-figurabile, come la storia di Tamar nella quale Dio entra tras-formandola in storia di salvezza ed elevandola da «prostituta» a «progenitrice» degli antenati del messia. Paradosso divino dal quale non ci si lascerà mai sorprendere a sufficienza e il cui senso è di affermare la priorità dell’agire divino sull’agire umano: l’agire divino come radicale e impensabile gratuità che non risponde all’umano ma lo istituisce come nuovo umano «trans-figurandolo», dandogli cioè una nuova «figura» o forma.
Nel libro di Osea, vissuto nell’ottavo secolo a.C. in un periodo di grande confusione politica e di decadenza religiosa, si legge di questo ordine dato da Dio al profeta: «Va’, prenditi in moglie una prostituta e abbi figli di prostituzione, poiché il paese non fa che prostituirsi allontanandosi dal Signore» (Os1, 2).La donna prostituta, che alla fedeltà al proprio uomo, che di lei è perdutamente innamorato, preferisce gli amanti interessati, è la messa in scena di Israele e dell’umano nelle sue permanenti contraddizioni e ambivalenze. Ma la ragione per la quale il racconto biblico interpreta l’umano con questa metafora così urtante la nostra sensibilità romantica non è la denuncia che lo condanna, ma l’annuncio che lo reinterpreta, dal momento che, di questa «prostituta» metafora d’Israele e di tutti i popoli da esso rappresentati, Dio dice: «Io amerò Non amata e a Non-mio-popolo dirò: Popolo mio, ed egli mi dirà: Mio Dio». La ragione per la quale Osea ricorre alla metafora della «prostituta» non è per denunciarla, ma per annunciarle che da «non amata» è stata elevata all’altezza dell’«amata».
Introducendo nella genealogia di Gesù la figura di Tamar, il racconto neotestamentario assume e radicalizza questa lettura dell’umano fatta dalle scritture ebraiche. Il senso di Gesù e del suo essere «redentore», «messia», «figlio di Dio» e «Dio» è nell’elevazione dell’umano all’altezza dell’amore, dove, non più parte del cosmo né abbandonato alla sorte, da «non amato» l’io si sa «amato» e il collettivo da «Non-mio-popolo» si scopre appellato «Popolo mio» capace di dire: «Mio Dio».