Incomunicabilità


Jessica Genesio

(NPG 1998-07-III)


Affacciata al balcone della sua stanza, Elena ripeteva a fil di labbra i versi del poeta maledetto (ma come poteva essere maledetto se suscitava emozioni così intense e vere?): «È ritrovata! Che cosa? L’eternità: è il sole in comunione con il mare»; e continuava a sognare. Immaginava di essere seduta sulla riva del mare, all’ora del tramonto, e di assistere al suo diventare tutt’uno con il sole. Ammaliata da quella visione, la sua immaginazione vagava tra tempo ed eternità e mille domande, mille risposte le inondavano la mente, senza un filo logico. Il suo corpo vibrava per le emozioni evocate da un giovane vissuto pressappoco cento anni prima.
Passò del tempo prima che s’accorgesse che la notte ormai faceva capolino, che il sole che le aveva fatto compagnia per tutto il pomeriggio, aveva ormai dato il cambio alle stelle.
Elena era ancora nella sua stanza, unico angolo tranquillo della casa, lontano dai fastidiosi trilli del telefono, dalle voci sconosciute della televisione, con il suo libro di poesie poggiato sulle ginocchia.
Tutti i giorni, terminato di studiare, si rifugiava sul balcone a leggere. Non faceva che questo Elena. Divorava un libro dopo l’altro, lontana dai coetanei. Il suo era un mondo a parte, un mondo di carta. Non si sentiva sola: le facevano compagnia i personaggi che si susseguivano diversi, ognuno col proprio carattere, con i propri mondi, rinchiusi tra le pagine dei libri. Bello era leggere, ancora più bello sentirsi dentro quei mondi evocati. Ieri combatteva contro i mulini a vento, oggi pensava all’eternità, e domani? Nuovi libri, nuove scoperte. Forse sarebbe stata la protagonista di una travolgente storia d’amore, forse uno scienziato che dopo anni e anni di ricerca aveva finalmente scoperto la formula dell’eterna giovinezza.
Trasalì sentendo aprire la porta. La madre la guardava severa: «È mezz’ora che grido! La cena è pronta, anzi ormai si sarà freddata... E tu? Sembri persa nel tuo mondo. Non rispondi al telefono, non mi senti quando ti chiamo. Cosa devo fare con te?». La voce si ruppe, cominciò a piangere ed Elena, ancora in bilico tra la spiaggia dei suoi sogni e la realtà in cui doveva suo malgrado tornare, si limitava al solito a guardarla senza dire nulla.
Quel silenzio infastidì sua madre, che ricominciò più aspra di prima: «Le ragazze della tua età escono, vanno al cinema, in pizzeria con gli amici, alle feste. Tu, invece, sempre chiusa in questa stanza... L’ho capito sai, non vuoi la mia compagnia; a stento mi rivolgi la parola. Ma i tuoi compagni? Perché non frequenti almeno loro? Sei così superba da pensare che non siano al tuo livello? Che non abbiano cose interessanti da dire?». Ricominciò a piangere e, tra i singhiozzi e le lacrime, le vennero fuori quelle parole: «Non sei una ragazza normale! ... Se vuoi mangiare, la cena è pronta».
Se ne andò, quasi sbattendo la porta. La violenza fu tale che i vetri della finestra vibrarono all’unisono con l’anima di Elena.
La poveretta non aveva detto nulla, non ne aveva avuto il tempo; era rimasta nel suo cantuccio, non si era mossa se non mentalmente per uscire dallo stato di ebbrezza provocato da Rimbaud e tornare alla realtà. Le frasi dette dalla madre, però l’avevano ferita. Perché non era normale? Non era suo diritto vivere dei momenti per sé, isolarsi dal chiasso e dagli altri, che incominciava a trovare sciocchi, vuoti? Prendere le distanze da amicizie che andavano bene per una serata, un pomeriggio noioso, un week-end divertente, ma che non rispondevano a nessuna delle sue domande importanti. Imparare a conoscere, a sapere. Di sé, del mondo, degli altri, delle emozioni e dei sentimenti, dei valori e degli ideali; lasciarsi travolgere dal bello, dal giusto. Dai sogni. Aveva bisogno, per questo, di entrare in comunicazione con altri mondi, di chi aveva fatto esperienza, di chi aveva veramente vissuto. Ma il mondo dei suoi genitori era chiuso per lei; quello dei suoi amici troppo povero. E allora entrava nel mondo dei poeti, della letteratura. Le piacevano di più i classici: i russi a 16 anni, i poeti francesi a 17, e qualche altro contemporaneo suggeritogli da amici (più vecchi) fidati. E più entrava in quel mondo «fittizio» (per sua mamma e per gli amici che la invitavano a uscire), più si sentiva ricca e più si comprendeva. Trovava le parole per dire qualcosa della sua vita interiore, di quel guazzabuglio di sentimenti che aveva dentro, e si confrontava – al sicuro dalla realtà che non perdona – con la cattiveria, l’incomprensione, le illusioni. O imparava a sentirsi in comunione con la natura e il mondo. Sarebbe riuscita a dire tutto questo a sua mamma? Lo sperava. In fondo anche lei un giorno era stata adolescente...
Ritornò in casa per mandare giù qualche cosa prima che si raffreddasse del tutto.