Luis A. Gallo
(NPG 1998-02-52)
L’esperienza filiale di Gesù
Gli studiosi rilevano un dato di singolare importanza nei vangeli: Gesù di Nazaret si rivolgeva a Dio invocandolo come «abbà». Ne sono testimonianza, diretta o indiretta, alcuni testi del Nuovo Testamento: Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6. Si tratta di un termine, preso dall’uso familiare degli ebrei, che ai tempi di Gesù veniva adoperato dai figli, specialmente dai figli piccoli ma non solo da essi, per rivolgersi al proprio genitore. Aveva quindi una carica affettiva molto accentuata, dal momento che denotava intimità e fiducia. Va pertanto tradotto come «babbo», «babbo carissimo», e non semplicemente come «padre». Secondo esegeti di peso, anche quando quel termine manca e al suo posto c’è «padre», in più di un’occasione bisogna pensare che originariamente esso c’era. Così, per esempio, nella preghiera del Padre nostro.
Che Gesù di Nazaret l’abbia adoperato per rivolgersi a Dio, e abbia invitato anche altri a farlo, costituisce una delle non poche sconvolgenti novità da lui apportate nello svolgimento della sua attività in ordine al regno di Dio. Infatti, il senso della trascendenza del Dio tre volte santo (Is 6,3) era andato crescendo in tale modo nel popolo d’Israele col passare del tempo, che da qualche secolo il suo nome – il tetragramma sacro JHWH – non veniva più pronunciato. Al suo posto si usavano altri termini, quali «Adonai» (Signore mio o nostro), «i cieli», «l’Altissimo», per evitare di profanarlo. Solo il Sommo Sacerdote, una volta all’anno, quando attraversava la tenda che separava il Santo dei Santi dal resto del tempio per compiere il rito della purificazione, lo pronunciava con gran timore e riverenza.
Nessun giudeo del tempo di Gesù avrebbe osato mai violare quest’usanza. Egli invece la trasgredì audacemente: invocava Dio con l’appellativo che aveva appreso nella sua esperienza famigliare. Accostare questi due termini – «Dio» e «babbo» – significava produrre un specie di cortocircuito imperdonabile secondo la mentalità imperante in Israele. Fu indubbiamente questo uno dei motivi per i quali lo condannarono a morte. Effettivamente, l’accusa che gli venne mossa nel processo religioso, quello che si svolse davanti al tribunale del sommo sacerdote Caifa e del sinedrio, fu di bestemmia (Mt 26,65-66; Mc 14,63-64). La sua bestemmia consistette nell’essersi dichiarato in quel momento Figlio di Dio, ma, più in là e più in profondità, la sua vera bestemmia consisteva per i capi religiosi nell’aver egli proposto un modo di onorare Dio e di rapportarsi con Lui differente da quello che essi praticavano e insegnavano, e che era di conseguenza comune nel popolo. Egli si discostava così da quel tremendo rispetto sacro che Dio richiedeva, osando accorciare le distanze tra lui e gli uomini fino all’inverosimile.
Ma se Gesù osò fare questo, era perché rispondeva alla sua esperienza personale. Dal modo in cui si rivolgeva a lui, utilizzando l’appellativo familiare di «babbo», trapela infatti quale sia stato la sua maniera abituale di rapportarsi con Dio: un rapporto fatto di intimità e fiducia e di familiarità estrema. Il dato colpisce ancora maggiormente se si tiene conto della sua condizione di uomo adulto (aveva attorno ai trent’anni quando iniziò la sua attività pubblica: cf Lc 3,43; Gv 8,57), non appartenente alla classe sacerdotale (cf Eb 7,13) più abituata al tratto con Dio nel culto, intensamente impegnato in un’attività travolgente. Non si trattava quindi di un bambino o di un adolescente, nei quali prevale di solito l’emotività, né di un esaltato misticheggiante, ma di un uomo maturo e indiscutibilmente dotato di grande realismo.
Uno dei momenti più forti di tale esperienza dev’essere stato, possiamo supporlo, quello della preghiera. Che Gesù pregasse personalmente, oltre a farlo con gli altri suoi connazionali nei momenti stabiliti dall’uso, è attestato più di una volta nei vangeli (Mc 1,35; Lc 6, 12; Eb 5,7; ecc.).
Giovanni riporta un’ampia e in qualche modo solenne preghiera – la cosiddetta «preghiera sacerdotale» – che egli avrebbe fatto nell’ultima cena, dopo aver parlato a lungo con i suoi amici (Gv 17,1-26). Ma, soprattutto, impressiona il prolisso racconto che fanno i sinottici della sua travagliata preghiera nell’orto degli ulivi, prima di essere tradito e consegnato ai suoi avversari (Mt 26,36-45; Mc 14,32-40; Lc 22,39-45). Secondo la narrazione di Marco, proprio in quel contesto di angoscia mortale egli pronunzia la parola che gli era tanto familiare, aggiungendo poi la dichiarazione della sua intera disponibilità al Suo volere: «Abbà, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). È una preghiera fatta d’intensa fiducia, ma allo stesso tempo di estremo abbandono.
Luca porrà poi sulle sue labbra, quando egli si troverà già sul patibolo della croce, innalzato tra il cielo e la terra e in preda alla più profonda sensazione di abbandono, le parole più di una volta ripetute dai salmisti dell’Antico Testamento (Sal 16,5; 31,6.16): «Nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46), ma anteponendovi l’invocazione filiale «Padre» che, come abbiamo detto, dovrebbe essere probabilmente sostituita da «Babbo». Così, ciò che egli aveva vissuto lungo tutta la sua vita, trovò la sua espressione culminante nel momento apice della sua vita. Egli si abbandonò fiduciosamente, pur in mezzo ai terribili dolori fisici e alla più angosciante sensazione di solitudine, nelle mani di Colui che aveva sempre invocato come Padre tenero e sollecito. Morì come figlio, affidandosi all’amore indefettibile di Dio.
Da tutto questo si può desumere che Gesù di Nazaret era come abitato da uno spirito filiale, ossia che in lui c’era un atteggiamento di figlio, il quale impregnava ogni suo pensiero, ogni sua parola, ogni sua azione. L’evangelista Giovanni riporta queste parole come dette da lui: «Il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa» (Gv 5,19). Siano uscite o no testualmente dalla sua bocca, esse descrivono bene ciò che i suoi discepoli avevano percepito a contatto con lui: egli si sentiva intensamente figlio, e come tale cercava di modellarsi in tutto su suo Padre. Si spiega anche così la sua sovrana libertà davanti a tutto e a tutti, sulla quale torneremo più avanti.
Lo Spirito di figliolanza comunicato ai discepoli
In Gesù, quindi, quello Spirito che, come abbiamo visto anteriormente, lo riempiva e lo spingeva costantemente ad assumere certi atteggiamenti, era uno «Spirito di figliolanza». Fu questo stesso Spirito che egli «contagiò» anche a coloro che l’avevano seguito. Il racconto di Gv 20,19-23 si può intendere in questo senso. Egli narra che la sera dello stesso giorno della sua risurrezione, Gesù si presentò ai suoi discepoli, ancora intimoriti per quanto era successo appena poche ore prima, e dopo aver augurato loro la pace, «disse loro di nuovo: ‘Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi’. Ciò detto, alitò su di loro e aggiunse: ‘Ricevete lo Spirito Santo’ …». Certamente l’episodio ha una portata molto più larga di quello che noi evidenziamo, ma lo si può capire anche in questa prospettiva: Gesù comunica il suo stesso Spirito ai suoi discepoli, perché vivano come egli visse nei confronti di Dio.
Abbiamo un’eco di questa convinzione in diversi scritti neotestamentari. Soprattutto nelle lettere di Paolo. In quella scritta ai cristiani della Galazia egli, che li aveva iniziati alla libertà in Cristo, si batte appassionatamente perché si mantengano ad ogni costo in essa. Non vuole che si lascino assoggettare da nessuno e da niente. Dice loro con grande determinazione: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). In tale contesto egli si appella alla loro condizione filiale, frutto dell’intervento di Dio stesso nella persona del suo Figlio, e poi aggiunge: «E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio» (Gal 4, 6-7).
E nella lettera ai Romani, il cui argomento in parte coincide con quella precedente, egli afferma, a conclusione di un impegnativo ragionamento: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Trapela da queste parole la ferma convinzione dell’Apostolo circa la presenza dello Spirito nei cuori di coloro che credono in Gesù Cristo: Egli è presente perché vi è stato «riversato» – è facile cogliervi l’immagine dell’acqua viva utilizzata anche da altri scritti del Nuovo Testamento per parlare dello Spirito da Dio –, e perciò li impregna totalmente. Ora, questo Spirito è appunto uno Spirito di figliolanza. Lo rileva ancora Paolo più avanti, nella stessa lettera: «Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà, Padre!’» (Rm 8,14-15).
È indubitabile che Paolo aveva imparato da Gesù queste cose, pur non avendo avuto contatti personali con lui durante la sua vicenda terrena. Egli sapeva che, come Gesù, coloro che credono in lui sono mossi dallo stesso Spirito di figliolanza, e che questo Spirito li muove ad avere gli stessi atteggiamenti che aveva lui nei confronti di Dio. Soprattutto, quello che è tipico di chi vive in un’intimità filiale e non nella paura: l’amore di figli, quello che accorcia le distanze, così come la paura degli schiavi l’aumenta. Un altro scrittore del Nuovo Testamento affermerà, in perfetta armonia con quanto dice Paolo: «Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore» (1Gv 4,18).