Gioia Quattrini
(NPG 1997-05-64)
Roma, 27 ottobre, ore 10.30, via Tasso 145. Sopra un foglietto i termini per un appuntamento con il Museo Storico della Liberazione. I partigiani che quel carcere subirono, che a quel carcere sopravvissero, ci accolgono sulla soglia con tenerezza. Ci fanno accomodare in una stanza, grande ma non abbastanza e così ci sistemiamo alla meglio. Scopriremo poi che non avrebbero mai creduto ad una simile affluenza. Un attimo di silenzio in cui i nostri sguardi incontrano i loro: sarà difficile. Noi sappiamo che loro parleranno senza farci nessuno sconto. Loro sanno che noi ascolteremo senza lasciarci coinvolgere, per capire una buona volta. La posta in gioco è molto alta quando due generazioni si chiedono il conto per un giudizio che pesa assai più di quello dato dai libri.
L’inizio è buono. Chiunque avesse pensato di trovare sdolcinata retorica è rimasto deluso. Nessuno sorride al racconto del tritolo per un attentato anti-tedesco nascosto in una sporta, sotto cime di rape. Nessuna lacrima ascoltando di una brodaglia con patate marce servita ai prigionieri una volta al giorno, dei due minuti concessi per i propri bisogni, davanti allo sguardo di scherno delle sentinelle tedesche. La realtà degli eventi, proposta senza accessori, non offre il fianco a reazioni inconcludenti.
Le parole sono pietre, ha detto qualcuno.
«Perché i partigiani responsabili dell’attentato di Via Rasella permisero l’eccidio delle Fosse Ardeatine invece di consegnarsi loro stessi al nemico?»: la domanda è dura, è diretta, senza esitazioni.
La risposta è dura, è diretta, senza esitazioni: «I Romani seppero del massacro alle Fosse Ardeatine soltanto a massacro avvenuto. I Tedeschi non proposero mai uno scambio con i partigiani responsabili. Se anche l’avessero chiesto i partigiani avevano il dovere di non accettare».
È il primo vero momento critico; la tensione sale, siamo in tanti a trattenere il fiato: in qualcuno s’insinua l’idea viscida della viltà: comodo gettare una bomba e poi avere il dovere di non consegnarsi. È precisa la sensazione che chi si sta confrontando con noi sia abituato, giunto questo punto, all’improvvisa tensione che si crea: «Un partigiano che si fosse consegnato, sottoposto alle più atroci torture, avrebbe potuto rivelare nomi e fatti segreti, mettendo in pericolo la vita di molti e non ultima la struttura stessa della Resistenza».
La spiegazione s’impone con la sua terribile nettezza, anche se emotivamente sembra non bastare. Detto così è duro. La guerra è dura. È giunto il momento per noi giovani di prenderne atto, con uno sforzo intellettuale da non sottovalutare.
Difficile replicare a chi ha pagato di persona il rispetto dei valori che oggi noi curiamo come piante già fiorite. Difficile replicare quando la sorte benevola ci ha nascosto dove quelle piante affondino le radici: scelte laceranti, la consapevolezza che dopo, comunque, niente sarebbe stato più come prima.
Denti strappati, vergate sotto le palme dei piedi, scosse elettriche ed iniezioni di sostanze che facciano salire la febbre; giorni e notti trascorsi dentro uno sgabuzzino trasformato in cella di segregazione. Nonostante queste torture, i Tedeschi ottennero poconiente dai nostri partigiani: Gianfranco Mattei, giovane professore di chimica, si uccise impiccandosi in carcere per il timore di fare rivelazioni preziose; Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo, colonnello del Genio, stette mesi nella cella d’isolamento, picchiato di continuo. Le uniche parole che riuscirono a strappargli furono il suo nome, il suo cognome, il suo grado nell’esercito.
Giovani studenti, militari, sacerdoti, insegnanti e commercianti, nobili e borghesi, andarono ad affollare le fila della Resistnza. «Perché sopportare tanto?».
I motivi della gran sopportazione sono incisi con strumenti di fortuna sulle pareti della piccola cella n. 2: W L’ITALIA oppure LA MORTE È BRUTTA PER CHI LA TEME oppure SIGNORE FACCI LIBERI.
Un ragazzo con lo sguardo severo, quello di noi che ha posto le domande più dure, è accanto a me in questa cella di pochi metri per pochi metri e senza neanche avvedersene si segna con la croce. Il gesto si diffonde tra la folla di giovani. Qualcuno parla di una sorta di altare laico dove l’uomo ha sacrificato la propria vita per amore dell’uomo.
Io mi trattengo ancora sulla soglia fin quando un tenero vecchio mi spinge dolcemente e con il dito mi indica un angolo, senza parlare.
Capisco da me che quella era probabilmente la sua cella, quello il suo angolo. Mi dice, indicando quanti siamo, che la forza di resistere nasceva da un sogno che tanto somigliava a noi in questo momento: una folla di giovani liberi e colorati, vocianti e curiosi, timidi intraprendenti e ben nutriti, soprattutto liberi di dire e di fare. Che ci aveva immaginato così mille volte e mille volte eravamo sfumati. Oggi invece poteva toccarci.
Mi sorprendo a pensare dove fosse mio nonno quando qualcuno sconosciuto combatteva anche per me.
La risposta del grande vecchio arriva risentita come se fosse lui mio nonno.
«Suo nonno forse nascondeva un ebreo o proteggeva un partigiano braccato dai tedeschi. Suo nonno forse non faceva nulla di tutto questo, e allora? Ciò che fa volare un uomo non può prestare le proprie ali ad un altro.Ognuno segue la propria luce. Impari questo senza pretendere di insegnare niente a suo nonno. Cerchi di capire. Non si affretti a giudicare».
Usciamo da questo museo. E abbiamo finalmente capito.
La gioventù ha valori forti e sogni ardenti. Ogni tanto c’è bisogno di qualcuno che le ricordi di non cercare la realizzazione di questi valori e di questi sogni sugli usci delle case o davanti le porte delle fortezze ma infrangendo il proprio cuore sulla roccia, con generosità.