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    Natale, la compagnia di Dio



    Carmine Di Sante

    (NPG 1998-09-43)


    Il tempo di natale significa tante cose: vacanza, regali per bambini, scambio di doni, ricomposizione della famiglia (come vuole il proverbio che dice: «natale con i tuoi, pasqua con chi vuoi»), gite, viaggi, escursioni, «settimane bianche», fare ciò che piace, lasciarsi andare, abbandonarsi, sognare, fantasticare, scrivere, pensare. E poi: ovunque negozi addobbati, strade illuminate, alberi, presepi e luminarie, musiche dolci e zampogne, inviti, cene, incontri, chiasso, allegria, addio al vecchio anno, brindisi al nuovo, attese, desideri, progetti.

    Tanti significati

    Ma il periodo di natale è anche altro: solitudine perché gli amici con i quali abbiamo progettato si tirano indietro all’improvviso; incomunicabilità perché le persone che ci stanno intorno le sentiamo estranee; tristezza perché non siamo felici come dicono di essere gli altri (le statistiche dicono che nel periodo delle feste aumenta il consumo di alcool e di psicofarmaci per dimenticare); delusione perché i nostri vissuti non sono all’altezza dei sogni e delle attese costruite; disincanto perché, nonostante lo scambio degli auguri e i proclami di bontà, tutto resta come prima.
    E poi, se si ha il coraggio di staccare per un momento gli occhi dal proprio io per puntarli sul mondo di fuori: non continuano anche nel tempo di natale gli affamati a non mangiare, i deboli ad essere stritolati, i giusti ad essere violentati, i potenti ad arricchirsi, i furbi a prosperare? Se, a seconda dei casi, a livello psicologico il natale è esperienza di incanto e disincanto, ad un livello più profondo esso è attestazione ed annuncio di un evento straordinario verificatosi circa duemila anni fa sul quale si regge e si rigenera – come sulla roccia la casa o sulla radice l’albero – la storia umana: non la storia degli imperi e degli stati che si legge sui libri e che gli storici di professione ricostruiscono e organizzano in mappe o schemi coerenti a seconda delle loro diverse prospettive di partenza (questa storia è la storia intesa come «storiografia»: scrittura e riscrittura di fatti selezionati, diversamente ricostruiti e tramandati ai posteri), bensì la storia vissuta degli uomini e delle donne in carne ed ossa, alle prese con i problemi fondamentali dell’esistenza: la sopravvivenza, il problema prioritario delle società povere; e la relazione, il problema prioritario soprattutto dei paesi benestanti, nei quali il primo già in parte si è risolto.
    La storia reale degli uomini è la storia delle risposte a questi problemi, del loro intreccio mirabile (nel duplice senso di affascinante e terribile) e della violenza inaudita che da sempre le ha accompagnate e le accompagna. Per la comunità cristiana la festa del natale è soprattutto il racconto di un evento straordinario che ac-cade dentro questa storia così intesa e la rigenera dal di dentro.

    La «Parola si fece carne»

    Il quarto evangelista così condensa il racconto di questo evento: «E la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1, 14). Sono parole come lampi nella notte, che squarciano il linguaggio e accecano, suonando incomprensibili ed enigmatiche; ma, proprio come i lampi nella notte, sono un fascio di luce che rischiara. L’evento celebrato dalla festa del natale è l’evento della «Parola che si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» di cui Giovanni è testimone: «noi vedemmo la sua gloria».
    Alcune note essenziali per disporsi all’ ascolto di parole così mirabili:
    – «La Parola»: traduzione dell’originale Logos che la Vulgata, la prima traduzione latina della bibbia del V° secolo dopo Cristo, rende con Verbo. Ma cosa vuol dire, per Giovanni e per noi che vogliamo capirlo, Parola? Per rispondere a questa domanda è necessario interrogare le Scritture ebraiche che i cristiani conoscono con il nome di Antico Testamento e che nella liturgia vengono sempre proclamate prima della lettura del Nuovo Testamento. Nelle Scritture ebraiche, quando si parla della Parola, si intende sempre Dio come Parola: Dio la cui rivelazione e il cui mistero insondabile è di essere presenza che parla: Tu che si rivolge all’uomo e lo interpella, svegliandolo come si sveglia un dormiente e costituendolo suo partner. La Parola di cui parla Giovanni non è quindi quella che, come ha tematizzato il pensiero greco con la categoria del logos, riflette l’Intelligenza divina originaria ed esemplare, bensì quella che, come nella pagina della chiamata abramitica («Abramo, vàttene dal tuo paese, dalla tua patria, e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò»: Gn 12, 1) istituisce la relazione, comanda l’obbedienza, promette una nuova identità ed è benedizione per tutti i popoli della terra.
    – «Si fece carne»: nell’ uomo Gesù, Giovanni legge la Parola di Dio «farsi carne»; nel segmento della sua storia vissuta dall’inizio della sua nascita alla sua morte, egli vede disvelarsi compiutamente il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il termine a cui ricorre il quarto evangelista per esprimere il disvelarsi pieno di Dio attraverso la storia di Gesù di Nazareth è «carne»: termine paradossale che, biblicamente, non vuol dire «natura umana», in senso di struttura antropologica di cui l’uomo è dotato ontologicamente, bensì «condizione umana» nella duplice accezione di fragilità e di alienazione in cui si nasce e in cui si patisce. Scrivendo che la Parola si «fa carne» o «diviene carne» Giovanni osa l’affermazione che, in Gesù, Dio si «cala» dentro la condizione umana e vi resta per sempre e irreversibilmente, come per sempre e irreversibilmente un uomo resta uomo con la nascita.
    – «E abitò fra noi». Ma perché Dio, presenza interpellante e tu dialogante, si cala dentro la condizione umana di fragilità e di alienazione, di stupidità e di violenza, di debolezza e di colpa? La risposta di Giovanni è: «per abitarvi», per prendervi dimora, per farne la sua casa, per piantarvi la sua «tenda», come vuole il testo originale che sembra ispirarsi e radicalizzare il tema anticotestamentario dell’abitazione di Dio nella «tenda» per essere accanto al suo popolo nella peregrinazione nel deserto (cf Es 26, 1: 33, 7; Nm 5,3; Sal 15, 1; ecc.). Come una casa disastrata dal terremoto, così è, per Giovanni, la storia umana ferita dal peccato. Ingiustizie, sofferenze, indifferenze, guerre, violenze, omicidi, accaparramento, odio, rancore, falsità, menzogna, dominio, vendetta: questo il mondo in cui e di cui la storia umana vive. Ma ecco il paradosso e il miracolo: Dio non allontana da sé questo mondo né vi distoglie il suo sguardo. Non si lamenta, non si adira, né fugge né lo maledice. Ma vi discende e vi sosta. E non per un istante, ma per prendervi dimora e abitarvi.

    «E noi vedemmo la sua gloria»

    Ma se Dio scende ad abitarvi, allora il mondo non è più lo stesso, perché su di esso si disegna uno spazio dove l’umano comincia a rifiorire.
    Era un mite pomeriggio di ottobre. Con alcuni amici mi trovavo ad attraversare la periferia della città, una di quelle orribili periferie urbane con anonimi casermoni di cemento armato in mezzo a discariche e mucchi di macchine accartocciate. All’improvviso, ai lati della strada, fui attratto da una piccola e sfuggente sagoma, quella di un bambino indecifrabile e dolcissimo, seduto su un cocuzzoletto disadorno e sporco. Fui folgorato da questa presenza. Come se da essa emanasse una luce che all’improvviso fugasse lo squallore del paesaggio in cui ero immerso.
    Ho sempre ripensato a questa esperienza che mi pare la metafora più adatta per capire il senso dell’incarnazione e della «gloria» che, secondo Giovanni, vi risplende. Se in Gesù Dio si «incarna», è perché egli, invece di abbandonare l’umanità a se stessa, sceglie di prendervi dimora per rigenerarla e salvarla. Perché solo non sentendosi abbandonato nella sua alienazione, l’uomo può risalire la china, spezzando i meccanismi della incomunicabilità e della violenza e reinstaurando le relazioni della giustizia e della pace. La «gloria» della incarnazione, che il quarto evangelista vede rilucere nella nascita di Gesù, e soprattutto nella sua morte, è la potenza di questo splendore più luminoso del sole e di cui il sole è simbolo. La festa di natale attesta che, con la nascita di Gesù, la storia umana è abitata dal questa «gloria» di Dio che, attraverso la «gloria» di Cristo, diviene la «gloria» stessa dell’uomo su cui si riflette. Si è detto che l’essenza della festa è nel legame profondo che essa istituisce tra la collettività e l’alterità da cui dipende. Per la festa cristiana del natale, l’alterità assoluta che garantisce il fiorire e rifiorire della storia ha il volto personale di un Dio che ama l’uomo a tal punto da abitare con lui, condividendone la sorte e facendosene compagno.
    Quando Mosè sul monte Sinai chiese a Dio quale fosse il suo nome, ebbe come risposta: «Io sono colui che sono». Che vuol dire: «Sono colui che ti sta sempre presente; colui il cui essere è l’esserti accanto; colui che se tu l’abbandoni, non ti abbandona; colui che in ogni luogo ti è compagno di viaggio». Il natale è attestazione di questa Compagnia di Dio che in Gesù entra irreversibilmente nella storia. Celebrare il natale è attingere e riattingere a questo segreto che trasfigura l’esistenza da ambigua e alienata a buona e felice, riconsegnandola allo splendore delle origini, come nel primo mattino della creazione.


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