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    Gesù di Nazaret, punto di arrivo di una lunga ricerca di Dio



    Luis A. Gallo

    (NPG 1999-01-59)


    Da sempre i popoli sono stati religiosi. L’irreligiosità è un fenomeno recente e, come fanno notare alcuni studiosi, attualmente in forte processo di revisione. Per millenni gli uomini e le donne hanno creduto all’esistenza di Qualcosa di superiore, di «Oltre». Di questa lunga esperienza religiosa noi, come cristiani, siamo convinti che Gesù di Nazaret costituisca il vertice.

    Una ricerca universale

    Il senso del sacro ha occupato, sin da tempi immemorabili, un ampio spazio nella vita personale e sociale dell’umanità. Ogni popolo, ogni tribù, ogni gruppo umano ha cercato a modo suo di mettersi a contatto con il divino, per placarlo se lo riteneva adirato, per ottenere il suo aiuto e la sua protezione se ne sentiva il bisogno, o semplicemente per lodarlo e benedirlo alla presenza dei suoi benefici. Certo, non sono mancate tra essi forme meno nobili di religiosità, quali il tabù e la magia.
    La prima, ispirata a un modo di concepire il divino come pericoloso, cercava di creare un muro di contenimento che gli impedisse di irrompere nel mondo degli uomini, o che sbarrasse il passaggio di questi nel suo mondo, per evitare le funeste conseguenze che ne sarebbero seguite. Persone, cose, luoghi, azioni, gesti, parole venivano così trasformati in oggetti intoccabili, e il loro uso e frequentazione erano assolutamente proibiti, pena la morte o la disgrazia personale o del gruppo.
    La seconda, fondata sullo stesso modo di concepire il divino, tentava invece di inoltrarsi nel suo mondo per impadronirsi delle sue forze e manipolarle a proprio vantaggio. Riti eseguiti con rigida meticolosità assicuravano l’esito positivo del tentativo; qualunque sbaglio poteva essere pagato a caro prezzo.
    Le forme più nobili di rapporto con il divino si riscontrano invece lì dove esso veniva concepito in maniera positiva e favorevole al gruppo che lo venerava. Comportamenti rituali che esprimevano lode e ringraziamento concretizzavano tale religiosità.
    Ma, sullo sfondo di queste diverse espressioni religiose, c’era qualcosa di comune: la ricerca del divino. I gruppi e i popoli che le praticavano erano mossi da ciò che la Bibbia chiama «sete di Dio» (Sal 41.3; 62,2). Paolo, nel suo discorso all’areopago di Atene, precisa che essi cercavano Dio, ma lo cercavano «come a tentoni» (At 17,27). Il loro modo di pensarlo era spesso confuso, impreciso.
    Alcuni ne dipingevano il volto con tratti di bontà e sollecitudine verso gli uomini, ma tanti altri lo disegnavano con tratti che avevano del terribile, del crudele e dello spaventoso. Proiettavano in definitiva su di esso le qualità umane, tanto quelle positive quanto soprattutto quelle negative. In questo senso, come diceva Feuerbach, «creavano Dio a loro immagine e somiglianza».
    Va ancora rilevato un dato importante: sin dai tempi remoti l’idea che la divinità sia il Padre del mondo e degli esseri umani è stata ampiamente diffusa nei popoli. Gli studiosi affermano infatti che l’invocazione di Dio in termini paterni è uno dei fenomeni più remoti riscontrabili nella storia delle religioni. Se ne hanno testimonianze tanto in quelle più semplici quanto in quelle più sviluppate.
    Naturalmente, comportandosi in questo modo, ogni popolo e ogni religione proiettava sulla divinità, con sfumature diverse, la propria esperienza della figura paterna, con le connotazioni che le erano proprie: principio di vita, autorità, potere, dominio.

    Il popolo d’Israele, un popolo intensamente religioso

    Nell’insieme di quest’universale esperienza religiosa si ritaglia e spicca quella singolare del popolo d’Israele. C’è una misteriosa narrazione dell’Antico Testamento che può aiutare a cogliere la sua natura e qualità. È quella di Gen 32,25-32:

    «Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: ‘Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora’. Giacobbe rispose: ‘Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!’. Gli domandò: ‘Come ti chiami?’. Rispose: ‘Giacobbe’. Riprese: ‘Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!’. Giacobbe allora gli chiese: ‘Dimmi il tuo nome’. Gli rispose: ‘Perché mi chiedi il nome?’. E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel ‘perché, disse, ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva’. Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca».

    Come è noto, il popolo dell’Antico Testamento ad un certo momento della sua storia venne chiamato con il nome di uno dei suoi antenati, Giacobbe, che Dio a sua volta aveva sostituito con quello di Israele (Gen 35,10). Perciò lo si conosce come «popolo d’Israele». È un nome molto significativo. Vuole dire, infatti, «colui che lotta con Dio». Esso palesa ciò che fu l’esperienza vissuta dal popolo lungo la sua secolare storia. Alcuni particolari della narrazione appena citata permettono di evidenziarlo.
    Anzitutto, bisogna riconoscere che Israele fu sempre profondamente religioso. Visse cioè sempre in un rapporto intenso con il divino, del quale andò cercando costantemente il volto. Il desiderio di contemplare il volto di Dio è espresso effettivamente in moltissime pagine della Bibbia.
    Già Mosè, secondo la tradizione conservata nel libro dell’Esodo, nutrì questo ardente desiderio. Vi si racconta che egli fece questa supplica al Dio che gli aveva affidato la pesante missione di far uscire il popolo dalla schiavitù egiziana:

    «‘Mostrami la tua Gloria’. Il Signore gli rispose: ‘Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te’ E soggiunse: ‘Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo’» (Es 33,18-20).

    Queste ultime parole esprimono il profondo senso della santità di Dio che, secondo gli studiosi del fenomeno religioso, accompagna ogni autentica esperienza del divino. Dio, infatti, mentre da una parte attira potentemente l’uomo e si pone perciò davanti a lui come «mistero che lo affascina», dall’altra lo intimorisce e in qualche modo lo respinge in quanto «mistero che spaventa» (R. Otto).
    Questa ricerca del volto di Dio come risposta al fascino da lui esercitato, è attestata soprattutto dai Salmi. Forse perché in essi prevalentemente si esprime la preghiera del popolo dell’AnticoTestamento. Uno dei più belli è quello che viene datato all’epoca dell’esilio babilonese, durante il quale gli ebrei sentivano profondamente la lontananza dal santuario dove Dio risiedeva, e dove potevano contemplare il suo volto. Ecco alcune delle sue frasi principali:

    «Come la cerva anela ai corsi d’acqua,
    così l’anima mia anela a te, o Dio.
    L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente:
    quando verrò e vedrò il volto di Dio?
    Le lacrime sono mio pane giorno e notte,
    mentre mi dicono sempre: ‘Dov’è il tuo Dio?’.
    Questo io ricordo, e il mio cuore si strugge:
    attraverso la folla avanzavo tra i primi
    fino alla casa di Dio,
    in mezzo ai canti di gioia
    di una moltitudine in festa.
    Perché ti rattristi, anima mia,
    perché su di me gemi?
    Spera in Dio: ancora potrò lodarlo,
    lui, salvezza del mio volto e mio Dio»
    (Sal 42,2-6).

    Ma oltre a quello citato, ce ne sono diversi altri in cui questa sete del Dio vivente si trasforma in supplica ardente, tanto personale quanto comunitaria, e in insistente invocazione della manifestazione del suo volto (Sal 13,2; 27,8; 67,2; 69,18; 80,4.8.20; 88,15; 102,3; 105,4; 119,135; 143,7). In qualcuno di essi Israele viene perfino caratterizzato come «la generazione che cerca il volto del Dio di Giacobbe» (Sal 14,6). Una generazione che, oltre a cercarlo appassionatamente, e proprio per questo motivo, soffre quando egli glielo nasconde (Sal 10,21; 13,2; 27,9; 44,25; 69,18; 88,15; 102,3; 143,7). La sua rivelazione è per lui pegno di salvezza (Sal 80,4.8.20).
    Quanto è stato detto sembrerebbe coincidere con quello che abbiamo rilevato sopra nella storia dei popoli: l’uomo, affamato del divino, si muove, attirato da esso, alla ricerca del suo volto. Pensare in questo modo l’esperienza d’Israele significa ignorare qualcosa di fondamentale di cui è testimone l’intera Bibbia. È vero che, nel testo riportato più sopra, Giacobbe lotta con quell’uomo misterioso che poi risulta essere lo stesso Dio e, oltre a chiedergli il nome, gli forza quasi la mano affinché lo benedica; ma tutto ciò è preceduto nella Bibbia dalla storia anteriore in cui l’iniziativa è sempre di Dio.
    Israele sa che la sua è una religione di risposta, che tutta la sua ricerca del volto di Dio non è altro che un lasciarsi attrarre da Colui che per primo ha voluto attirarlo a sé. Non per niente il testo biblico più ripetuto dal popolo e da ogni pio israelita era lo Shema’ Israel, quel brano che veniva recitato più volte al giorno, e che conferisce la sua intonazione propria e peculiare alla religiosità ebraica. Erano questi i termini in cui si esprimeva:

    «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,4-9).

    Israele scopre il volto paterno del suo Dio

    Nel sua lunga e travagliata esperienza religiosa, il popolo della Bibbia arrivò anche a scoprire il volto paterno del suo Dio. Ciò non avvenne agli inizi della sua storia, ma parecchio avanti nel tempo.
    Probabilmente Israele si sentì inizialmente inibito, da questo punto di vista, dal fatto che presso i popoli confinanti l’invocazione di Dio come Padre era molto diffusa, ed era spesso impregnata di un senso magico.
    Il profeta Geremia ricorda ancora questo modo di porsi davanti alla paternità divina, che ritiene da evitare assolutamente. In una delle denunce indirizzata al popolo infedele egli dice:

    «Come si vergogna un ladro preso in flagrante, così restano svergognati quelli della casa di Israele; essi, i loro re, i loro capi, i loro sacerdoti e i loro profeti. Dicono a un pezzo di legno: ‘Tu sei mio padre’, e a una pietra: ‘Tu mi hai generato’» (Ger 2,26-27).

    Quando però tale rischio venne sostanzialmente superato, il simbolo paterno venne adoperato serenamente. Uno dei testi più belli al riguardo è quello del profeta Osea in cui Dio, che in un primo momento era apparso in veste di sposo amante e geloso del suo popolo, si manifesta invece poi in quella di padre tenero e pieno di sollecitudine per lui, che considera come suo figlio. Ecco le sue testuali parole:

    «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio […]. Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. […]. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? […]. Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché io sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira» (Os 11,1-4).

    Sono notevoli i tratti con cui è disegnato il volto di Dio in questo testo. Quasi più che paterni si potrebbero dire materni, dal momento che la serie di azioni enunciate (insegnare a camminare tenendo per mano, sollevare un bambino alla guancia, dare da mangiare chinandosi verso chi è piccolo) sono tipiche dell’agire materno. Con questo Dio il popolo d’Israele si sentì vincolato da lacci molto stretti, quali sono quelli dei figli nei confronti dei loro genitori.
    Oltre all’esperienza collettiva della paternità di Dio, in cui soggetto è l’intero popolo come «figlio primogenito», la coscienza di tale paternità andò estendendosi ad altri soggetti nella vita di fede d’Israele. In un primo momento saltuariamente, ma poi sempre più spesso, essa si andò radicando anche nell’ambito individuale. Singoli membri del popolo, e in modo del tutto particolare i giusti (Sap 2,1-23; 5,5), e anche i poveri e i deboli (Sal 68,6), esperiscono Dio come Padre. Anche nelle preghiere il nome di Padre si va facendo più frequente (Ger 3,4.19; Sal 89,27; Is 63,16; Tb 13,4; Sir 23,1.4).
    Uno dei testi più significativi da questo punto di vista è il Sal 103, che si effonde in sentimenti intensamente filiali verso Dio:

    «Benedici il Signore, anima mia,
    non dimenticare tanti suoi benefici.
    Egli perdona tutte le tue colpe,
    guarisce tutte le tue malattie;
    salva dalla fossa la tua vita,
    ti corona di grazia e di misericordia;
    egli sazia di beni i tuoi giorni
    e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza.
    Il Signore agisce con giustizia
    e con diritto verso tutti gli oppressi […].
    Buono e pietoso è il Signore,
    lento all’ira e grande nell’amore.
    Egli non continua a contestare
    e non conserva per sempre il suo sdegno.
    Non ci tratta secondo i nostri peccati,
    non ci ripaga secondo le nostre colpe.
    Come il cielo è alto sulla terra,
    così è grande la sua misericordia
    su quanti lo temono;
    come dista l’oriente dall’occidente,
    così allontana da noi le nostre colpe.
    Come un padre ha pietà dei suoi figli,
    così il Signore ha pietà di quanti lo onorano.
    Perché egli sa di che siamo plasmati,
    ricorda che noi siamo polvere.[…].
    Benedite il Signore, voi tutte opere sue,
    in ogni luogo del suo dominio.
    Benedici il Signore, anima mia».

    Va ancora rilevato che questa coscienza della paternità divina sperimenta un allargamento universale verso la fine dell’Antico Testamento: Dio è Padre non soltanto di Israele, bensì di tutti gli uomini e di tutto il mondo (Sap 14,3).

    Gesù di Nazaret, un punto di arrivo

    La lunga storia di questa ricerca dell’umanità intera, e in particolare del popolo d’Israele, sfociò nell’esperienza religiosa di Gesù di Nazaret raggiungendo in lui un vertice impareggiabile. Cresciuto sull’humus di quella religiosità, egli ne assimilò i risultati sin da piccolo. Si può pensare fondatamente che siano stati Giuseppe e Maria, persone profondamente religiose, ad iniziarlo in essa. Sulle ginocchia di sua madre egli deve aver imparato a pensare e a sentire Dio come lo dipingevano le Scritture. Ma poi, certamente, come avremo occasione di vedere in seguito, egli operò dei ritocchi e delle modifiche in quell’immagine, proprio perché la sua esperienza di figlio lo portava a farlo. Che questa sia una indiscussa convinzione dei suoi discepoli lo fa capire il vangelo di Giovanni, in quella sua decisa affermazione: «Dio nessuno l’ha mai visto: un figlio unigenito, che è nel seno del Padre, ce lo ha rivelato» (Gv 1,18).


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