L’eredità e il lavoro dei figli: il Regno


Juan E. Vecchi

(NPG 1999-04-06)


Nel Padre Nostro Gesù ci fa chiedere: «Venga il tuo Regno». Del Regno Gesù parlò molto. Anzi, fu il tema della sua predicazione e l’obiettivo del suo operare. Lo spiegò, lo annunciò e si diede a costruirlo e diffonderlo. Lo chiamò sempre Regno di Dio. A volte anche «regno dei cieli». Non intendeva con questo dire che era campato per aria, in mondi invisibili; ma seguiva l’abitudine del suo popolo di non utilizzare, per rispetto, il nome di Dio. Che il suo Regno fosse, per dono, anche nostro, lo disse ai suoi discepoli: «È piaciuto al Padre darvi il suo Regno» (Lc 12,32).
Che cosa fosse il Regno gli apostoli non lo capivano molto. Pensavano infatti a lottizzarne tra di loro posti e cariche. L’espressione l’avevano sentita molte volte perché era familiare alla loro tradizione. Sapevano che si trattava di un grande intervento di Dio in favore del suo popolo: liberazione da tutti i mali e salvezza totale e per sempre. Ciò doveva avvenire perché singoli e popolo accoglievano Dio, riconoscendone la signoria su tutto.
Gli apostoli se ne aspettavano un’inaugurazione solenne e folgorante. Gesù lo paragonò ad un lievito, a un seme, a un tesoro nascosto in terra. Lo cercavano fuori, e Gesù disse che guardassero anche e principalmente dentro se stessi. Il cuore dell’uomo infatti è il primo spazio dove si fa sentire. Lo pensavano come qualche cosa che Gesù doveva organizzare o conquistare. Egli invece afferma che il Regno di Dio si fa presente nella sua persona. Con Lui si rivela, irrompe nella storia, ci raggiunge e ci include. Lo credevano una selezione dei buoni, anzi dei migliori. Gesù invece lo descrisse come un campo in cui ci stanno tutti, quelli che somigliano al buon grano e quelli che ci sembrano o sono veramente erba cattiva; come una rete che prende ogni pesce, quelli commestibili e quelli velenosi. Pensavano che era già preparato; domandavano dunque quando si sarebbe instaurato. Invece Gesù disse che era come una semina da fare, un terreno da coltivare, un vigna da far fruttificare. Pensavano che in esso si poteva vivere tranquilli; e invece Gesù spiegò che in esso c’era bisogno di perdono, di comprensione; che non tutti erano prodigi per genio o santità, ma ognuno «rendeva» secondo le proprie possibilità e il suo tempo. Il Padrone, però, alla fine dava a tutti il massimo salario per pura generosità. Anzi ci voleva addirittura decisione e sforzo per instaurarlo e appartenervi: «Il Regno soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12). Andava dunque guadagnato senza che, per questo, perdesse il suo carattere di dono.
Non solo ne parlò e diede le spiegazioni necessarie a far luce sulla natura e caratteristiche del Regno, ma ne mise le fondamenta, ne diede dei segni, mostrò quali beni comprendeva e come lo si doveva costruire. All’insegna del Regno di Dio egli ignorò la discriminazione tra credenti e non credenti, e tutti considerò chiamati e invitati al banchetto. Nel nome del Regno eliminò la distinzione sociale, senza sminuire la responsabilità personale, tra «giusti» e peccatori, e tutti considerò amati dal Padre, bisognosi della sua misericordia. Chiamò Matteo, collaboratore dei dominatori, a essere apostolo; andò a mangiare a casa di Zaccheo; accettò il profumo della donna peccatrice e disse parole di incoraggiamento all’adultera. Nel nome del Regno ignorò la situazione di inferiorità delle donne chiamandole pubblicamente al suo servizio e seguito, le ammise come discepole e permise loro di «sedersi ai suoi piedi» (cf Lc 10,39); le inviò come prime annunciatrici della Risurrezione.
I segni del Regno che egli pose furono quelli di liberare dai demoni, accogliere e guarire i malati, restituire la vita ai morti, moltiplicare il pane così che ce ne fosse per tutti, illuminare la coscienza con la parola, perdonare i peccati, donarsi totalmente nella predicazione, nella passione e nella morte.
Nemmeno oggi per molti il Regno di Dio è comprensibile. Qualcuno pensa che si tratti di un’espressione simbolica senza riferimento prossimo alle cose con cui abbiamo a che fare nella vita quotidiana; che influisce sì nei buoni sentimenti e nel comportamento «religioso», ma che non ha peso sulle azioni con cui gli uomini costruiscono il mondo, né trasforma le condizioni di vita. Ciò apparterrebbe alle organizzazioni che contano, quelle che dispongono di potere, denaro, conoscenze scientifiche, strumenti tecnologici.
La dizione «dei cieli» viene presa dunque proprio nel senso in cui non lo intendeva Gesù. Secondo Lui il Regno è in questo mondo, sebbene non solo. Non è un territorio fisico, ma una «rete» formata da tutti coloro che desiderano alcuni beni, cercano di realizzarli nella misura del possibile e ne sperano da Dio il compimento.
Chi faccia parte di questo Regno e quali siano i beni che lo caratterizzano è detto nel discorso più famoso di Gesù: quello della montagna. Nelle Beatitudini, dopo aver presentato alcune «categorie» di persone, egli ripete: di essi è il Regno dei cieli o, direttamente, saranno chiamati figli di Dio. Chi sono questi che portano i segni dei «figli di Dio», ai quali sono affidati l’eredità e il lavoro del Regno? Sono «i poveri di spirito», cioè coloro che non si soddisfano con i beni materiali, e quindi non li accumulano; desiderano altri beni, in particolare la conoscenza e l’amore di Dio. Perciò non si attaccano al possesso di nulla, ma mettono ogni cosa a disposizione dei fratelli. Sono gli uomini e le donne «pacifici»: quelli che non lasciano entrare in se stessi sentimenti di odio o distanza, e non cedono all’istinto di eccessiva difesa di fronte alle offese, ma cercano invece di costruire rapporti di accoglienza e solidarietà, favoriscono la concordia e si fanno mediatori di riconciliazione.
Cittadini del Regno sono i puri o retti di cuore: coloro che non collocano egoisticamente se stessi, il proprio piacere al centro di tutto, non cedono all’inganno e mettono la sincerità e l’onestà a fondamento del lavoro e dei rapporti. Sono i misericordiosi, cioè coloro che sentono compassione di fronte ai dolori e alle miserie altrui e si danno da fare per alleviarli con spirito generoso, gratuitamente. Sono coloro che si battono serenamente per la giustizia anche a costo di persecuzioni e cattive interpretazioni, e restituiscono bene per male; i pazienti che perseverano nelle opere e imprese di bene anche di fronte alle difficoltà.
Così i figli a cui Dio Padre ha dato in eredità il Regno estendono lo spazio dove se ne applicano le leggi e se ne diffondono i beni: la speranza, la pace, la misericordia, la giustizia, la rettitudine, l’accoglienza di Dio, l’amore. Tutto ciò è mescolato con l’opposto, coabita gomito a gomito con la violenza, la prepotenza, il menefreghismo, il disinteresse, il disprezzo della persona. Eppure non si confonde con tutto questo, non viene sommerso o neutralizzato dalla presenza anche capillare del male: ne è più forte. Ha un suo tessuto o collegamento misterioso capace di creare uno spazio umano visibile, nel quale si può abitare, perché crea nuovi rapporti sociali e propone traguardi anche temporali. Il Padre vi dimora come nella sua casa. Si può persino vedere il suo volto paterno riflesso nella realtà che i beni del Regno presentano.
Chi può dire che le categorie elencate sopra non esistano oggi o che il loro operato non influisca sulla nostra esistenza nel mondo? E chi può negare che i beni del Regno sarebbero più estesi se molti altri lavorassero con la medesima intenzione e determinazione?
Il Regno è la sintesi di tutti i beni che possono rendere vivibile questo mondo. È dono e compito, eredità e terreno di conquista di coloro che si sentono figli di Dio. Convoca e collega dunque ogni seme di buona volontà diffusa sulla terrra. Si estende oltre i confini visibili della Chiesa, che è però il suo segno e strumento principale.
Uno degli interrogativi più cruciali e fecondi che questo fine secolo pone ai cristiani è per quale ragione molti di coloro che volevano costruire una società più giusta hanno visto nel cristianesimo una remora, «oppio» per coloro che dovevano riscattarsi, una «difesa» a oltranza di quanto si era consolidato a svantaggio dei più. Forse la dimensione storica del Regno, relativa eppure indispensabile, non unica eppure realissima, è stata dimenticata o ridotta a dimensioni individuali o solo formalmente «religiose».