Carmine Di Sante
(NPG 1999-01-55)
Una parola sorprendente
Il tempo natalizio, incentrato sul racconto dell’alterità divina che, in Gesù, si rivela Compagnia dell’uomo, si conclude con la festa dell’epifania e ad esso fa seguito, dopo alcune domeniche ordinarie, il tempo pasquale, incentrato sulla morte e risurrezione di Gesù che fa il suo passaggio (è questo uno dei significati fondamentali del termine «pasqua») «da questo mondo al Padre», secondo la celebre espressione di Giovanni nel capitolo 13 del suo vangelo. E come il tempo natalizio è preparato dal periodo dell’avvento, così il tempo pasquale è preparato da un periodo noto come tempo quaresimale, dal latino quadragesimo, che vuol dire quarantesimo (sottinteso giorno), perché quaranta sono appunto i giorni di preparazione alla pasqua.
Nella liturgia di rito romano la quaresima inizia con il rito austero delle ceneri che il sacerdote impone sul capo dei fedeli accompagnandole con queste parole: «Convertitevi e credete al vangelo» (anticamente le parole pronunciate suonavano diversamente: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai»: formula rimasta anche nel nuovo rito della messa del Vaticano II, anche se solo facoltativamente).
Il tempo quaresimale, quindi, è tempo caratterizzato dall’imperativo della conversione, termine fondamentale che, nella visione biblica, esprime la certezza che nella storia non esiste, per l’uomo, situazione determinata o disperata dalla quale non ci si possa liberare. Il termine, nell’originale ebraico, vuol dire «inversione» di marcia, ed è la metafora efficace alla quale ricorre il profetismo per dire che, come il viaggiatore torna indietro quando si accorge di aver preso la strada sbagliata, così Israele può tornare indietro e riprendere la retta via quando si allontana da Dio.
L’annuncio della «conversione» come «interruzione della strada» è una metafora sconvolgente che istituisce una nuova concezione antropologica secondo la quale l’uomo non è l’espressione dei suoi determinismi, cioè delle forze o spinte che lo muovono come cause, ma trascendenza e alterità capace di sottrarsi al loro potere e dominarli. Il senso profondo della conversione, al centro del messaggio ebraico-cristiano, è in questa nuova autocomprensione antropologica che essa istituisce e che, nella storia delle culture umane, rappresenta una novità. Per il pensiero greco ad esempio (il pensiero che come nessun altro è stato in grado di oggettivarsi e di pensarsi) non esiste per l’uomo nessuna reale possibilità di cambiamento, perché ogni suo agire è determinato dalla forza della «necessità», di ciò che deve essere e non può non essere e alla quale è assurdo ribellarsi, al punto che anche chi vi si ribella, vi si ribella non liberamente ma perché necessitato. Anche se i nomi per esprimere questa necessità possono variare (dèi, destino, fato, ananke, cosmo, natura, legge), essi comunque veicolano indifferentemente la stessa antropologia: non è l’uomo che fa la storia, affermando su di essa la sua trascendenza, bensì è la storia che fa l’uomo, sottraendolo ad ogni responsabilità e plasmandolo e modellandolo contro la sua stessa volontà.
Il messaggio della conversione, come interruzione del determinismo e instaurazione della libertà, è ancora più sconvolgente oggi in cui, crollate le utopie del passato che alimentavano la speranza di poter cambiare il mondo costruendolo più giusto e fraterno, ad imporsi è rimasta solo l’ideologia della tecnologia: la teckne come logos che piega l’uomo ai suoi voleri e lo asservisce al suo potere, invece che a servizio del suo logos e strumento delle sue mani.
L’io come «de-cisione»
In una conferenza tenuta nel 1947 sulla concezione dell’uomo nella tradizione chassidica (la tradizione religiosa ebraica fiorita nell’Europa orientale nel 1700, intorno alla grande figura di Baalshemtov), Martin Buber affermava: «Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta. In questo preciso istante non mi devo occupare di altro al mondo che non sia questo inizio. Ogni altra presa di posizione mi distoglie da questo inizio, intacca la mia risolutezza nel metterlo in opera e finisce per far fallire completamente questa audace e vasta impresa. Il punto di Archimede dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso» (M. Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Magnano – VC 1990, p. 45).
Il primo significato del messaggio della conversione biblica, al centro del tempo quaresimale, è quello di nascere alla coscienza che, come vuole M. Buber, «l’unica cosa che conta nella vita» è di «cominciare da se stessi». Certo: fenomenicamente e ad una lettura immediata, prima che delle proprie scelte, il nostro «io» è il risultato delle scelte altrui: si parla la lingua del paese in cui si è nati, si aderisce al Dio della religione nella quale si è educati e si condividono gli ideali e i valori del gruppo o della cultura in cui si è formati. Forse, con più disincanto, bisogna ancora aggiungere che, prima che delle scelte altrui, l’io è il risultato, mirabile o terribile a seconda dei casi, di una pluralità di condizionamenti di cui ignora perfino l’esistenza: da quelli biologici, sui quali la ricerca medica contemporanea è particolarmente attenta (anche se, spesso, ideologicamente, perché si lascia ispirare dalla pretesa di ridurre il comportamento umano al biologico!), a quelli sociali ed economici, sui quali insisteva particolarmente l’analisi marxista della società, oggi a quelli astrologici, come mostra l’interesse crescente per gli oroscopi e segni zodiacali, nei quali sarebbe iscritto il proprio destino.
Proclamando la «conversione», la possibilità del cambiamento, il racconto biblico non ignora la trama dei condizionamenti, ma introduce in essi una fessura, uno squarcio o una rottura che apre l’io alla possibilità di slegarsi e di evadere, come ci si slega da una catena o si evade da un carcere. Il miracolo della conversione biblica è di sottrarre l’io al potere dei condizionamenti e di istituirlo come de-cisione: come possibilità di recidere i fili del passato che lo legano (è questo il significato del termine de-cisione, dalla radice latina che vuol dire «tagliare») e di accedere alla libertà della soggettività. Proclamare la conversione è annunciare che, per quanto fitta possa essere la trama dei condizionamenti di una esistenza, in questa l’io può sempre de-cidersi: staccarsi, separarli e separarsi; ed è promuovere l’io alla soggettività: il miracolo e la sorpresa di scoprirsi non più soggetto a (come nell’espressione essere soggetti all’autorità) ma soggetto di (come nell’espressione: «non trattarmi da oggetto ma da soggetto»).
Di fronte a Dio che gli parla
Ma come è possibile per l’io sottrarsi al determinismo dei condizionamenti e accedere allo spazio della de-cisione dove, recidendo i legami con il passato, nasce alla dimensione della soggettività e diviene capace di dire io, iniziando una storia «a cominciare da se stesso» che, come vuole Buber, è «l’unica cosa che conta»? Se i condizionamenti, da quelli che appartengono all’ordine biologico a quelli che si iscrivono nell’ordine psicologico, sociologico, economico e culturale, sono forze di fronte alle quali l’io non può nulla (e che, per questo, sono condizionamenti), non è contraddittorio affermare la possibilità di sottrarsi al loro potere decidendo, cioè recidendo i legamenti che lo avvinghiano? Se una mano si è legata, come può slegarsi?
Proclamando il messaggio della conversione, il racconto ebraico-cristiano annuncia all’io la possibilità di sottrarsi alla forza dei condizionamenti non perché dotato di energie recondite o sopite che, nascoste nel profondo dell’inconscio, del simbolo o della poesia, per sprigionare la loro potenza liberatrice, attendono di essere dissotterrate e riportate alla coscienza; bensì perché abitato da una Parola che, oltre ed altra da tutti i condizionamenti, lo interpella e, interpellandolo, lo libera radicalmente.
Appunto perché interpellato, l’uomo, per il racconto ebraico-cristiano, non è più solo la trama dei suoi condizionamenti, ma colui che il Tu di Dio costituisce «tu» attraverso la parola che gli rivolge e si attende. Per il racconto ebraico-cristiano l’io, ogni io, è l’abitato dal Tu di Dio che lo interpella. Senza la presenza di questo Tu, ogni vera decisione nel senso di recisione sarebbe una illusione, come ha ben visto il pensiero greco, per il quale la libertà umana è impossibile, essendo tutto scritto, lo stesso bene e lo stesso male, nella volontà degli dèi, come mostra mirabilmente la tragedia dell’Edipo Re di Sofocle.
Appunto perché la «conversione», la possibilità del cambiamento, è resa possibile solo da Dio, la conversione, nella bibbia, è tout court conversione a Dio.
Sempre nel mercoledì delle Ceneri con cui si apre il periodo quaresimale si legge un brano dove Dio si rivolge così al suo popolo per mezzo di Gioele: «Parola del Signore: ‘Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e con lamenti’» (Gl 2, 12). E segue l’assenso del profeta che ribadisce e motiva il comandamento divino della conversione con queste parole: «Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno, tardo all’ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura» (Gl 2, 13). E, rivolto ai capi del popolo, continua: «Radunate il popolo, indite un’assemblea, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo. Tra il vestibolo e l’altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: ‘Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al vituperio e alla derisione delle genti’» (Gl 2, 15-17).
«Tornare a Dio» è viversi alla presenza del Tu di Dio che abita il soggetto umano e lo appella elevandolo ad una identità dove non è più solo la trama dei condizionamenti e delle forze che lo motivano dal di dietro (forze sociali, economiche e culturali) o dal di dentro (forze biologiche, psicologiche e istintuali), bensì tu davanti a un Tu di fronte al quale decidersi.
Attestando l’alterità di Dio come Compagnia dell’uomo, la festa cristiana attesta che, in ogni istante, per l’io si apre la possibilità di sottrarsi al peso del suo passato, ricominciando daccapo e da se stesso.