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    Il ruolo e l'azione dell'animatore nel gruppo


    Animare un gruppo /10

    Mario Pollo

    (NPG 1987-10-42)


    Nelle riflessioni fatte precedentemente a proposito del metodo dell'animazione culturale, si è affermato che uno degli assi portanti di questo metodo è costituito dalla relazione educativa interpretata in chiave di «comunicazione esistenziale». Ciò significa che la relazione, e perciò l'interazione, che si stabilisce tra l'animatore ed il gruppo è uno degli strumenti fondamentali dell'animazione. In altre parole, la capacità di gestire le interazioni con le persone attraverso il gruppo è il nucleo centrale della professionalità dell'animatore. Tuttavia, non è sufficiente la capacità di gestione «tecnica» delle interazioni, per garantire che queste avviino un processo di animazione. È necessario, infatti, che l'animatore possegga delle particolari motivazioni al comunicare.

    Motivazioni al comunicare

    La prima e più importante di queste motivazioni è la profonda convinzione dell'animatore che la possibilità di ogni persona umana di costruirsi secondo un progetto richiede la solidarietà attiva di un gruppo di persone. L'animatore, cioè, sa, come dice Paulo Freire, che «ci si educa tutti insieme» e che la costruzione di se stessi è un fatto che coinvolge la responsabilità delle persone con cui si vive, anche se l'ultima parola spetta solo al singolo individuo.
    Allo stesso modo l'animatore crede che, essendo la comunicazione educativa bidirezionale, in quanto interazione, essa ha effetti su di lui oltre che sugli educandi.
    Egli sa, cioè, che l'interazione gli consente di essere educato nello stesso momento in cui educa e che le dinamiche del gruppo si riverberano sulla sua esistenza modificandola, anche se egli le vive come esterno al gruppo.
    Infine, ciò che rende la comunicazione esistenziale significativa, è la profonda capacità dell'animatore di credere alla persona di ogni uomo, perché la persona è il suo grande assoluto. Egli sa che la persona rischia di essere sopraffatta dalla trama intricata delle relazioni politiche, economiche e culturali.
    Tuttavia egli si gioca nella scommessa che attraverso l'educazione è possibile far crescere e sviluppare le forze che possono rigenerare l'uomo e la società in cui vive.
    Ma la scelta dell'educazione che l'animatore fa, come si è visto precedentemente, non è indifferenziata, perché sa che dietro ogni modello educativo si cela una precisa concezione dell'uomo, del mondo e della vita. Per questo ha scelto di educare attraverso l'animazione, che non è un capitolo dell'educazione ma tutto il suo libro.
    L'animatore allora è uno che crede in un progetto di liberazione dell'uomo di cui si pone al servizio: è un militante. Ma la sua disponibilità a giocarsi nell'interazione con queste motivazioni non è sufficiente a garantirgli il realizzarsi del processo di animazione.
    È necessario che egli gestisca la relazione con «competenza tecnica», se non vuole diventare una sorta di apprendista stregone, il cui entusiasmo genera più guai che cose utili. Viceversa, la competenza tecnica priva di adeguate motivazioni produce un freddo ed impersonale processo burocratico che invece di seminare la vita distribuisce i conservanti utili alla sua ibernazione.
    È solo la competenza tecnica, sposata alle motivazioni prima descritte, che può generare quella comunicazione esistenzialmente significativa che fonda il metodo dell'animazione.
    I paragrafi successivi fissano le regole generali entro cui la competenza tecnica dell'animatore deve tessere la sua interazione con il gruppo.

    L'ANIMATORE DENTRO E FUORI DAL GRUPPO

    Per prima cosa è necessario prendere posizione intorno al contrasto che esiste tra due modi diversi di concepire il ruolo dell'animatore nel gruppo. C'è, infatti, una posizione che sostiene che l'animatore deve essere un membro a pieno titolo del gruppo, che deve essere, cioè, un leader del gruppo stesso. L'altra posizione, invece, sostiene che l'animatore, per poter svolgere con efficacia il suo ruolo, deve essere esterno al gruppo.
    Questa seconda posizione è la più ragionevole per alcuni semplici motivi. Il primo è dato dalla constatazione che chiunque voglia osservare con un minimo di distacco e di obiettività la vita di un gruppo, non deve essere coinvolto emotivamente in ciò che accade all'interno di questo.
    L'ambito d'azione dell'animatore non può essere perciò l'appartenenza al gruppo, ma solo la sua relazione con il gruppo. L'animatore non appartiene al gruppo ma al sovrasistema costituito da lui medesimo in relazione con il gruppo. L'animatore appartiene non al gruppo degli animandi, bensì al sistema sociale formato dal gruppo degli animandi in relazione con lui.
    Il secondo motivo aiuta a chiarire anche quest'ultima affermazione forse un po' oscura.
    Si è già detto che l'animatore deve governare il cambiamento e, cioè, il processo attraverso cui le persone ed il gruppo maturano. Ora è chiaro che per poter svolgere questa funzione, specialmente per i cambiamenti del secondo tipo, l'animatore deve operare ad un livello logico superiore a quello in cui si colloca la vita del gruppo. Egli deve essere a livello «meta».

    Il livello «meta» dell'animatore

    Un esempio chiarirà questa affermazione. Si prendano due amici, Giovanni e Carlo, che decidono di fare un gioco che consiste nel comunicare tra di loro dicendosi le cose al contrario. Ad esempio per dire: «voglio andare al mare», occorre dire: «non voglio andare al mare». Ora i due amici cominciano a giocare. Si ammetta che ad un certo punto Giovanni si stanchi di giocare e che voglia smettere. A questo punto è inevitabile che sia assalito dal dubbio su cosa deve dire per far capire senza equivoci a Carlo che egli vuole smettere di giocare. Infatti se dicesse a Carlo: «voglio smettere di giocare», questi potrebbe intendere, applicando correttamente le regole del gioco, che egli vuole continuare a giocare. Ma anche se Giovanni, astutamente, dicesse: «non voglio smettere di giocare», ci sarebbero ugualmente dei problemi, perché se è pur vero che a livello delle regole del gioco questo significa che Giovanni vuole smettere di giocare, è altrettanto vero che Carlo potrebbe essere, legittimamente, sfiorato dal dubbio. Carlo potrebbe, cioè, domandarsi se Giovanni sta parlando utilizzando il linguaggio del gioco oppure quello normale esterno al gioco. Come si può intuire, la comunicazione tra i due si fa confusa. Il dubbio circa il fatto che uno stia parlando utilizzando le regole del gioco oppure quelle esterne al gioco, impedisce una soluzione rapida ed efficace del dilemma comunicativo.
    Questo stato di «impasse» avrebbe potuto essere evitato se i due, prima di cominciare a giocare, si fossero accordati con una terza persona, Mario ad esempio. Entrambi avrebbero dovuto mantenere con lui un rapporto di comunicazione normale. Se questo fosse avvenuto quando qualcuno dei due giocatori avesse voluto smettere di giocare, non avrebbe dovuto fare altro che rivolgersi a Mario dicendogli: «Di' all'altro che mi sono stancato e che voglio smettere di giocare».
    Mario a questo punto si sarebbe rivolto all'altro giocatore ripetendogli il messaggio e il gioco sarebbe finito all'istante.

    pollo-2

    Questo semplice esempio evidenzia che, nella situazione descritta, vi sono due livelli di comunicazione che si intrecciano: quello interno al gioco e quello esterno al gioco. In altre parole questo significa che vi è un linguaggio del gioco ed un linguaggio sul gioco.
    Il linguaggio del gioco è quello «al contrario»; quello sul gioco è quello «normale» che, come si è visto, è stato utilizzato per creare le regole del gioco. In questo caso si può dire che il linguaggio «normale» è il metalinguaggio, nel senso che è un linguaggio che fissa e descrive il linguaggio del gioco.
    Affermare che l'animatore è in posizione «meta», vuol dire semplicemente che egli svolge un ruolo simile a quello di Mario nell'esempio. L'animatore non parla, cioè, con il gruppo il linguaggio del gioco ma quello sul gioco. Egli non si lascia invischiare dalle dinamiche relazionali e dagli stati affettivi del gruppo, ma li osserva, per quanto possibile dall'esterno.
    Per fare questo l'animatore deve utilizzare un linguaggio «tecnico», un linguaggio in grado di descrivere i fenomeni che nel gruppo accadono alla luce della dinamica di gruppo e dell'animazione culturale. La competenza tecnica dell'animatore richiamata prima, si esprime compiutamente nel linguaggio attraverso cui l'animatore entra in rapporto con il gruppo.
    Se invece di questo linguaggio «tecnico» l'animatore utilizzasse il linguaggio del gruppo, divenendo a tutti gli effetti un membro del gruppo, perderebbe la sua capacità di sfuggire a quella ambiguità che è stata espressa nell'esempio. I membri del gruppo, infatti, tutte le volte che l'animatore fa una affermazione, potrebbero domandarsi se egli parla come membro del gruppo - e quindi la sua è una affermazione di parte -, oppure se egli parla come responsabile del gruppo - al di sopra delle parti -. I suoi interventi sarebbero perciò vissuti contradditoriamente e sarebbero fonte di fraintendimenti. Questo accadrebbe con minore frequenza se l'animatore stimolasse un cambiamento/1 e con maggiore frequenza se egli proponesse un cambiamento/2.

    L'ANIMATORE E L'EMPATIA

    La proposta della posizione «meta» dell'animatore potrà, a prima vista, apparire un po' fredda, anche se magari si riconosce che è necessaria.
    Questa impressione è errata, perché l'animatore ha un'altra via per esprimere il suo amore, la sua fiducia e la sua solidarietà al gruppo ed ai suoi membri. Essa è costituita dall'empatia, che è un sentimento che può esprimersi anche senza «l'appartenenza» dell'animatore al gruppo. L'empatia si può dire che consista nella capacità dell'animatore di:
    - «mettersi nei panni» dei membri del gruppo e, quindi, di percepire i loro vissuti soggettivi assumendo il loro stesso punto di vista;
    - far sentire ai membri del gruppo una solidarietà basata sul fatto che egli riesce a far percepire al gruppo ed ai suoi membri che egli non giudica, ma cerca solo di comprendere dando loro la sua fiducia.
    Se l'animatore gioca con questo stile la sua interazione con il gruppo, allora pur dalla posizione «meta» riuscirà a render- la calda e solidale. Questo gli consentirà di non apparire come un estraneo ma, al contrario, come una persona che pur giocando un ruolo diverso da quello dei membri del gruppo vive con essi una profonda solidarietà che deriva da una comune, significativa per entrambi, esperienza esistenziale.
    Questo suo modo particolare di porsi è quello più idoneo a favorire il processo di maturazione che è stato descritto precedentemente.
    È da notare che la posizione esterna dell'animatore rispetto al gruppo garantisce la possibilità ad ogni persona, adeguatamente motivata e sufficientemente preparata, di svolgere la funzione di animatore di gruppo. Infatti se l'animatore fosse interno al gruppo, egli legherebbe, molto spesso, lo svolgimento della sua funzione alla capacità di essere un trascinatore carismatico del gruppo stesso. Cosa, come si è visto, né facile, né apprendibile e, soprattutto, variabile da situazione a situazione. Affermare, invece, la posizione esterna al gruppo dell'animatore significa prescindere dalle sue doti personali. L'animatore è solo un educatore che gioca profondamente la sua competenza nell'interazione solidaristica con il gruppo.
    L'animatore non è né il «politico», né «l'esperto» delle cose da fare, dei progetti e delle iniziative del gruppo. Tutte queste funzioni appartengono al gruppo ed ai suoi membri. L'animatore non espropria il gruppo della sua capacità di intuizione, di scelta strategica, di governo del compito, in quanto limita la sua azione alle interazioni al fine di favorirne la maturazione.
    Questo significa che egli esercita un tipo particolare di leadership, che pur provenendo dall'esterno, è centrata sul gruppo e che è tutta tesa a liberare le potenzialità delle persone che lo formano. Da questo punto di vista non assomiglia a nessuna delle forme di leadership viste precedentemente, anche se ne richiama alcune. Essa è uno stile del tutto particolare che ha il proprio nome: animatore.
    Tuttavia la posizione esterna e l'empatia non sono ancora sufficienti per definire lo stile della interazione animatore- gruppo. A queste pur fondamentali caratteristiche è necessario aggiungere una sorta di codice comportamentale.

    IL CODICE DELL'INTERAZIONE ANIMATORE-GRUPPO

    Il comportamento dell'animatore mentre comunica con il gruppo è importante, come si è visto, perché è già esso stesso animazione. Si può affermare che è la struttura portante dell'animazione.
    I comportamenti che consentono all'animatore di porsi in modo corretto in relazione con il gruppo possono essere raggruppati in quattro categorie.

    Il silenzio come animazione

    L'animatore deve essere consapevole che ogni suo gesto, ogni sua azione, quindi anche i suoi silenzi, sono per il gruppo una comunicazione dotata di significato. Il silenzio dell'animatore non è mai assenza di comunicazione, ma una forma particolare di comunicazione dotata di un suo significato proprio. Allo stesso modo i suoi tic, i suoi gesti involontari, i suoi comportamenti incontrollati comunicano qualcosa al gruppo al di là delle sue intenzioni. L'animatore quando interagisce con il gruppo deve controllare ogni suo gesto e gestire con accortezza i suoi silenzi.
    L'animatore deve rendersi conto che quando è fisicamente a contatto con il gruppo, è anche in comunicazione, lo voglia o no, con esso.
    L'animatore deve sviluppare uno sforzo costante affinché la sua comunicazione con il gruppo riesca a far sentire ai suoi membri che essi sono riconosciuti, accettati e rispettati nella loro specifica individualità e nel loro modo particolare di essere.

    L'accettazione integrale dell'altro

    Questo risultato non può essere ottenuto dall'animatore a parole, in quanto cioè egli fa dei discorsi nei quali dice di amare, di accettare e di rispettare ogni membro del gruppo, ma solo in quanto egli testimonia questo suo sentimento nei suoi atteggiamenti pratici, quotidiani, e nel suo modo di porsi in relazione con il gruppo.
    È questa l'interazione che avviene attraverso gli atteggiamenti piuttosto che con le parole. Essa, senza alcun dubbio, è quella più importante per l'animazione.
    I comportamenti che manifestano questo atteggiamento dell'animatore sono quelli tesi a far sì che ogni comunicazione che i membri del gruppo promuovono riceva sempre una risposta adeguata ed attenta, anche se a promuoverla è il membro del gruppo meno importante e più marginale, secondo le gerarchie interne del gruppo.
    Infatti, se un membro del gruppo afferma qualcosa e questa affermazione non riceve alcuna risposta da parte degli altri membri del gruppo, allora l'animatore deve riproporre in forma di quesito al gruppo l'intervento rimosso. Molti altri esempi potrebbero essere sviluppati, ma dovrebbe ormai essere sufficientemente evidente che la preoccupazione centrale dell'animatore deve essere quella di garantire che ogni membro del gruppo si senta veramente accettato e riconosciuto in ogni suo atto esistenziale.

    La partecipazione senza reattività immediata

    L'animatore non deve mai rispondere alle provocazioni del gruppo.
    Provocazioni che possono consistere nell'aggressività da parte del gruppo in toto o in alcuni suoi membri, oppure nel tentativo di portare l'animatore «dalla propria parte» attraverso una sorta di seduzione. In altre parole l'animatore deve sempre essere solo lo specchio che riflette il gruppo.
    Deve essere colui che aiuta i membri del gruppo ed il gruppo stesso a leggersi ed a comprendersi, andando al di là delle apparenze disegnate dalla falsa coscienza e dall'abitudine.
    L'animatore è l'interazione che conferma la verità esistenziale dell'altro, inteso come membro del gruppo. È colui che cerca nell'interazione la verità dell'essere, l'autenticità umana, la fedeltà al proprio progetto di sé che realizza anche attraverso il coraggio di verificarlo con le persone con cui entra in un rapporto significativo.
    L'animatore è un uomo che cerca sino in fondo l'autenticità della avventura rischiosa ma feconda dell'apertura incondizionata verso gli altri esseri viventi.

    La comunicazione sulla relazione

    L'animatore deve favorire la possibilità concreta di ogni membro del gruppo di comunicare «sulla comunicazione» che gli altri membri del gruppo e l'animatore stesso instaurano con lui.
    In un modo più semplice questo significa che ad ogni persona del gruppo deve essere data la possibilità, in alcuni casi, di non rispondere nel merito ad una domanda o ad una affermazione, ma al contrario, gli deve essere consentito di discutere sul come è formulata la stessa domanda.
    Un esempio chiarirà meglio questo concetto.
    Se una persona dice ad un'altra: «Non dovresti essere così sottomesso!», qualsiasi cosa la persona che riceve la comunicazione faccia in risposta non può che affermare o ribadire la sua sottomissione.
    Infatti se per dimostrare di non essere sottomessa la persona si ribella, essa dimostra di essere sottomessa in quanto obbedisce a chi le comanda di non essere sottomessa.
    Se essa non si ribella dimostra ugualmente di essere sottomessa, perché permane in uno stato di sottomissione, dimostrando che l'invito era alquanto appropriato.
    L'unico modo che la persona ha di uscire da questa situazione (che ad altro non serve che a ribadire e a rafforzare il suo stato di sottomissione) è quello che essa abbia la possibilità di dire le riflessioni su accennate, al fine di dimostrare che l'invito a non essere sottomessa non le è di alcun giovamento e che, alla fine, esso non è che un sottile atto di dominio.
    Solo se può fare questo tipo di comunicazione la persona sottomessa ha delle reali possibilità di emancipazione.
    L'animatore deve garantire la possibilità da parte di ogni membro del gruppo di comunicare a questo livello.
    Se opera in questa direzione egli aiuta le persone a prendere coscienza della gabbia delle relazioni/comunicazioni, che le imprigionano e impediscono loro di essere se stesse all'interno della vita sociale.
    La ricerca dell'autenticità nasce nella critica delle relazioni/comunicazioni della vita sociale.
    Le interazioni sono l'unica possibilità di libertà autentica che le relazioni interpersonali hanno, in quanto esse sole consentono il feed-back anche su quegli aspetti cui si è or ora accennato.

    IL CONTENUTO DELLA INTERAZIONE ANIMATORE-GRUPPO

    L'animatore, anche se opera a livello «meta» e interviene in modo privilegiato sulle dinamiche relazionali, quando comunica elabora e trasmette anche dei contenuti. Non esiste, o almeno è molto rara, nella dimensione umana una comunicazione priva di contenuti che non siano quelli affettivo-relazionali. Questo significa che occorre anche affrontare la comunicazione animatore-gruppo dal punto di vista dei contenuti.
    È sin troppo evidente che il contenuto della comunicazione animatore-gruppo è determinato dalla particolare attività che il gruppo svolge e dalla intenzionalità educativa dell'animatore. L'animazione si svolge, infatti, all'interno di gruppi religiosi, culturali, socio-politici, sportivi, solidaristici, ecc. Ognuno di questi privilegia, all'interno dell'area del significato globale che è esprimibile in una comunicazione umana, un'area particolare.
    Nonostante le differenze legate all'attività del gruppo, vi è a livello del contenuto una dimensione di cui ogni animatore deve tenere conto.
    Questa dimensione è importante perché interviene nella costruzione dell'identità personale dentro la cultura, che come si è ricordato all'inizio, è uno dei tre obiettivi centrali dell'animazione culturale.
    Come si è già anche visto, il tramite fondamentale di questa identità è costituito dall'apprendimento e dall'uso corrente della lingua. È ora possibile chiarire meglio questa affermazione.

    I significati della comunicazione

    L'uomo non vede la realtà così come essa è veramente. La sua visione delle cose, infatti, passa attraverso un particolare filtro costituito dalla lingua e dalla cultura che egli abita.
    La realtà, cioè, gli si presenta in una forma che in parte è determinata dalla sua cultura e dalla sua lingua, oltre che, naturalmente, dalla natura della stessa realtà. Due uomini percepiscono la stessa realtà solo se parlano la stessa lingua e possiedono la stessa cultura.
    La comunicazione è condivisione, come si è visto, solo quando riesce a stabilire tra i comunicanti un comune terreno di significati. In questa prospettiva, quindi, il significato è uno dei problemi centrali dell'animazione.
    A questo punto è però bene ricordare che quando si parla del significato non si fa riferimento, ad esempio, alla definizione che di una parola dà un dizionario. Questa definizione, infatti, contiene solo la parte letterale del significato della parola che è molto più complesso.
    Al significato appartiene anche l'esperienza emotiva, individuale e sociale, che si è condensata intorno ad una certa parola.
    Oltre a questo occorre rilevare che il significato riceve anche un contributo rilevante dal contesto in cui è utilizzata la parola o il segno che la esprime.

    Il significato come evento del confronto tra le varie esperienze

    L'uscita della persona dall'isola della propria soggettività può essere favorita dall'animatore attraverso un'azione tesa al collegamento dei segni linguistici, dei discorsi e, quindi, dei concetti che la persona esprime nell'esperienza concreta della vita di gruppo.
    Ciò consente, oltre la costruzione di un'area di significati comuni tra i membri del gruppo, anche il superamento da parte delle singole persone dell'atteggiamento «ideologico». Questo tipo di atteggiamento, infatti, si manifesta ogni volta che la persona entra in relazione con la realtà, proiettando su questa i suoi concetti astratti «a priori» e i suoi sogni ad occhi aperti. Tutte le volte, cioè, che essa non si lascia provocare dalla irrepetibile novità di cui è portatrice ogni situazione sociale. L'ideologia è una forma di violenza del pensiero sull'autonomia, irriducibile, della vita sociale e di quella del mondo in generale. L'ideologia è la più pericolosa forma di isolamento della persona umana, sia dagli altri che dalla natura in generale.
    Compito dell'animatore nella costruzione di relazioni interpersonali autentiche è allora di operare affinché:
    - si stabiliscano tra le persone delle comunicazioni fondate sul confronto tra le varie esperienze personali e sociali. Attraverso questo confronto di esperienze individuali ogni membro del gruppo può allargare il dominio dei suoi significati sino ad includere, almeno in parte, quelli degli altri membri del gruppo. Ciò rende possibile la condivisione e la partecipazione vera nella comunicazione anche a livello di significati;
    - ogni discorso del gruppo si colleghi sempre ad una o più esperienze. Se, ad esempio si parla d'amore, occorre immediatamente verificare qual è l'esperienza concreta che i membri, il gruppo e la società in cui questi è inserito, fanno dell'amore;
    - la lingua che il gruppo utilizza recuperi sempre la storia e la tradizione culturale della società che l'ha prodotta.
    L'identità delle persone si rafforza quando esse sono in grado di collegare le parabole ed i concetti, oltre che con la propria esperienza con quella delle persone che prima, nel passato, hanno abitato la cultura ed il suolo che ora esse abitano. Ad esempio la parola «pane» ha oggi un significato ben diverso da quello del passato.
    Ebbene fare identità significa leggere questo significato attuale sopra la filigrana dei suoi significati passati e delle esperienze che li hanno prodotti.
    Si deve perciò affermare che la funzione dell'animatore nella comunicazione è anche quella di collegare le parole alla realtà, togliendole dalla morta prigione in cui l'ideologia e le varie forme dell'alienazione le hanno collocate.

    Relazione animatore-gruppo e significato dei contenuti trasmessi

    Sappiamo che la comunicazione che avviene tra i membri del gruppo si gioca a due livelli: quello della relazione e quello del contenuto.
    Gli studi sulla comunicazione umana da tempo hanno messo in luce che la relazione si pone come criterio di verità del contenuto. Ad esempio, è il tipo di relazione in atto tra i comunicanti che dice a chi riceve il messaggio come deve decodificarlo, se in modo letterale o metaforico.
    Quando una persona dice ad un'altra: «che simpatica sei!», questo messaggio può voler dire che la persona a cui esso è rivolto è veramente simpatica oppure che è tutt'altro che simpatica. Ciò che fa decidere per un significato o l'altro chi riceve il messaggio è il tipo di relazione che ha in atto con chi glielo trasmette.
    Questo è molto importante a livello educativo, dove può succedere che l'educatore annunci con molta convinzione e foga alcuni valori e che poi con la sua condotta pratica, dentro la relazione educativa, li smentisca.
    Quando si verifica questo, l'effetto sull'educando è o la paralisi, dovuta al blocco emotivo intorno al valore, oppure la scelta, come vero, non di ciò che viene detto ma di ciò che viene fatto. L'animatore deve sfuggire sempre a questo rischio, nel senso che tutte le cose che afferma devono trovare la loro conferma nella sua relazione con il gruppo ed i suoi membri. L'animatore piuttosto che «predicare» valori o comportamenti che non può praticare, deve tacere. Infatti il gruppo fa la prima esperienza della realtà dei suoi discorsi nella relazione con l'animatore. L'animatore deve essere un esempio di realismo attraverso la sua autenticità. Questo non significa che egli deve essere un santo, ma solo che deve essere sincero con se stesso e con il gruppo.
    Se ritiene di dover annunciare un valore che nella sua vita, nonostante tutti gli sforzi, non riesce a vivere con pienezza, deve portare, insieme alla enunciazione, anche la testimonianza della difficoltà di vivere sino in fondo quel valore. Chi confessa la propria debolezza può essere compreso. Chi maschera la propria debolezza con la tracotanza può sperare solo nella stima degli ipocriti.
    Dire che la relazione è il criterio di verità del contenuto della comunicazione animatore/gruppo, non è nient'altro che un modo per affermare che questa comunicazione per essere efficace deve essere autentica. In questo si ha un superamento della concezione che vede l'animatore come un «leader naturalista» e, cioè, come un freddo ed impersonale tecnico.
    L'animatore, come si è visto, pur essendo esterno al gruppo, non è solo un tecnico ma un militante che si implica in un modo esistenzialmente significativo nella relazione con il gruppo. Per questo motivo la validazione della sua azione non può avvenire solo a livello dell'analisi della sua competenza nella dinamica di gruppo, ma anche dalla autenticità della sua motivazione educativa e dello sforzo di viverla pur tra mille scacchi e difficoltà.

    DOVE LA COMUNICAZIONE È SILENZIO

    Sinora si è esaminata la parte attiva della comunicazione, quella che realmente accade nel gruppo. Si è visto ciò che viene detto nel gruppo sia con i segni linguistici che con il comportamento. Si è visto anche il caso del silenzio, che tale però non poteva essere considerato in assoluto, in quanto era lo stesso una forma di comunicazione.
    A questo punto è possibile, e forse utile, introdurre una breve suggestione intorno al silenzio del gruppo, al suo non detto e non dicibile. Al silenzio vero, cioè, a quello che non può essere considerato comportamento ma solo assenza, di cui nessuno narra salvo i poeti ed i mistici. Se si considera l'universo del significato, quello totale, costituito da tutto ciò che potrebbe essere detto più quello che non può essere detto, si può affermare che i qualsiasi gruppo umano viene detta una piccolissima parte di questo enorme universo di significato. L'inespresso, il non detto e l'indefinibile rappresentano una parte di significato molto più grande di quella che può essere detta.
    Ciò che viene detto nel gruppo sta al significato totale nello stesso rapporto con cui una mappa sta al territorio. Una mappa, pur sofisticata, ricca e dettagliata che sia, riesce a descrivere una parte molto piccola della complessità del territorio.
    I segni sulla mappa rimandano a una realtà che è molto più variegata e ricca di fenomeni e di particolari di quanto si possa immaginare. Il segno di una casa può nascondere una costruzione squallidamente anonima o un capolavoro architettonico. In ogni caso il segno non lascia minimamante intuire la vita che si svolge dentro quella casa.
    Tuttavia, nonostante la sua incompletezza, di solito tutti riconoscono che la mappa è utile a guidare i passi di un viandante. La mappa non descrive compiutamente la realtà, ma è uno strumento per scoprire quella realtà in tutta la sua ricchezza.
    La comunicazione in un gruppo, pur essendo parziale, incompleta rispetto all'universo del senso totale, fa come la mappa, poiché consente di orientarsi e nello stesso tempo di scoprire, tra i vari segni o punti di riferimento della mappa, gli spazi bianchi o vuoti.
    Il vuoto della mappa non è un nulla, ma un frammento di significato inespresso e inesprimibile. La comunicazione espressa individua queste zone di inespresso e le rende disponibili, come per il viandante, all'esplorazione.
    Il silenzio del gruppo è da considerare allora uno scrigno inesplorato di senso. Ma per trovarlo bisogna cercarlo.
    Occorre che l'animatore sia disponibile a questa ricerca, che anzi la ponga come il limite di senso a cui lo avvicina faticosamente il suo comunicare.
    È necessario che egli, attraverso esperienze successive, aiuti il gruppo a cogliere che il silenzio non è il nulla o l'assenza del tutto; che il non detto è invece lo scrigno che raccoglie il tutto: tutto ciò che non può dirsi se non nell'eclisse delle forme sensibili, che rimandano ad una sommaria mappa del significato totale.
    La comunicazione nel gruppo è quindi su ciò che viene detto, ma anche il silenzio del non detto e del non dicibile.
    Animare è anche educazione alla scoperta del silenzio.
    Tuttavia questo silenzio può essere percepito solo se nel gruppo si comunica, se esistono linguaggi e sistemi, disegni e simboli efficaci. Se non vi fosse comunicazione attiva, il silenzio non sarebbe percepibile, perché nessuna mappa lo renderebbe accessibile. Tra detto e non detto esiste una complementarietà inscindibile.
    Più il gruppo evolve e sviluppa la sua capacità di comunicazione, più rende disponibile l'accesso e la capacità di comprensione del silenzio.
    La comprensione «espressa» nel gruppo può essere fatta corrispondere alla precisione di una mappa. Più la mappa è precisa e più il cammino nell'inesplorato è sicuro. Non bisogna però ipercomunicare, perché tanti segni non necessari coprirebbero quegli spazi bianchi che sono nella mappa il luogo del mistero, dell'avventura possibile... del silenzio.
    L'animatore deve sviluppare la comunicazione, lasciando però che tra i segni della mappa fioriscano gli spazi bianchi del silenzio.
    Altrimenti la comunicazione diviene rumore che nasconde al gruppo la ricchezza del significato nascosto oltre ciò che viene detto.


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