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    Nicoletta Grieco

    (NPG 1999-01-8)


    Sei entrata in classe come tutte le mattine, con le guance rosse, perché, come sempre, arrivavi di corsa.
    Abbiamo iniziato a scherzare mentre, trafelata, trangugiavi la merendina che tua madre ti aveva riposto nella cartella.
    «Hai fatto storia? mi hai chiesto; ti ho risposto di sì, allora abbiamo discusso del paragrafo tre, c’era qualcosa che non avevi capito ed io ho cercato di aiutarti.
    Poi è entrata l’insegnante e abbiamo sistemato i quaderni sul banco; tutto si è svolto come sempre, le sue parole, le nostre domande, qualcuno che disturbava.
    La campanella, la ricreazione, noi di corsa fuori per arrivare prima al bagno; poi in un angolo a raccontarci i nostri segreti, tra un boccone e l’altro di pizza.
    Eri contenta ed eccitata perché nel pomeriggio dovevamo andare alla festa di Flavia; avevi già deciso cosa metterti.
    Siamo tornate al banco a malincuore al nuovo suono della campanella: ancora un’ora di grammatica e poi a casa.
    Poi, d’un tratto, senza un gemito, ti sei accasciata lentamente sul banco.
    Non me ne sono accorta subito, ho visto prima lo sguardo interrogativo della professoressa, che, preoccupata, si è slanciata verso di noi.
    Poi il tuo volto, bianco, e la tua bocca immobile.
    Le urla, le porte che sbattevano, la professoressa che ti teneva tra le braccia e cercava di rianimarti.
    Il tuo braccio, inerte, che penzolava lungo le sue gambe.
    Io non ricordo altro, mi hanno detto che sei morta, che hai avuto un infarto così, improvviso, anche se tutte le mattine venivi a scuola di corsa.
    Sei morta, ed io non riesco a capire, avevi undici anni, anch’io ho undici anni, ma alla morte non ci avevo mai pensato prima.
    Poi ci hanno portato al funerale; gente che piangeva, ho pianto anch’io, ma non so esattamente per cosa.
    Oggi, forse, mi sembra di capire, oggi che sono tornata a scuola e che accanto a me non c’è nessuno.
    Non sentirò più la tua voce, non ti aiuterò a correggere i compiti, non farai più domande alla professoressa.
    Non ci sei, ma mi viene naturale pensare che forse sei altrove, magari a casa, con la febbre.
    Nulla sarà più uguale per me, la mia adolescenza adesso sa cos’è la morte, la incontrerò tutte le volte che mi accingerò a sedermi al nostro banco.
    Mi piace pensare che sei nell’aria, che ci guardi dall’alto, forse da una nuvola; tuttavia qualsiasi consolazione che gli altri cercano di darmi, dicendomi che sei un angelo, che voli in cielo, che sei felice, è in forte contrasto con quello vuoto che c’è nel mio banco.
    La tua mancanza è innaturale, assurda; e il dolore è sordo dentro di me e improvviso, magari quando sto ridendo, spensierata, e mi volto di scatto e tu non ci sei.
    È che la morte è una cosa da grandi, è una cosa che viene quando hai già fatto molte cose, pensavo.
    Invece sei morta tu, e non riesco a vederti in cielo, vorrei sentire la tua voce, sentire il calore del tuo corpo.
    Sento la tua mancanza.


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