Juan E. Vecchi
(NPG 1999-02-6)
Lo disse l’ufficiale romano alla vista della morte di Gesù. Forse aveva sentito le sue parole: «Padre, perdonali», «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito». Può darsi che sapesse del reato per cui i sommi sacerdoti avevano condannato Gesù: «Si dichiarò Figlio di Dio». O forse è stata una sua conclusione, da conoscitore dei condannati, davanti all’innocenza, alla dignità di Gesù di fronte a una morte violenta, al suo atteggiamento verso i carnefici, al suo gesto di offerta.
In altri un miracolo aveva motivato la confessione che Gesù era il figlio di Dio. Il centurione fu mosso dalla vista della morte. Fa impressione che un funzionario romano in quella circostanza non abbia fatto piuttosto un commento «a caldo» sulle pretese regali di Gesù. E che invece abbia raccolto la voce che lo diceva figlio di Dio.
Egli, ispirato dallo Spirito, espresse la fede della Chiesa: nella morte, donandosi per noi, Gesù rivela che Dio è amore, e che in quanto tale è suo Padre nell’eternità e nella storia umana. Il suo rapporto filiale nel tempo inizia con la disponibilità a fare la volontà del Padre e l’invio al mondo, passa attraverso la maternità verginale di Maria, cresce durante la sua vita, e ha il momento più eloquente nella morte. La consegna di sé nelle mani del Padre per il mondo porta con sé la risurrezione a una vita nuova.
Nessuno può sapere che cosa voglia dire che Dio è nostro Padre finché, per la fede, non ha capito in quale senso Gesù è il Figlio e come Egli è vissuto da Figlio in questo mondo. Certo, i testimoni rimasero stupiti di come Gesù parlava di Dio e trattava con Dio: confidenza singolare, linguaggio affettuoso pur nel riconoscimento dell’infinita potenza, adesione totale alla sua volontà e ai suoi progetti, conversazione frequente ed esclusiva, conoscenza senza pari, accesso libero a Lui, partecipazione totale al suo potere, condivisione dei suoi sentimenti, esperienza diretta del Padre, capacità di rivelazione e di racconto su chi è e come opera il Padre, identificazione: «Io e il Padre siamo una sola cosa».
Del Padre d’altra parte afferma che lo genera, lo consacra, lo invia, lo muove e sostiene, lo consegna alla morte, lo risuscita e lo fa sedere alla sua destra. Il Padre è il filo conduttore del Vangelo. Senza di Lui la buona novella per la vita dell’uomo svanisce.
Vivendo da Figlio, Cristo rivela il Padre.
Per gli educatori, chiamati a condividere con i giovani la fede, è importante approfondire alcuni aspetti della sua esperienza filiale.
Il primo è il rapporto, il sentimento, l’apertura del cuore, la fiducia, l’affidamento. In Gesù era vivo, caldo, radicato, messo a fondamento dell’esistenza, invariabile di fronte alle diverse vicende della vita. Era la sicurezza della fedeltà del Padre, cantata nella Bibbia, ma vissuta da Lui in forma singolare. Egli vede il Padre presente nei piccoli, nella natura che ospita passeri e gigli, lega il seme alla terra, contiene il sole e i cieli.
Lo vede al lavoro nel mondo e nella storia. Percepisce l’azione del Padre nelle intuizioni degli uomini, nella loro fede come in quella di Pietro. Scorge la sua potenza nei propri miracoli e nella forza salvifica delle proprie parole. Da Lui si sente protetto. E comprende il suo amore universale anche nell’agonia, nella sofferenza e nella morte.
Vive nel Padre, gli è immanente. Il Padre è sempre dentro di Lui, e non semplicemente come un pensiero: «Il Padre è in me e io sono nel Padre» (Gv 10,38); «Non credi che io vivo nel Padre e il Padre vive in me?» (Gv 14, 10).
Tale inabitazione produce una misteriosa conoscenza e intimità di amore: «Il Padre ama il Figlio e gli fa vedere tutto ciò che fa» (Gv 5,20); «Il Padre mi conosce e io conosco il Padre» (Gv 10,15). Porta ciascuno di essi a cercare la «gloria» dell’altro, a far conoscere, a rivelare, a mettere in rapporto di amore, a raccontare l’altro. «Padre, l’ora è venuta; manifesta la gloria del Figlio, perché il Figlio manifesti la tua gloria» (Gv 17, 1).
Il rapporto ha una espressione totale nella missione: il Padre affida a Gesù la salvezza del mondo e Gesù la assume con totale adesione e determinazione. Ciò esprime l’unità col Padre, l’amore per Lui. Gesù ne è cosciente e lo sottolinea con affermazioni che non lasciano posto al dubbio: sono stato mandato… sono venuto per annunciare il Vangelo, per chiamare non i giusti ma i peccatori, per cercare di salvare chi era perduto, per servire e dare la vita in riscatto. Tutto si ricollega alla volontà, al disegno, al mandato ricevuto dal Padre.
Non solo Dio, mandando suo Figlio manifesta la sua paternità verso di Lui e verso gli uomini, ma Gesù, interpretando bene e portando a termine la missione, rivela il suo essere Figlio. Attraverso di essa quindi, noi uomini veniamo a conoscere anche l’aspetto essenziale del mistero intimo del Dio unico.
Oltre al rapporto che comprende tutto l’essere, e alla missione che spiega l’esistenza terrena di Gesù, è utile contemplare un altro tratto filiale: la lode, l’invocazione, il trattenersi col Padre: la preghiera. I vangeli parlano abbondantemente della pratica e degli insegnamenti di Gesù al riguardo, così come della richiesta dei discepoli: insegnaci a pregare.
Ha molto da vedere con la sua missione. Tutti i momenti importanti di questa sono segnati dalla preghiera. Nella preghiera, durante il battesimo, ne viene pubblicamente investito: «Mentre Gesù, ricevuto anche Lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì… vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio...». Un lungo periodo di preghiera nel deserto gli dà il senso della missione e la forza per resistere alle tentazioni che la vorrebbero orientare in direzione diversa da quella che il Padre vuole. Così per la scelta dei discepoli mette nelle mani del Padre la decisione e gli affida coloro che sceglierà. Molti miracoli sono preceduti o accompagnati da un gesto orante: la moltiplicazione dei pani, la guarigione del cieco nato, la liberazione dai demoni, la risurrezione di Lazzaro.
L’ultima grande preghiera è un testamento, uno sguardo sulla sua esistenza: raccoglie i motivi della sua vita e della sua morte, la sua critica al mondo, la sua totale disponibilità per il disegno del Padre, l’amore ai suoi, la preoccupazione per l’unità e perseveranza di tutti coloro che partecipano alla sua azione di salvezza, il suo proposito di fedeltà.
La preghiera nell’orto e sulla croce è l’accettazione di avvenimenti, apparentemente avversi, come provenienti dalla volontà di Dio piuttosto che dalla malizia degli uomini. Con essa consegna la vita nelle mani del Padre.
La preghiera di Gesù appare così come un atteggiamento costante, interno, che si manifesta in espressioni spontanee di gioia, di ringraziamento, di invocazione, di disponibilità, di riflessione. Sullo sfondo di tutte queste espressioni c’è una sola parola, Padre: «Ti benedico, Padre» (Mt 11,25). Per il Padre ci sono anche tempi e luoghi adatti per una conversazione tranquilla: i monti, il deserto, la notte, i luoghi solitari, la compagnia di pochi amici. La sua preghiera più continua e autentica però è la vita che si snoda secondo la volontà del Padre e al servizio degli uomini.
È il cammino indicato anche a noi per crescere come figli: riconoscimento della presenza del Padre nella nostra vita, senso di una missione nel mondo, desiderio di comunione con Lui.